* Parte di questo articolo è stato pubblicato in “Cooperazione Educativa”, n. 5/2003, edizioni Junior.
Premessa
Non è cosa facile raccontare una storia collettiva, ma dodici anni sono un tempo medio, buono per comprendere meglio ciò che si è andati facendo sull’onda dell’intreccio tra passione e ragione. Ri-leggendo i fatti e i documenti si possono riscontrare scarti interes-santi tra quello che si era pensato lucidamente di realizzare e quello che insieme si è potuto realizzare. È la natura della scelta coope-rativa come costruzione culturale comune che ci induce a questo.
Si tratta di segnalare piste, tracciare linee, ritrovare fili e di legger-li ancora una volta con l’occhio rivolto all’avvenire, allo sviluppo della ricerca e delle pratiche formative cooperative. I percorsi di formazione si adattano agli educatori cui si rivolgono, è a loro che la proposta deve essere utile; è loro che deve sostenere nella fatica quotidiana coi bambini, a scuola e in ogni luogo dove si incontrano adulti e bambini. Riandare alle esigenze di base è un modo per ri-scoprire la vocazione, la natura della formazione così come la può intendere il Mce.
Ma c’è un altro pensiero che ci ha percorso i questi anni: la ricer-ca continua perché l’oggetto individuato non è mai definitivo. Così nel ripercorrere le tappe che portarono alla creazione e al consoli-damento delle Scuole Estive (Scest), siamo consapevoli che l’og-getto della formazione si è andato via via individuando e modifi-cando: proprio la flessibilità della proposta, la capacità di accoglie-re idee, uomini e donne, progetti nuovi hanno contributo a accoglie-renderla uno strumento vivo e ancora capace, modificandosi, di interpreta-re nuovi bisogni formativi, bisogni formativi di nuovi educatori ed educatrici.
Laboratori formativi
Nel ripensare ad una nuova proposta si riparte dall’analisi degli insegnanti e dei loro bisogni formativi. Gli anni ottanta sono stati
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percorsi, non solo nel Mce ma in tutta la scuola elementare (Nuo-vi Programmi e Ordinamenti del 1985) da corsi di aggiornamento per aree disciplinari. Inoltre l’intera formazione iniziale degli in-segnanti era, ed è, basata quasi totalmente sui contenuti dei saperi da trasmettere ai bambini. Scarsa, caotica è invece la competenza degli insegnanti sui processi di apprendimento dell’individuo e nei gruppi. Si può dire che negli operatori scolastici la parte dell’In-segnare (istruzione, contenuti e metodi) sembra abbastanza forte, quanto invece appare debole la parte dell’E-ducare (aiutare a cre-scere bambini interi). Si credette pertanto di individuare una pre-valenza nelle carenze relative alla conoscenza dei processi relazio-nali e comunicativi, una mancanza nel possesso di strumenti per la comprensione e la gestione dei gruppi in apprendimento. Di conse-guenza si agì predisponendo momenti formativi capaci di sostene-re insieme l’analisi dei contenuti, dei metodi e dei processi di ap-prendimento.
Nel tentativo di predisporre spazi formativi adatti a far riflette-re sull’intriflette-reccio tra contenuti, metodi e riflette-relazione educativa, il Mce poteva già disporre di una proposta consolidata, il Laboratorio a li-vello adulto. Freinet aveva lasciato ai movimenti di Ecole moder-ne un’idea di scuola attiva che fortemente aveva permeato gli inse-gnanti del Mce: si tratta dell’idea che l’apprendimento per i bam-bini avviene per Tatonnement, ovvero in forma sensibile, guidato da ipotesi globali (affettive e cognitive insieme) a volte nemmeno esplicitate. Il contesto d’apprendimento migliore in tale prospettiva era il Laboratorio, un momento di scambio cooperativo, capace di partire dall’esperienza corporea (in cui mente e fisico si fondono) individuale, di svilupparsi in una fase di gioco reciproco, per con-cludersi in un prodotto collettivo, nel quale tutti i membri del grup-po si riconoscono. Un prodotto finale che raccoglie, registra, docu-menta anche i cambiamenti avvenuti nel soggetto in apprendimen-to. La forma del laboratorio si era sviluppata in seguito, a partire
dagli anni settanta, anche come momento di formazione e autofor-mazione degli insegnanti1.
Animazione, Osservazione
Infatti il primo fulcro attorno al quale si sviluppò l’iniziativa for-mativa estiva, nel 1993 a Revine (Tv) fu proprio “Il laboratorio allo specchio”. Si voleva indagare collettivamente sulla forma labora-torio come strumento formativo tra educatori, così venne introdotta una esplicita innovazione che fece discutere: fu inserita una “fun-zione osservativa” nel laboratorio. La motiva“fun-zione di partenza fa-ceva riferimento alla situazione di apprendimento nel gruppo classe e può essere così riassunta: l’educatore, mentre opera sui contenuti, deve continuamente attivare un “terzo occhio” capace di cogliere le modalità relazionali entro cui si svolge il processo di apprendi-mento. Si tratta di una dimensione non facile da tenere aperta, so-prattutto in contesti così coinvolgenti dal punto di vista affettivo come i gruppi (di bambini e adulti). Il rischio di replicare compor-tamenti e atteggiamenti è forte in istituzioni consolidate come la scuola, e ciò va a detrimento della dimensione dell’apprendimento inteso come cambiamento e crescita2. All’inizio dunque fu un vero e proprio Osservatore, una persona diversa dall’Animatore, incari-cata di osservare l’intreccio tra il contenuto da apprendere e il rap-porto educativo. La sua presenza a volte muta, a volte partecipante, sottolineava l’impegno di tutti i soggetti nel costruire cooperativa-mente il contesto formativo, ma attivava altresì domande, dubbi, imbarazzi. Sembrava ad alcuni di lavorare in situazione controllata, di vivere presenze estranee e disturbanti, di avere un registratore,
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1 Sul laboratorio adulto vedi anche: A. Arcari, G. Bestetti, Il laboratorio adulto, in “Co-operazione Educativa”, anno LIII, n°1, gennaio-febbraio 2004.
2 Sul significato dell’osservazione nella relazione educativa, vedi anche Appunti sull’os-servazione di Renato Rovetta, seconda parte di questa pubblicazione.
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o peggio un giudice in gruppo. Alla fine della giornata o del ciclo laboratoriale l’osservatore restituiva ai partecipanti e ai conduttori osservazioni e annotazioni, allo scopo di rendere più consapevole il percorso di apprendimento fatto dal gruppo. Dopo i primi anni si preferì una formula soft, adatta a far presente la necessità di un at-teggiamento attento a sé e agli altri, ma senza la presenza in labora-torio di una figura estranea. I partecipanti furono forniti di strumen-ti quali griglie, diari di bordo o altro, attraverso cui esercitavano da sé la funzione osservativa; inoltre furono predisposti all’interno del laboratorio momenti di rielaborazione comune tra i partecipanti al fine di condividere non solo il prodotto finale, ma anche i momenti di impasse, di slancio, di svolta, in una parola le tappe del percorso di apprendimento (tatonnement) così come esso si era sviluppato.
Tematico, sequenziale
Caratteristica della volontà di “Far Scuola” è la predisposizione di contesti di apprendimento complessivi. Una scuola non è un in-sieme casuale di buone proposte, ma un cammino articolato e con-nesso nelle sue parti, con una propria proposta d’uso, sequenziale e non invertibile. In quel momento di nascita pensavamo che una buona scuola si sviluppa come una narrazione, capace di connettere luoghi, personaggi e tempi. Credo che sia stato per sostenere que-sto intreccio che si scelse un approccio tematico ai problemi dell’e-ducare. Individuando di volta in volta una loro possibile tematizza-zione si cercava di dare visibilità, denominatematizza-zione, a ciò che appari-va ancora come una dimensione invisibile. La relazione educatiappari-va venne quindi sempre messa al centro delle attività (di azione e ri-flessione pedagogica) di volta in volta cercando di illuminarne una qualche parte. (vedi l’allegato quadro dei temi).
Quelle titolazioni rappresentano anche il punto di incontro dei soggetti (dei gruppi di ricerca Mce) che via via hanno concorso alla realizzazione dei momenti formativi: i primi titoli ricordano
infat-ti la radice dei laboratori e il gruppo di donne che si occupava del-la Pedagogia deldel-la differenza sessuale (poi divenuto Kore); durante tutto il periodo e particolarmente negli ultimi anni si può leggere in trasparenza il largo contributo dato dal gruppo che si occupava dell’intreccio tra educazione e società multiculturale.
Infine la tematica contribuisce non poco alla ricerca di connes-sioni tra i vari ambiti della proposta formativa, la quale si snoda in una settimana ricchissima di proposte che andavano dall’acco-glienza, alle plenarie iniziale e finale, alla scelta di un laboratorio e di un seminario. Accanto a queste proposte strutturate convivono poi altri momenti per così dire meno strutturati. La tematizzazio-ne permette, per quanto possibile, di tetematizzazio-nere insieme la variabilità e talvolta l’irriducibile originalità delle proposte; di ricercare fili e nodi, di legare insieme alcuni pezzi della propria e collettiva espe-rienza tracciando possibili significati educativi, individuando linee progettuali future.
Nel corso degli anni si sono quindi creati degli “agglomerati te-matici” che hanno aiutato gli educatori ad esplorare i problemi edu-cativi in maniera nuova, partendo dalle realtà e non dalle divisio-ni disciplinari. Ma ciò che più importa è che, contemporaneamen-te alla variabilità contemporaneamen-tematica, la proposta nella sua sequenzialità si è proposta come stabile, e ciò ha facilitato nei partecipanti un meta-apprendimento che attiene non tanto alle tematiche trattate, quanto al metodo pedagogico proposto.
Orizzontale-Verticale
Altra caratteristica di una Scuola è la presenza di differenti figu-re al suo interno. Pur nel pensiero di una loro circolarità, rimanga costitutiva della proposta formativa la presenza di maestri e allievi.
Si tratta di funzioni temporanee (nessuno è sempre maestro né sem-pre allievo), ma fondanti nella loro differenza: per apsem-prendere è ne-cessario un contesto in cui qualcuno si assume la proposta e
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no si affida ad essa in un dialogo continuo. Fin da subito la Scuola estiva cercò di coniugare la tradizionale forma dello scambio oriz-zontale, cooperativo, dei gruppi di autoaggiornamento e autoaiuto con l’idea di una formazione che comprende anche una forma di verticalità: una guida, un esperto, una figura di animatore capace di prendere su di sé la responsabilità del gruppo nel percorso d’ap-prendimento a cui gli insegnanti partecipanti potessero in qualche modo rivolgersi con fiducia.
Il laboratorio conserva una sua centralità, seppure i modi del-la sua conduzione variano a seconda degli animatori che curano del-la proposta. In questi anni sono stati allestiti circa settanta laborato-ri ed è ovvio pensare che proplaborato-rio l’invito stesso a rendere partecipi altri educatori della ricerca iniziata abbia aiutato a differenziare e a raffinare le forme della presentazione e del coinvolgimento.
Difficile tracciare confini ma, sulla scia della tradizionale pratica formativa Mce, ci sembra si possa dire che uno dei fondamenti co-muni ad ogni Laboratorio è il partire dal soggetto in apprendimen-to: l’esperienza umana e professionale del partecipante, la sua sto-ria, il suo vissuto diventano di volta in volta i punti di partenza di un percorso di apprendimento che chiede di mettersi in gioco con se stessi e in relazione al gruppo. Per elaborare la propria esperien-za in relazione all’oggetto da apprendere e al gruppo, occorre avere sufficiente stima e fiducia nei conduttori: stima nella loro compe-tenza e fiducia nel clima non giudicante che essi possono stabilire durante il percorso di apprendimento.
Una dimensione verticale non facile da acquisire in un’associa-zione cresciuta sul far da sé, sul non rinunciare ai progetti educativi nemmeno in tempi di latitanza da parte delle istituzioni scolastiche.
Molto aspro, ma ricco è stato il dibattito attorno alla proposta di in-vitare ad aprire e chiudere le Scuole Estive da figure denominate Esperti (Pedagogisti e Ricercatori Universitari).
Da un lato non esisteva una categoria di formatori Mce. I
labo-ratori venivano gestiti da insegnanti di scuola e formatori di altre agenzie che nel corso della loro esperienza si erano trovati ad ela-borare, da soli o in gruppo, nuove modalità per la formazione di soggetti bambini e adulti. Alcuni venivano da esperienze miste Irr-sae o altro, ma sempre segnate da una sorta di autodidatticismo.
Il compito cui ci si dedicò era dunque quello di aiutarli a ren-dere espliciti i riferimenti culturali e pedagogici che sostenevano e rendevano accessibile la loro stessa proposta formativa e a diffe-renziare il livello destinato ad un pubblico adulto da quello scola-stico destinato ai bambini. Si cominciò col chiedere agli animatori Mce delle schede descrittive e col predisporre una cartellina ad uso dei partecipanti che contenesse indicazioni e riferimenti bibliogra-fici, articoli ed esperienze, riflessioni ed elaborazioni. La cartellina iniziale è divenuta infatti col tempo uno strumento di accoglienza culturale, di esplicitazione della proposta formativa nonché un mo-mento di connessione e sintesi tra le tante proposte in campo .
Da qualche parte c’era la volontà di presidiare la tradizione di pensiero e proposta Mce, e si temeva forse di essere colonizzati cul-turalmente da qualcuna delle teorie formative che circolavano. Cre-do che nessuno intendesse aderire o far assumere al Mce un orienta-mento, quanto piuttosto di presentare le carte della ricerca pedago-gica, frammenti di pensieri strutturati che, pure in sintesi originali, motivavano e sostenevano la proposta.
Si scelse la strada di presentare nelle Plenarie sempre più voci o comunque di alternare voci dall’interno con voci provenienti da centri di ricerca vicini, ma esterni all’elaborazione Mce.
A distanza di anni ci sembra di poter dire che il risultato fu dupli-ce: seppur con alterne vicende, la Scuola Estiva è diventata per l’in-tero Movimento un luogo di apertura e contaminazione, di incontro e di dibattito intorno alla formazione degli educatori.
Per alcuni anni venne messa in atto una via ancora più interes-sante. Nella convinzione che chi intende formare gli altri si
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gna (professionalmente ed eticamente) a formare se stesso, si chie-se ad alcuni interlocutori privilegiati di accompagnare il percorso di preparazione e verifica delle Scuole Estive, le quali poi venivano gestite direttamente dai formatori Mce. In questo percorso forma-tivo parallelo, dedicato ai formatori, il Mce allacciò rapporti con P.
Zanelli, V. Severi, R. Silimbani, M. Sclavi, M. Arcà su uno dei temi caldi sollevati dall’esperienza: l’osservazione del percorso (di cui abbiamo detto sopra) e il setting formativo.
Il risultato consistente e duraturo di tale dibattito è che è stato esplicitato e reso consapevole il ruolo delicato e importante di chi conduce il laboratorio. L’Equipe3, nella quale si ritrovano tutti gli
“addetti ai lavori”, tutti coloro che in vari ruoli pensano, allestisco-no, e curano il progetto formativo è divenuta nel tempo un luogo di autoformazione, un vero luogo cooperativo, nel quale si può lavo-rare ed evolvere insieme, uniti dalla condivisione del progetto. Cre-do che il giovamento di una tale strutturazione, producenCre-do mag-gior consapevolezza della funzione educativa, si sia riversato sia nei luoghi di lavoro (laddove ogni educatore si ritrova di fronte ai bambini) sia nel Mce in generale.
Setting
Per sostenere un momento così intenso come la Scuola Estiva, occorre dare una forma al tutto. L’idea del Set viene dalla Psicolo-gia e dal Cinema. Un set è un contesto creato ad arte per farvi ac-cadere delle cose. La metafora del set ben si attaglia alla Scuola:
anch’essa è un contesto artificiale, predisposto e protetto, nel quale accadono cose reali, fatti relazionali e cambiamenti, apprendimenti e crescita. L’orientamento, e la scommessa, della Scest fu di pensa-re non solo il laboratorio come set formativo, ma l’intera
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3 Sul significato dell’osservazione nella relazione educativa, vedi anche Appunti sull’os-servazione di Renato Rovetta, seconda parte di questa pubblicazione.
na di scuola, considerando significativi anche i momenti “margina-li”, ai quali si cercò di dedicare molta attenzione e cura. Per il Mce si trattava di pensare come formativi, e di dare visibilità, anche ai momenti dell’accoglienza, della conoscenza e dello scambio, della convivialità, dell’incontro con altri soggetti più o meno esperti, con altri punti di vista e linguaggi.
Il risultato è visibile ad ogni estate: i partecipanti che tornano e coloro che si avvicinano per la prima volta “riconoscono” e si aspettano alcuni momenti che rendono il set delle Scuole estive un insieme di sequenze ciascuna delle quali ha un senso e una funzio-ne in merito all’insieme. Il rischio, ovvio per gli addetti ai lavori, è quello di creare delle routine, delle ritualità che a poco a poco per-dono il senso del loro essere per diventare vuoti contenitori di pras-si consolidate ma prive di pras-significato condiviso. Per questo non ci sono ricette, oltre la seguente: il cambiamento periodico delle for-mule dell’incontro, lo spiazzamento, l’accostamento di forme vec-chie e nuove al fine di una risignificazione continua.
Con la fondazione dell’Equipe si tentò di dare compimento ad una maggior distinzione tra gli autori della proposta e gli utenti.
Compito solo in apparenza facile sia perché apprendimento e inse-gnamento sono uniti da un flusso circolare, sia perché l’associazio-ne Mce veniva da altre esperienze: gruppi di ricerca, gruppi territo-riali, in cui l’onere di portare avanti la proposta appartiene istituzio-nalmente a tutti. In una situazione formativa andava definito mag-giormente quali dovessero essere limiti e doveri del gruppo che si faceva carico della situazione formativa. Al problema occorreva far corrispondere una risposta anche perché il contesto nel quale ope-rava il Mce si stava rapidamente trasformando. La formazione de-gli insegnanti, intesa come aggiornamento era divenuta parte dede-gli orari di servizio dei docenti e per alcuni anni sembrò che l’occasio-ne che il Mce offriva potesse essere utilizzata per progressioni di carriera. Fu un momento destinato ad un facile tramonto, ma lasciò
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in tutti la convinzione che l’efficacia formativa di un dispositivo è maggiore nella misura in cui è scelta individualmente, l’apprendi-mento su una base di automotivazione è maggiormente efficace se sostenuto nella fatica e nei costi… In questo clima si cercò di tro-vare adeguate distinzioni per le parti contraenti il patto formativo:
ai conduttori membri di un movimento di cooperazione si cercò di corrispondere una serie di rimborsi per le loro spese; ai partecipanti si cercò di garantire una struttura stabile ed efficace.
Si fece uno sforzo anche per cercare un nuovo nome (Equipe);
e le regole dell’accesso: un gruppo flessibile, ma fisso per un inte-ro anno, titolare della pinte-roposta, della sua realizzazione e della sua verifica, del quale facevano parte tutti coloro che, a qualunque ti-tolo avessero un compito da svolgere nella settimana estiva. Al suo interno il gruppo si dava varie strutturazioni per poter lavorare, la più significativa è il gruppo operativo destinato a collaborare con il coordinatore responsabile: un insegnante designato dal Mce e qua-si sempre distaccato dall’insegnamento con un utilizzo ministeria-le. L’Equipe si diede un luogo operativo nella sede Mce di Vene-zia-Mestre, e uno spazio d’incontro nella sede Mce di Bologna. In quattro-cinque incontri l’anno veniva messo a punto il programma, si dedicava uno spazio alla formazione propria invitando qualche esperto, e dopo la realizzazione, nell’ultima settimana di agosto, si procedeva alla verifica. Tutti i viaggi e i soggiorni venivano rim-borsati, e anche questa dimensione contribuiva a cercare di porre al centro del tavolo non già il legame che univa gli iscritti Mce, né il profondo legame di stima e amicizia che univa alcuni tra i parteci-panti, quanto piuttosto il Compito di lavoro, l’oggetto da realizzare, il dispositivo formativo del quale ci si assumeva la responsabilità.
Analogamente per i partecipanti si cercò di dare una forma, cioè di depositare una struttura spazio-temporale (unita ad una modalità relazionale) riconoscibile, capace di trasmettere ciò che intendeva-mo per Scuola dei Grandi. Ogni anno, ogni nuovo soggetto entrato
a far parte dell’Equipe, ha portato un proprio contributo di cambia-mento, e penso che ciò sia stato possibile proprio perché la cornice
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formativa messa a punto era abbastanza forte da poter accogliere anche possibili varianti. Così si è istituita una scuola fatta di mo-menti ricorrenti, riconoscibili quel tanto da creare appartenenza nel gruppo dei partecipanti, con un aumento delle possibilità di
formativa messa a punto era abbastanza forte da poter accogliere anche possibili varianti. Così si è istituita una scuola fatta di mo-menti ricorrenti, riconoscibili quel tanto da creare appartenenza nel gruppo dei partecipanti, con un aumento delle possibilità di