* Rielaborazione dell’intervento alla Scuola Estiva Mce di Urbino, 30 agosto 2004.
La gestione creativa dei conflitti non nasce mai dal ruolo, dallo stereotipo, dall’applicazione di una regola; essa nasce sempre dalla contingenza e dall’apprezzamento di quello che di unico c’è nella contingenza. Ogni conflitto, per essere suscettibile di sviluppi cre-ativi, deve essere trattato come un evento unico e irripetibile che coinvolge attori unici e irripetibili; in altre parole come un evento che vede in gioco attori capaci di scelte e idee sorprendenti.
Per questo il mio intervento non si rivolge ad educatori e inse-gnanti, ma a persone, perché solo facendo appello alla complessità della storia personale, con le tante identità e storie che essa contie-ne, è possibile creare vie nuove, aprire la possibilità di una gestione creativa dei conflitti.
Il Teatro Forum1 al quale ho assistito, presentava posizioni dura-mente contrapposte senza alcuno spiraglio di dialogo. La contrap-posizione “noi-loro” indicava l’escalation come unica via, la scon-fitta del nemico come unica soluzione… insomma c’era una durez-za di diagnosi non tanto sulla scuola quanto sulle politiche ministe-riali che sinceramente mi preoccupa. Anche perché, se siamo reali-sti, questo vuol dire che a perdere saremo noi.
Le relazioni che ho sentito nella plenaria finale, presentano inve-ce gli elementi della saggezza, della complessità, della possibilità di trasformare la vulnerabilità in un punto di forza: elementi fonda-mentali per la trasformazione dei conflitti che sempre è passaggio da una visione semplice a una visione complessa.
Gestione creativa del conflitto vuol dire accettazione del para-dosso, sia sul piano logico verbale che sul piano del linguaggio del corpo e delle emozioni; ovvero accettazione della compresenza di emozioni opposte; vuol dire imparare a trasformare un’emozione
1 Il Teatro-Forum e la plenaria finale citati sono stati organizzati all’interno della Scuola estiva Mce, Urbino 2004. Per informazioni sul Teatro-Forum vedi intervento di Roberto Mazzini nella parte terza.
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(ad es. forte irritazione) in un sentimento più complesso, riuscire a provare contemporaneamente rancore e simpatia per l’avversario.
La creatività è uso saggio del nonsenso, di ciò che pare assurdo.
Per trasformare i conflitti in occasioni di convivenza si deve gioca-re sulla complessità emozionale, sapegioca-re che cosa vuol digioca-re, capo-volgere il rapporto emozioni-conoscenza della epistemologia do-minante.
La gestione creativa dei conflitti
L’autunno a scuola si presenta carico di premesse per uno scon-tro esacerbato. Dovrete gestire conversazioni difficili in tutti i sensi.
Siete già dentro un conflitto e quindi non avete scelta: o lo trasfor-mate in modo costruttivo o distruttivo. L’idea che si possa sempre scegliere fra cooperazione e conflitto è libresca, astratta; quasi sem-pre ci poniamo il problema quando siamo dentro un conflitto fino al collo e l’unica possibilità è come trasformarlo.
Le prime teorie che si sono occupate dei conflitti, l’hanno fatto con un approccio che si chiamava problem solving, teso a risolvere i problemi sottostanti; poi si è capito che un conflitto è qualcosa di più complesso che i soli problemi intorno ai quali apparentemen-te si sviluppa, e si è parlato di apparentemen-teorie della gestione dei conflitti. Poi si è scoperto che è molto difficile gestire i conflitti e adesso, l’ulti-ma tendenza, si studia come avviene la trasforl’ulti-mazione dei conflitti.
La trasformazione dei conflitti mette l’accento sulla constatazio-ne che per arrivare a degli accordi duraturi bisogna costruire terreni comuni e che per costruire terreni comuni, sensi e orizzonti di co-mune appartenenza, non bastano una serie di passi procedurali, del tipo: darsi i turni di parola senza interruzioni e parlare senza dare in escandescenze… È necessario che ogni parte metta in atto un cer-to tipo di elaborazione delle proprie emozioni connesse al conflitcer-to.
L’epistemologia classica sul rapporto emozioni conoscenza pre-senta le emozioni come fattori di disturbo e distorsioni della
cono-scenza e come forze biologiche che ci spingono ad agire in dire-zioni che devono essere ogni volta vagliate dalla ragione. Questa impostazione è stata chiamata “Retorica del controllo”: le emozio-ni vanno controllate, represse, perché facilmente producono azioemozio-ni non razionali. Ad es. mi possono spingere a dare un pugno sul naso al capoufficio, cosicché poi mi troverò nei guai. Le emozioni nella nostra civiltà e culture sono viste prevalentemente come forze che ti spingono e ti tirano, a partire dalle viscere: ad es. ti senti arrab-biato e interpreti questo sentimento come una forza che ti dice “pic-chia, attacca”. E tu (la tua ragione) devi decidere se seguire questa voce o no. Devi decidere se assecondare o contrastare questa emo-zione e ogni altra emoemo-zione. È la storia del diavolo e dell’angelo custode.
Gli studi sulla gestione creativa dei conflitti propongono una epistemologia del rapporto emozioni conoscenza completamente diversa. La visione dicotomica (ragione-emozione) è stata abban-donata in favore di teorie che recuperano un ruolo cognitivo posi-tivo e autonomo delle emozioni in quanto ci offrono informazioni preziose su come l’individuo sta interpretando la situazione con-flittuale.
Questo approccio consiglia di considerare le emozioni come amiche, non come forze che spingono ad agire in certi modi, ma come informazioni su come il nostro corpo sta già interpretando automaticamente, prima che lo decidiamo coscientemente, quella specifica situazione. L’ira che provi verso il capoufficio non ti dice:
“Picchia!”, ma “Stai predisponendoti a picchiarlo”. Sono nostre amiche perché ci mostrano come siamo in azione, come stiamo in-terpretando quella situazione contingente e questa visione più acuta ci consente di scegliere se esplorare altre possibilità, prima di pro-seguire su quella strada.
Le emozioni ci avvisano di azioni in fieri o già in atto. Le emo-zioni sono l’emergere alla coscienza delle interpretaemo-zioni
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tiche del corpo. Uno degli studiosi che per primi hanno proposto questo tipo di interpretazione delle emozioni è William James nel suo Principi di Psicologia. In questo testo c’è fra l’altro la famosa frase sull’orso, divenuta una specie di aneddoto (cito a memoria):
“Il senso comune ci dice che se ci troviamo improvvisamente da-vanti un orso, ci spaventiamo e quindi tendiamo a rimanere para-lizzati e/o scappare. L’osservazione scientifica ci porta a ribaltare questo tragitto: quando vediamo un orso prima di tutto il nostro corpo rimane paralizzato e/o si prepara alla fuga e tutto questo emerge alla coscienza come la sensazione di spavento”.
Uno dei vantaggi di interpretare le emozioni come amiche, è che questo modo di intenderle non ci costringe a scegliere fra distacco e coinvolgimento, ma ci consente di praticare sia il coinvolgimen-to che il distacco contemporaneamente. L’emozione dunque, non è solo l’indizio del mio coinvolgimento, è anche l’indice della posbilità di avere un distacco dall’eccessivo coinvolgimento nella si-tuazione.
Con questa interpretazione le emozioni non sono più viste come dei paraocchi, ma al contrario come strumenti fondamentali per una visione più acuta e profonda della situazione.
Vediamo le implicazioni per la gestione creativa dei conflitti.
Schema
ASITUAZIONE
Compie un gesto che da B viene percepito come
- complementare: se tu mi attacchi io faccio la vitti-ma.- andare via: è il modo più praticato man mano che la società diventa più complessa, più nessuno che stanno dentro l’arco di pos-sibilità di chi mi attacca.
Sul piano relazionale, che è quello del linguaggio del corpo, quando una persona ci attacca sta mettendo in scena una rappre-sentazione nella quale noi dobbiamo comportarci da aggrediti. Nel-la misura in cui noi di fatto ci comportiamo da aggrediti, e reagia-mo in reagia-modo simmetrico oppure complementare, noi collaboriareagia-mo a rendere legittima e corposa, “vera” la cornice relazionale da lui pro-posta e inscenata. Tra l’altro, a pensarci bene, non è vero che la re-azione simmetrica è offensiva e quella complementare è difensiva:
la vittima usa la colpevolizzazione come arma offensiva. Abbiamo un misto di motivazioni difensive-offensive in entrambi i casi. Ma se qualsiasi cosa facciamo collaboriamo, allora la domanda è: come si fa a non collaborare?
Il problema della gestione creativa dei conflitti, sul piano epi-stemologico può ridursi a questo: come faccio a non collaborare, a non legittimare e perpetuare la situazione conflittuale esistente?
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Solo se noi di fronte all’aggressione sospendiamo l’azione e ci poniamo questa domanda, (se in una situazione di contrapposizione ci chiediamo come fare a non collaborare), siamo in grado di dare veramente un contributo che può fare uscire la situazione (doloro-sa per tutti) dall’impasse, dalla reiterazione, dalla escalation di quel conflitto.
‘Come faccio a non collaborare’ è la domanda centrale non solo del pensiero della nonviolenza, da Martin Luther King a Ghandi, ma anche del pensiero della gestione creativa dei conflitti, che dice che si può essere non violenti. La differenza è che la gestione crea-tiva dei conflitti non esclude le altre alternative, si limita ad amplia-re l’arco delle scelte. Tu puoi amplia-reagiamplia-re in modo simmetrico o com-plementare, o divorziare, andare via, oppure anche in modo creati-vo non collaborando… Decidi tu. La gestione creativa dei conflit-ti non coincide con la non violenza. Ora torniamo alla domanda:
come fare?
La parola chiave che porta alla non collaborazione è spiazza-mento.
Prima di tutto spiazzamento dell’Ego, per poter anche successi-vamente spiazzare Alter, l’altro. Occorre innanzitutto spiazzare se stessi, perché in uno scenario di conflittualità le reazioni automati-che sono inevitabili, fanno parte della cornice. Quando ci poniamo la domanda siamo già impegnati in un atteggiamento difensivo-of-fensivo e uscirne non è facile, non ci sembra naturale, è una mossa contro-intuitiva.
Alla base della costruzione di questo atteggiamento c’è l’ascol-to attivo che aiuta a passare da posizioni individuali ad interessi più generali.
Una regola dell’arte di ascoltare dice: se vuoi capire quello che un altro sta dicendo devi assumere che ha ragione, se no non capisci cosa dice. Devi assumere che sia intelligente, per cui se è intelligen-te e dice o fa qualcosa che noi riintelligen-teniamo sbagliato, vuol dire che la
sua interpretazione della situazione è diversa dalla nostra. Con l’a-scolto attivo sospendiamo il giudizio sui comportamenti e sulle opi-nioni per esplorare le interpretazioni più generali di quella persone, le sue premesse implicite diverse dalle nostre.
Vi racconto una piccola storia. In una biblioteca due utenti stan-no litigando fra loro: ustan-no vuole aprire la finestra perché gli manca l’aria e l’altro vuole che rimanga chiusa perché ha i reumatismi e teme la corrente. Alzano la voce e disturbano gli altri lettori. Arriva una prima bibliotecaria: “Silenzio! Se non vi sedete e state zitti, vi faccio uscire entrambi!” Si siedono, ma dopo un po’ ricominciano a litigare. Arriva una seconda bibliotecaria la quale ascolta attenta-mente entrambi e poi, dopo una breve riflessione, propone: “Che ne dite se apriamo la finestra della stanza accanto, in modo che l’aria circoli senza provocare correnti ?”2
Qui mi interessa sottolineare che la bibliotecaria edotta in ge-stione creativa dei conflitti adotta l’ascolto attivo. Non si mette a discutere chi ha ragione chi ha torto, ma assume che abbiano ragio-ne tutti e due i contendenti. Questa è anche la posizioragio-ne del giudi-ce saggio.
Quello dal giudice saggio è un aneddoto fondamentale della ge-stione creativa dei conflitti. Il giudice saggio ascolta il primo liti-gante, fa delle domande e alla fine dice:- Tu hai ragione. Ascolta il secondo litigante e gli dice:- Tu hai ragione. A questo punto uno del pubblico che aveva accompagnato i litiganti per vedere di trovare una soluzione si alza in piedi e dice:- Scusi eccellenza, ma non pos-sono aver ragione tutti e due. Il giudice saggio ci pensa un attimo e dice:- Giusto, ha ragione anche lei.
Questo è ascolto attivo ed è l’atteggiamento fondamentale della gestione creativa dei conflitti.
2 R. Fisher e W. Ury, L’Arte del Negoziato, Mondadori, Milano, 1995 (ed originale 1981).
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Un’altra regola della costruzione di atteggiamenti adatti alla ge-stione creativa dei conflitti è di non avere fretta di arrivare alle con-clusioni, perché le conclusioni sono la fase più effimera della ricer-ca, quello che conta è il processo.
Possiamo fare un esperimento mentale: immaginate che la vo-stra classe sia formata da cittadini del mondo, di cui due del Su-dafrica, uno delle Filippine, uno del Marocco, uno della Palestina, uno della Bosnia, uno dell’Ucraina, uno dell’America latina, un in-dio del Messico, uno del Canada, uno di New York. Facciamo che sia una classe all’ultimo anno della scuola superiore, e dovete defi-nire la maturità di questa gente.
Quali criteri adottate? Che cos’è importante che sappiano? Che cos’è che bisogna imparare per essere maturi in una classe del ge-nere?
Le materie principali, prioritarie, non mi sembrano né inglese, né internet, né impresa; e neppure studi classici di greco e latino. La materia centrale è imparare l’arte della conversazione difficile, del-la convivenza. Ciascuno, a partire daldel-la propria cultura, dimostra del-la propria maturità facendosi carico della presenza di un altro che non conosce, con un patrimonio linguistico e una storia personale; con una storia della propria comunità, con una percezione di quello che succede nel mondo completamente diversa.
È solo con l’atteggiamento di chi in questo modo può capire del-le cose che non sa, che si può stare in un contesto così; solo con un atteggiamento simile vi può essere apprendimento, crescita, matu-razione.
Allora l’insegnante può anche spiegare Garibaldi, ma solo per dire che in Italia abbiamo avuto uno così, e per chiedere se anche gli altri lo hanno avuto…
Il senso di comune appartenenza non è legato alle stesse nozioni.
La principale nozione comune ha a che fare con la capacità di gesti-re le conversazioni difficili, i conflitti. Questo sta fuori dalla
cultu-ra sia della sinistcultu-ra che della destcultu-ra, che sembcultu-rano muoversi ancocultu-ra entro un orizzonte provinciale.
Sempre di più anche le liti dentro la nostra cultura hanno carat-teristiche molto simili a quelle che accadono tra culture diverse, è come se fossero culture diverse. Se si impara a gestire i conflitti in-ter-culturali si acquisisce anche la competenza per gestire i conflit-ti intra-culturali.
Infine, tutte queste cose si imparano attraverso esercizi di feno-menologia sperimentale, cioè riflettendo a posteriori su esperienze molto precise e sui modi diversi con i quali avremmo potuto affron-tarle. Non esiste altro modo per comprendere queste cose.