* rielaborazione dell’intervento alla Scuola estiva Mce di Urbino, 25 agosto 2004 rivi-sta dall’autore.
Disagio e coscienza della modernità di Peter Kammerer
Le istituzioni che tramandano modelli e grandi sistemi sono in crisi, anche nel mare dell’educazione sembra di navigare senza idee forti. Invece alle nostre spalle e sopra di noi un’idea forte c’è: Max Weber la chiamava La gabbia di ferro costruita dalle idee economiche del mercato libero e del denaro. Oggi è questa la grande ideologia che ci condiziona fin nelle nostre forme di pensiero.
La vittoria del valore astratto
T. Adorno scrive in una lettera a Sohn-Rethel (carteggio uscito recentemente da Manifestolibri) di ritenere fondamentale l’intuizione sviluppata da quest`ultimo, che lega la nascita del pensiero astratto alla prassi di coniare monete. Infatti l’attribuzione di un valore di scambio che astrae dall’utilità concreta e dalle qualità delle cose fa compiere alla capacità di astrazione del pensiero umano un enorme passo in avanti. Si crea un punto di vista del valore, per cui tutte le qualità di un oggetto e il suo uso concreto divengono indifferenti, conta solo il suo valore di scambio. Forme di pensiero e forme di scambio si sviluppano insieme. Non a caso il termine “valore” ha un doppio senso e viviamo il paradosso che tutti parlano della “crisi dei valori”, mentre il valore-denaro conquista il mondo. Il mercato è entrato nella testa in modo impressionante oggi, nell’era della globalizzazione. Penso che si non possa fare nessuna analisi seria né dell’arte, né dell’educazione, né dei bisogni senza analizzare la natura e la forza del denaro nei suoi lati straordinari, positivi e nei suoi lati negativi e se vogliamo demonici. Per evitare esorcismi troppo facili consiglio la lettura della “Filosofia del denaro” di Georg Simmel, uscito nel 1901, un libro difficile, ma grande miniera di notizie e punti di vista.
Vi consiglio a questo punto anche un altro famoso testo (A. Smith, Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle Nazioni,
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1776). Nei primi due capitoli Smith spiega il grande sviluppo della produttività del lavoro umano con la divisione del lavoro sempre più capillare. La spinta verso la divisione del lavoro starebbe nella natura dell`uomo, cioè nella sua voglia di scambio. Come abbiamo visto con il termine “valore” anche il termine “scambio” ha un doppio senso, può essere economico come scambio di valori e può significare scambio di idee, di affetti, di sguardi ecc. Ci troviamo di fronte ad una ambiguità che un grande filosofo come Smith accettava ingenuamente, ma che mette in imbarazzo chi oggi vede le conseguenze di queste mistificazioni linguistiche. Sin dalla nascita della Scienza economica, cioè sin dalla nascita dell’economia di mercato, il significato economico prende possesso delle parole (e quindi del pensiero), le colonizza, dà il proprio colore ai rapporti umani. Concetti come valore, scambio, industria, concorrenza, profitto e lo stesso concetto di lavoro vengono usati riferiti al mercato, sicché l’economia di mercato appare come naturale, come organizzazione antropologicamente fondata. Se parliamo di concorrenza nessuno pensa più alla radice sacrale dell’agonismo e delle competizioni “sportive”, ad es. dei giochi olimpici. Noi interpretiamo i rapporti umani alla luce dei fenomeni economici perdendo di vista la riflessione sulla vera natura dei rapporti umani. Erich Fromm in “Avere o essere” analizza lo spostamento che la nostra lingua ha subito negli ultimi due secoli dall’essere all’avere. Il verbo essere viene sostituito sempre di più dal verbo avere. In queste ambiguità di cui lo sviluppo linguistico è solo una espressione, nasce il “disagio” moderno.
Per evitare malintesi: naturalmente un essere umano non può vivere senza scambi; infatti non esiste un solo individuo che non sia il prodotto di uno scambio, l’uomo nasce e diventa individuo attraverso le relazioni umane. E questo vale anche per la competizione/
concorrenza: ogni soggetto umano è frutto della competizione, intesa come relazione di scambio. La mia polemica si volge contro
l’interpretazione del comportamento umano in termini di economia di mercato. Attenzione anche al concetto stesso di mercato. I mercati sono una cosa meravigliosa, la cosa più esaltante quando visitiamo i paesi del terzo mondo. E’ stata una delle peggiori sciocchezze del “socialismo reale” di aver soppresso i piccoli mercati. Sono un lettore assiduo di Mille e una notte. Questi racconti descrivono una società che vive intorno ai mercati e nei mercati. Ma i valori non sono “di mercato”. I mercati infatti sono controllati fino ai minimi dettagli da regole di comportamento e di funzionamento imposte dalla civiltà, cioè dagli uomini. Quando un mercante, con la sua nave, arrivava in un posto non poteva subito vendere le sue mercanzie, ma rispettare le regole della cortesia, della società locale. Ad esempio doveva prima fare la visita al capo degli orefici, poi altri gli davano ospitalità; luoghi, tempi, comportamenti erano tutti regolamentati. Questo valeva anche per le nostre fiere che si svolgevano non a caso sotto la protezione della chiesa. La società controllava i mercati e non viceversa. Il capovolgimento di questo rapporto, la nascita di una “società di mercato” è un fenomeno del tutto recente, degli ultimi duecento anni, e chi vuole studiare questo processo di trasformazione si legga di Karl Polanyi, La grande trasformazione (un libro bellissimo e accessibile a un lettore non specialista se si saltano le prime 50 pagine).
Per riassumere questa prima parte: Penso che una ragione del
“disagio della modernitá” stia in questa penetrazione del valore di mercato in tutte le sfere sociali e umane, stia cioè nel concetto ambiguo di “ricchezza”. Lasciatemi citare cito un autore classico che inizia la sua opera principale, Il Capitale, in questo modo: “La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci”. Oggi questa “raccolta immane” rischia di soffocarci e di renderci poveri.
Prendere coscienza
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Ho iniziato la mia relazione con riflessioni di economia-politica.
Seguendo quel filo di discorso si arriva al concetto di “alienazione”.
Ma vorrei cambiare registro, anche perché le analisi attuali del disagio della modernità seguono un altro filo partendo dal saggio famoso di Freud, Il disagio della civiltà del 1929 proseguendo ultimamente con Charles Taylor, Il disagio della modernità, (Laterza 1994) e con Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità, (Mondadori, 2002). Senza fermarmi su queste opere vorrei fare un passo indietro e parlare di un saggio di Heinrich von Kleist, Il teatro delle marionette del 1810. E’ un testo breve che consiste solo di 10 pagine. Vi si narra la storia di un giovane, ammirato da tutti per la sua grazia naturale. Un giorno questo giovane vede una famosa statua antica, il ragazzo che si toglie la spina. Il giovane desidera raggiungere la stessa perfezione imitando la statua. Comincia a passare giorni interi davanti allo specchio, ma non ci riesce. Anzi, un’attrattiva dopo l’altra l’abbandonavano, sicché perdeva ogni grazia. “Un `invisibile e inafferrabile potenza sembrava stendersi come una rete di ferro sul libero gioco dei suoi gesti e dopo un anno non si poteva più scoprire in lui alcuna traccia della leggiadria, che usava prima deliziare gli occhi degli uomini”. La grazia è un dono dell’innocenza. Una volta perduta la grazia naturale, cioè cacciati dal paradiso, l’uomo deve imparare tutto. Viceversa vediamo che nella misura in cui nel mondo organico la riflessione si fa più debole e oscura, la grazia vi compare sempre più raggiante e imperiosa. C’è quindi una incompatibilità tra grazia e coscienza. Il paradiso è alle spalle dell’uomo moderno e ora
“dobbiamo fare il viaggio intorno al mondo e vedere se si trovi forse qualche ingresso dal di dietro”. La grazia si ritroverà “dopo che la coscienza ha traversato per così dire l’infinito; così che nello stesso tempo appare purissima in quella struttura umana che ha o nessuna o una infinita coscienza, cioè nella marionetta o in Dio”.
Più ci allontaniamo dallo stato di natura, più dobbiamo imparare tutto, coscientemente. Uno sguardo sui giovani e sulla crisi della
scuola conferma questa diagnosi: oggi dobbiamo imparare anche le cose più semplici, bere l’acqua, mangiare sano, respirare bene, usare la voce; le cose semplici sono paradisi perduti con la repressione degli istinti, direbbe Freud. Non possiamo tornare indietro, dobbiamo procedere in direzione della coscienza infinita. Questa è la tragedia della modernità, perché reprimere gli istinti non è piacevole, porta dolore e fatica. Così, secondo Freud, l’uomo diventa sempre più infelice, salvo mettere in atto un’azione contrastante, che consiste nella sublimazione dei piaceri rielaborando l’oggetto del desiderio e il nostro rapporto con esso, creando un altro modo di gioire, riuscendo a provare gioia incontrando un altro essere umano anziché fracassandogli la testa. L’unica salvezza è la gioia dell’imparare e il segno più tragico della crisi moderna mi pare sia la perdita del senso di divertimento quando si impara. Il processo di civilizzazione è dunque gioioso e doloroso insieme. Dall’equilibrio tra queste ed altre antinomie, fra Eros e Thanatos, per parlare ancora con Freud, dipende la nostra capacità di essere felici, sia come individui, sia come collettività.
L’eros per Freud è l’essenza dell’ uomo, la tendenza incomprimibile a radunarsi; la spinta a stare insieme su scala sempre maggiore; a trovare delle regole per stare insieme, per impedire che le forze distruttive abbiano il sopravvento. Globalizzazione in termini freudiani non è altro che l’azione dell’eros.
Globalizzazione
Si tratta di un concetto anche questo ambiguo come tutti i concetti dominati dall’economia di mercato. Per comprendere bene di che cosa si tratta penso si debba cominciare dalla lettura di un famoso scritto di Immanuel Kant, Per la Pace perpetua del 1795, magari accompagnando tale lettura con Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico del 1784. Sono poche pagine, fra le più sublimi che esistano, in cui Kant ragiona sulla tendenza degli
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uomini ad associarsi e sul bisogno di diritto. Secondo Kant la lunga storia dell’unificazione del mondo è un processo portato avanti da guerre e dal commercio internazionale, fenomeni spesso intrecciati tra di loro. Il carattere progressivo e addirittura civilizzatore della guerra viene sottolineato, ma nello stesso tempo anche messo in discussione. La storia fattasi universale costringe la specie umana
“ad attuare una società civile che faccia valere universalmente il diritto” ed a “sottrarsi ai mali che gli uomini si recano a vicenda”.
Per Kant è iniziato il lungo periodo della costruzione di un ordine mondiale cosmopolitico nel quale i popoli, organizzatisi in Stati con una costituzione civile all’interno e con rapporti esterni anch’essi basati sulle leggi, bandiscano la guerra e realizzino il disegno occulto della natura, lo sviluppo multiforme della libertà dei singoli in seno all’umanità. Tuttavia Kant non aveva fatto i conti con l’economia, o per dirla meglio, aveva in mente solo il commercio e non quella espansione industriale che ci ha sconvolto e che ha portato all’occidentalizzazione del mondo.
Se siamo sinceri scopriremo che noi tutti crediamo nella superiorità del modello occidentale. Ci vergogniamo un po’, perché ha sentore di razzismo, e solo gente spregiudicata come Bush e Berlusconi osano dirlo ad alta voce. Come impostare questo problema? Ricorro ad un altro maestro (scusate questi riferimenti alla grande letteratura, ma possono esserci veramente di aiuto), a Max Weber che ha affrontato la questione nell’introduzione alla Sociologia delle religioni.
L’occidente è superiore, non vi è dubbio, ma il vero problema è spiegare che cosa significa “superiore”. Tutto dipende dai criteri che si usano. Secondo la razionalità economica l’occidente è superiore ad altri codici di comportamento sociale. La razionalità economica si basa sull’ organizzazione scientifica del lavoro, sulla capacità di calcolo e sull’applicazione della Scienza a tutti i fenomeni della vita.
Con questi metodi abbiamo trasformato il mondo in un “cumulo di merci”, abbiamo non solo addomesticato, ma anche compromesso
gli istinti, abbiamo ingabbiato la vita stessa. Avendo appena riletto Boccaccio vorrei sottolineare solo un aspetto: la perdita di generosità.
Nell’ultima giornata, la decima, “si ragiona di chi liberalmente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno ai fatti d’amore o d’altra cosa”. Si raccontano passioni e azioni del tutto “irrazionali”
agli occhi moderni, tutte in contraddizione con l`homo economicus caratterizzato dal possesso e dal profitto. Ancora oggi nei paesi cosiddetti sottosviluppati possiamo assistere a gare vere e proprie di generosità. Un resto di questi costumi è rimasto vivo anche in Italia, parlo della gara nei Bar per offrire il caffè, un’abitudine non solo divertente, ma anche un grande segno di civiltà.
La ragioneria dei sentimenti che appartiene ai popoli cosiddetti sviluppati, è terribile. Perfino un uomo saggio come Freud ragiona in termini economici, quando parla delle pulsioni e del piacere.
Georges Bataille gli oppone un’altra antropologia sottolineando il bisogno culturale dell’uomo, la sua gioia di darsi all’altro fino all’autodistruzione. Del resto non è questo il senso profondo del cristianesimo e la ragione, per la quale, secondo Pasolini, un
“borghese” antropologicamente non può essere religioso? Le donne in questo senso sono meno occidentali e più arretrate degli uomini, sanno donarsi senza calcolo del beneficio, ma purtroppo anche questa capacità sta per scomparire.
La questione della libertà
Il processo di civilizzazione che culmina a partire dal `700 nel processo di sviluppo economico l’uomo moderno ha pagato con la perdita della grazia (Kleist), con la repressione degli istinti (Freud), con la perdita di generosità e di gioia vitale. In cambio abbiamo conquistato produttività, razionalità, coscienza e libertà. Queste sono le antinomie: una linea di perdite e una di guadagni, o per sfuggire al modo economico di esprimersi, abbiamo oggi la possibilità di liberare il tempo, di vivere il nostro tempo sulla terra con maggiore
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libertà. Oggi questa libertà, madre di tutte le libertà, subisce un attacco mortale: l’industrializzazione del tempo libero.
Fin dalla nascita non facciamo altro, che risparmiare tempo: usiamo macchine veloci, su strade veloci, inventiamo mezzi di comunicazione a “tempo reale”. Non facciamo altro che guadagnare tempo, ma dove va a finire tutto questo tempo risparmiato? Una volta si andava in America con la nave e il viaggio durava 15 giorni, adesso si prende il volo per arrivarci in 6 ore. Dove sono finiti i 15 giorni risparmiati?
Che cosa fa la nostra civiltà con il tempo? Questa mi pare la domanda di fondo.
Conosciamo tutti il paradosso della distribuzione del tempo oggi.
C’è chi è ricco e lavora, ma non ha tempo “da perdere”; è angosciato dalla minaccia, che qualcuno gli possa rubare del tempo; è incapace vivere il tempo spontaneamente, in modo non organizzato. Dall’altra parte ci sono i disoccupati, i poveri moderni, che non avendo un lavoro dovrebbero disporre di tanto tempo. Ma studi sociologici sui disoccupati dimostrano che nemmeno loro hanno tempo libero. O sono in cerca di lavoro o, presi da nevrosi e da angosce, ammazzano il tempo libero nascosti in casa dietro la televisione. Nessuno pare riesca trasformare il tempo socialmente risparmiato in libertà, in tempo autodeterminato, in tempo per i nostri bisogni vitali, per grattarci la pancia, per grattare la pancia alla nostra compagna, per fare tutte le cose utili o inutili che ci piacciono; è proprio per le cose più belle che ci viene a mancare il tempo.
Se questa è la descrizione dello stato di fatto dobbiamo ancora aggiungere che la nostra società ha creato un’ industria particolare proprio per prendersi cura del nostro tempo appena si liberi dal lavoro. Così l’industria del tempo libero finisce per schiavizzarci nuovamente con la sua macchina infernale di proposte di svago e di comunicazione, con la gabbia di ferro del turismo.
Perché questa incapacità di lottare per un uso autonomo e libero del tempo liberato? Ci pesa una secolare “religione del lavoro” e un
“senso del dovere” che hanno reso possibili le nostre conquiste di civiltà. Ci pesa anche il modello negativo di chi vuole vivere libero senza saper opporre al lavoro e al dovere della società industriale un altro modello di lavoro e di doveri. Ogni volta che passo a Bologna mi fa una tristezza enorme vedere i giovani con le loro bottiglie di birra e con i loro cani, tristi come i padroni. Saper divertirsi è la cosa più difficile in una società edonistica.
Permettetemi un discorso generazionale. La generazione passata, quella dei miei genitori, ha conquistato la libertà spendendo molto tempo; ha dedicato molta energia vitale nel conquistare il suo benessere e i suoi diritti. La generazione successiva, la mia, ha trovato la libertà conquistata, e ne ha tratto vantaggio. Abbiamo avuto una grande fortuna. Ma dopo le “fatiche delle montagne” non siamo riusciti andare avanti nelle “fatiche delle pianure”. Comunque noi provavamo ancora una gratitudine, un ricordo seppur vago dei sacrifici precedenti. Uno che ha ancora le bombe nelle orecchie, io sono del 1938, di fronte a chi non ne ha mai sentito il frastuono o visto solo la TV, non può dimenticare certi “sacrifici”. Coloro che sono venuti dopo di noi non hanno preso il dono della libertà con questi sentimenti. Non ne parlo come di un problema morale, ma di un problema generale, quello di non saper accettare i doni della storia e della natura. Questa incapacità mi pare sia il prodotto più avvelenato della mentalità di mercato.
Che fare? Tutto il mio discorso punta sull’imparare a vivere il proprio tempo non solo come storia sociale, globale ecc. , ma anche come storia individuale, cioè vivere il tempo libero. E vivere in modo sempre più libero anche il tempo di lavoro. Vivere è una attività ed è il contrario del lasciarsi vivere. Vorrei citare ancora una volta un maestro, l’ultima citazione di oggi, Bertolt Brecht e la sua teoria del teatro come laboratorio sociale, come scuola sociale nella quale si impara “camminare con grazia”, agire insieme con rispetto dell’altro e divertirsi usando il corpo e la ragione. E non solo sulla scena. Lo
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spettatore è altrettanto importante dell’attore. Come rendere attivo lo spettatore? Perché non ci sono scuole per gli spettatori? Brecht definisce la “teatralità fascista”, quella messa in atto dal fascismo per governare le masse, come una estetica che relega lo spettatore in una posizione passiva in modo tale che “lo spettatore si lascia vivere e non vive”. Tutta la sua teoria e prassi estetica teatrale si rivolge contro la massa intimidita, ammaliata, contro il lasciarsi vivere. Il divertimento richiede azione e, per Brecht, uno spirito all’altezza dei tempi. Il divertimento è la categoria fondamentale, la vera funzione del teatro.
Inutile dire che la prassi estetica e politica dei mass media di oggi segue la strategia opposta trasformando lo spettatore in un essere passivo distruggendo le sue capacità di divertimento. Ecco il principale problema educativo, per genitori, insegnanti e bambini. La cosa più importante nell’educazione dei bambini oggi è quella di sottrarli alla passività attraverso il fare. Per i bambini, per natura così attivi, la situazione diventa sempre più difficile. Hanno contro di sé non solo tutti i meccanismi potenti della società di consumo (passivo), ma anche le abitudini di genitori che si sono già arresi alla passività.
Il nocciolo dell’educazione per me è capire che cosa sia il divertimento e insegnare a divertirsi, insegnare in particolare quel divertimento che consiste nella gioia dell’ imparare. Se vogliamo essere ottimisti dobbiamo insegnare ”il piacere che sta nel riconoscere la mutabilità di ogni cosa.”
*rielaborazione dell’intervento alla Scuola estiva Mce di Urbino, 25 agosto 2004, rivista
*rielaborazione dell’intervento alla Scuola estiva Mce di Urbino, 25 agosto 2004, rivista