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La distinzione di Bourdieu e le gerarchie social

2.Carolyn Korsmeyer e il tentativo di “assaporare” il disgusto

V. Il disgusto in rapporto alla società e alla morale

2. La distinzione di Bourdieu e le gerarchie social

Riprendo qui il discorso dal punto in cui lo avevo lasciato nel capitolo precedente, vale a dire dall’illustrazione, che Mcginn propone, del ruolo che il disgusto gioca all’interno del fenomeno sociale. Mcginn faceva notare che la condizione umana ci pone di fronte ad un paradosso: da una parte siamo spinti, per natura, ad associarci agli altri, ma dall’altra proviamo disgusto per molte delle pratiche messe in atto dal prossimo e risultiamo, a nostra volta, disgustosi per lui. La conseguenza, sosteneva Mcginn, è quella di essere “costretti”, dal fatto stesso di essere inseriti da sempre in un contesto sociale e di essere da esso formati, a recitare un “ruolo” sociale. La società stessa ci “insegna” a distinguere nettamente tra i comportamenti che possiamo assumere nella sfera privata e i comportamenti che meglio si adattano alla sfera pubblica, così da apparire il meno disgustosi possibile. Mcginn non sostiene che vi sia un io autentico che precede il fatto di essere inseriti in un contesto sociale, egli ritiene, diversamente, che si tratti di due dimensioni che ci costituiscono allo stesso modo e allo stesso tempo: da una parte, in quanto ci percepiamo come simili agli animali per via della nostra dimensione corporea, ci avvertiamo e percepiamo gli altri come disgustosi, mentre dall’altra, in quanto esseri razionali, siamo da sempre inseriti in un contesto sociale di cui abbiamo bisogno e che ci costituisce anche nella nostra sfera privata. È proprio la società, infatti, che stabilisce ciò che è socialmente accettabile e che ci permette di percepire noi stessi e gli altri come disgustosi, quando la nostra animalità ci allontana dai criteri sociali universalmente accettati. Questo, come avevamo visto, innesca una specie di competizione sociale inconscia, la quale si gioca sulla capacità di recitare meglio degli altri. Alla luce della posizione privilegiata che la propria condizione sociale permette di raggiungere, ci si percepisce come meno disgustosi e si additano coloro che non possiedono i mezzi economici per “recitare” altrettanto bene.

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Questo meccanismo si avvicina molto a ciò di cui parla Bourdieu ne La distinzione. In quest’opera, a essere al centro del discorso, è il gusto più che il disgusto, dal momento che essa si configura proprio come una critica sociale del gusto. Come vedremo, però, le considerazioni che Bourdieu trae sono utili ai fini del nostro discorso, poiché egli fa notare che:

I gusti si affermano in forma negativa, attraverso il rifiuto opposto a gusti diversi. In materia di gusti, più che in ogni altra, ogni determinazione è negazione; ed indubbiamente i gusti sono anzitutto dei disgusti, fatti di orrore e di intolleranza viscerale (“fa vomitare”) per gli altri gusti, cioè per i gusti degli altri. 268

La tesi da cui Bourdieu muove, è che, con il solo fatto di esistere in un certo spazio sociale, ci si distingue rispetto agli altri, anche senza il perseguimento intenzionale ad affermare la propria differenza. In quest’ottica, il gusto si configura come una manifestazione di discernimento privilegiata, come un senso dell’orientamento sociale che permette di classificare e giudicare i comportamenti propri e altrui, al di là, e prima ancora, di qualsiasi argomentazione esplicita. «I gusti rappresentano l’affermazione pratica di una differenza necessaria. »269, scrive Bourdieu, il quale cerca di far notare come il gusto sia la

manifestazione di un discernimento che è prodotto dalle condizioni sociali. Scrive infatti: In questo caso la sociologia si ritrova sul terreno per eccellenza dove il sociale viene disconosciuto. Non basta che essa combatta le evidenze fondamentali e che riconduca il gusto, questo principio increato di ogni “creazione”, alle condizioni sociali di cui esso rappresenta il prodotto […] Non basta tener presente la funzione che la cultura legittima adempie nei rapporti tra le classi per raggiungere la certezza di non lasciarsi imporre l’una o l’altra di quelle interessate immagini della cultura che gli “intellettuali” e i “borghesi” si rimandano reciprocamente all’infinito. […] ciò accade perché questa esplicazione è destinata a rimanere parziale, e quindi falsa, fino a che non includa la presa di coscienza del punto di vista a partire dal quale essa viene enunciata e, quindi, la costruzione del gioco nel suo

insieme: è solo al livello del campo delle posizioni che si definiscono sia gli interessi generali connessi

al fatto di partecipare a questo gioco, sia gli interessi particolari legati alle diverse posizioni e, grazie a ciò, la forma e il contenuto delle prese di posizione in cui questi interessi si esprimono.270

L’autore mette, poi, in evidenza due fatti di fondamentale importanza, attorno ai quali si muoverà la sua riflessione: il primo riguarda il rapporto stretto che lega le pratiche culturali al capitale scolastico e all’origine sociale e il secondo evidenzia che, a parità di capitale scolastico, il peso dell’origine sociale aumenta quando si tratta di parlare degli ambiti più

268 Bourdieu, La distinction, Les éditions de minuit, Parigi 1979. Trad. It Guido Viale, La distinzione, Il Mulino, Bologna,

1983. P. 56

269 Ivi.

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lontani dalla sfera stretta dell’educazione scolastica, come ad esempio l’abbigliamento o i gusti sull’arredamento.

Bourdieu prende, allora, in considerazione la concezione estetica e sostiene che l’estetica popolare si presenta come il rovescio negativo dell’estetica kantiana. Si tratta, infatti, di un’estetica che subordina la forma e l’esistenza stessa dell’immagine alla sua funzione. Scrive Bourdieu:

Mentre per comprendere ciò che costituisce la specificità del giudizio estetico Kant si ingegnava a distinguere “ciò che piace” da “ciò che fa piacere” e, in modo più generale, a discernere “il disinteresse”, unico garante della qualità autenticamente estetica della contemplazione, dell’“interesse dei sensi”, che definisce il “piacevole” e dall’“interesse della Ragione”, che definisce “il Bene”, i membri delle classi popolari, che da ogni immagine si aspettano che adempia a una funzione, anche solo quella di segno, esprimono in tutti i loro giudizi un riferimento, spesso esplicito, alle norme della morale e della piacevolezza.271

Il ceto popolare fa sempre riferimento alla realtà della cosa rappresentata o alle funzioni che la rappresentazione della cosa può svolgere poiché, come fa notare l’autore:

L’atteggiamento estetico che tende a mettere tra parentesi la natura e la funzione dell’oggetto

rappresentato […], come pure tutte le risposte puramente etiche, per prendere in considerazione

esclusivamente la forma della rappresentazione, lo stile, percepito e valutato attraverso il confronto con stili diversi, è una dimensione di un rapporto complessivo nei confronti del mondo e degli altri, di uno stile di vita, in cui si esprimono in forma irriconoscibile gli effetti di particolari condizioni di esistenza […]. Detto in altre parole, l’atteggiamento estetico presuppone la distanza dal mondo (di cui la “distanza dal ruolo”, messa in luce da Goffman, rappresenta una dimensione particolare) che sta alla radice dell’esperienza borghese del mondo.272

L’atteggiamento estetico, dunque, si fonda sulla distanza dal bisogno, di cui soltanto una cerchia privilegiata di persone può godere:

Affermazione di un potere sulla necessità dominata, esso implica sempre la rivendicazione di una superiorità legittima rispetto a coloro che, non potendo far valere questo disprezzo delle contingenze con il lusso gratuito e lo sperpero ostentatorio, restano sottomessi al dominio degli interessi e delle urgenze di tutti i giorni: i gusti liberi non possono affermarsi in quanto tali se non in rapporto con i gusti imposti dalla necessità, che in questo modo vengono introdotti nell’ordine dell’estetica e quindi costituiti come volgari.

Secondo Bourdieu, questa pretesa aristocratica passa inosservata e, quindi, è la meno esposta a contestazioni, poiché il privilegio di classe riesce ad apparire come se fosse fondato in natura. Scrive, a proposito, l’autore:

L’ideologia del gusto naturale trae le sue parvenze e la sua efficacia dal fatto che, come tutte le strategie ideologiche che si sviluppano nella lotta quotidiana tra le classi, naturalizza delle differenze reali,

271 Ibidem, P. 40 272 Ibidem, P. 52-53

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trasformando in differenze di natura delle diversità che derivano invece dai modi di acquisizione della cultura, che presenta meno tracce visibili della sua genesi; che non avendo nulla di imparato, di già preparato, di affettato, di scolastico, o di libresco, manifesta con disinvoltura e naturalezza il fatto che la vera cultura è natura, rinnovato mistero dell’immacolata concezione.273

Da ciò deriva, di necessità, che qualcuno è superiore e qualcuno è inferiore, «l’ordine sociale si iscrive, poco per volta, dentro i cervelli»274 Il presunto disinteresse della disposizione

estetica sostenuto da Kant si rivela come una mistificazione alla luce delle indagini di Bourdieu, dal momento che la dimensione estetica colloca gli individui all’interno di un determinato spazio sociale, di cui è a sua volta frutto. Bourdieu mette in evidenza il fatto che l’estetica si radica in una dimensione culturale ed è, quindi, lontana dall’idea del gusto puro. È proprio sulla base di questo sistema, sul quale la società è costruita, che si formano degli habitus, ossia sistemi di disposizioni che generano comportamenti e criteri di valutazione dei atteggiamenti propri e altrui, i quali a loro volta contribuiscono alla costruzione di quel medesimo ordine sociale che li forma. Nel rapporto tra queste due capacità (quella di produrre e quella di distinguere) si costituisce l’immagine del mondo sociale, vale a dire lo spazio dei diversi stili di vita. È chiaro, allora, che condizioni materiali e culturali di esistenza differenti, producono habitus diversi ed è proprio su questa differenza che si fonda l’identità sociale. Scrive Bourdieu:

Gli schemi dell’habitus, che sono forme di classificazione originarie, sono debitori della loro efficacia proprio al fatto che funzionano prima di giungere alla coscienza e all’ordine del discorso e, quindi, fuori dal raggio di azione di un esame e di un controllo volontari: in quanto principi di orientamento pratico delle pratiche, essi nascondono, sotto i gesti più automatici o nelle tecniche del corpo apparentemente più insignificanti […] quelli che solo impropriamente, potremmo chiamare dei valori, mettendo all’opera i principi più di fondo di costruzione e di valutazione del mondo sociale […] in modo da dar loro le parvenze di un fatto naturale.275

La conoscenza del mondo sociale attiva degli schemi storico-culturali di percezione e di valutazione che sono il risultato della divisione oggettiva in classi e che entrano in funzione prima di arrivare alla coscienza. «Questi criteri di divisione sono condivisi dall’insieme dei soggetti di questa società e rendono possibile la produzione di un mondo comune e dotato di senso, cioè di un mondo di senso comune.»276

273 Ibidem, P. 69 274 Ibidem, P. 462 275 Ibidem, Pp. 455-456 276 Ibidem, P. 458

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È evidente quindi, come notavamo all’inizio del capitolo, che lo spazio sociale di cui parla Bourdieu è uno spazio agonico, vale a dire un campo di battaglia in cui si giocano le lotte tra i singoli individui che, agiti da un habitus di classe, lottano per mantenere o per occupare un punto dello spazio sociale. Scrive l’autore:

I confini (del mondo sociale) rappresentano in questi casi delle frontiere da attaccare e da difendere a viva forza, e i sistemi di classificazione che li fissano costituiscono strumenti di conoscenza assai meno di quanto siano invece strumenti di potere, subordinati a precise funzioni sociali, e indirizzati, in modo più o meno scoperto, a soddisfare gli interessi di un determinato gruppo.277

E conclude: «È solo nella lotta, e grazie a essa, che i limiti incorporati si trasformano in frontiere, con cui ci si scontra e che occorre spostare.»

Alla luce di ciò, Bourdieu afferma:

«Così, la teoria del gusto puro, nonostante continui a negare al gusto tutto ciò che può somigliare ad una genesi empirica, psicologica e soprattutto sociale, ricorrendo ogni volta alla scissione magica tra il trascendentale e l’empirico, trova però le sue basi […] nell’empiria di un rapporto sociale: l’antitesi tra la cultura ed il piacere fisico (o, se preferiamo, la natura) si radica nella contrapposizione tra la borghesia colta ed il popolo, sede fantasmatica della natura incolta, della barbarie dedita al puro godimento».278

Ecco perché, allora, secondo l’autore, il principio del gusto (puro) non è altro che una forma di disgusto: «disgusto per gli oggetti che impongono il godimento e disgusto per il gusto grossolano e volgare che si compiace di questo godimento imposto.»279 Il piacere ascetico e

puro sembra fatto apposta per diventare il simbolo della superiorità morale: «il disgusto scopre nell’orrore l’animalità comune, su cui e contro cui si costruisce la distinzione morale.»280 L’arte finisce, così, per avere il compito di attestare la differenza tra gli uomini e

i non uomini:

la posta in gioco del discorso estetico, e dell’imposizione della definizione di ciò che è autenticamente

umano, che essa mira a realizzare, non è altro, in ultima analisi, se non il monopolio dell’umanità. […]

La contrapposizione tra i gusti di natura ed i gusti di libertà introduce un rapporto, che è lo stesso che passa tra il corpo e l’anima, tra coloro che sono solo natura e coloro che, con la loro capacità di dominare la propria natura biologica, fanno valere la loro legittima pretesa di dominare la natura sociale.281

Questo discorso ci riporta proprio al punto in cui ci eravamo fermati nella considerazione dell’opera di Mcginn: ciò che vogliamo inconsciamente nascondere, attraverso la costruzione 277 Ibidem, P. 470 278 Ibidem, Pp. 488-489 279 Ibidem, P. 486 280 Ibidem, P. 488 281 Ibidem, P. 489-490

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di una gerarchia sociale, la quale si serve anche e soprattutto dell’estetica per affermarsi, è la nostra animalità degradante, la tendenza ad apparire disgustosi a noi stessi e agli altri, la quale si manifesta in modo chiaro in coloro che non possono nasconderla dietro a sofisticazioni illusorie, per mancanza di condizioni materiali e culturali adeguate. Questa gerarchia sociale rappresenta, attraverso un parallelismo simbolico, la medesima contrapposizione che intercorre tra il corpo e l’anima: l’anima è spirituale, incorporea e immortale, mentre il corpo è fragile, materiale e soggetto a decomposizione. L’anima, dunque, ci eleva e ci rende simili a un dio, mentre il corpo ci abbassa alla sfera animale. Di conseguenza, l’anima deve essere superiore al corpo e quest’ultimo deve essere reso invisibile nei suoi bisogni sensibili e carnali. L’anima domina e il corpo è dominato, e così, allo stesso modo nella società, chi riesce a nascondere meglio, a causa della propria posizione sociale, la propria dimensione animale domina e gli altri sono dominati. Su ciò si fonda l’associazione che Mcginn aveva messo in evidenza tra la povertà e la sporcizia.