* Parte dell’intervento è stato pubblicato in “Cooperazione Educativa” n. 1/2005.
Cooperare e competere: così lontani, così vicini…
di Simonetta Fasoli*
La prima parte del titolo di questo articolo ripropone, non a caso, i termini che davano titolo ad un convegno-corso di formazione promosso dal Gruppo territoriale di Ferrara nel novembre del 1998, al quale io stessa ebbi modo di partecipare, con un mio contributo nella giornata di apertura dei lavori. L’esordio non sia una semplice operazione di memoria archivistica o di richiamo ad uno dei gruppi
“storici” del Movimento di Cooperazione Educativa, piuttosto, è interessante sottolineare come una felice intuizione, o più di un’intuizione, nata dentro al percorso di ricerca di un gruppo cooperativo e ritenuta così significativa da farla uscire dai limiti del terreno in cui era nata per farne un oggetto tematico, abbia dato parola e azioni formative alla questione. Come un percorso carsico, la “crepa” aperta allora da Ferrara nel terreno accidentato di un termine fortemente radicato nella storia e nella cultura MCE, tanto da essere molto di più di una parte del suo acronimo, ma l’anima stessa, per così dire, del suo essere/fare, ha continuato a vivere della vita segreta e generativa che vivono le istanze forti; tanto da riemergere per il filo conduttore della settimana formativa 2004 che ha progettato e realizzato a Urbino nell’agosto scorso l’Equipe
“Insieme per educare”.
E’ stato interessante per me, e credo anche per altri che si erano impegnati o avevano partecipato all’iniziativa di Ferrara a suo tempo, rivisitare in occasione del lavoro di progettazione dell’Equipe le idee, le ipotesi, i nessi, i dilemmi del cooperare/
competere. Confrontandoci, tra l’altro, con le ulteriori valenze di significati che queste due parole, già così accostate come un ossimoro indecidibile o come una possibilità da esplorare, hanno manifestato in questi anni (il ’98 per certi versi sembra così lontano, e tutto nel secolo scorso!...). La parentela semantica (e dunque in
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qualche modo anche culturale, se non valoriale) che nel convegno di Ferrara avevo reso cuore della mia comunicazione (c’è di mezzo un “cum” che stimola parecchi pensieri e scardina i nostri costrutti per antitesi e polarizzazioni…) ci sembrava riproporsi negli scenari della globalizzazione.
La presenza di progetti cooperativi solidaristici che tuttavia devono fare i conti con le regole del mercato (e della concorrenza che è una delle figure più evidenti della competizione) per reggere la loro stessa capacità di azione. L’esplosione di forme di una guerra totale presentate (e giustificate) come inevitabile, se non unica, modalità di regolazione dei conflitti agiti sul terreno della spartizione di poteri legati al controllo, alla disponibilità delle fonti di ricchezza. L’onda lunga di un neoliberismo mercantilistico che sembra avere dalla sua le ragioni della storia (dopo il crollo del regime sovietico) e che fa scorrerie “globalizzate”, trovando l’antagonista tragicamente efficace nel terrorismo internazionale e nel fondamentalismo religioso. Tutti questi aspetti interrogano le nostre assunzioni di pensiero e di presenza al mondo, e in particolare ci hanno fatto considerare, non solo come cittadini/e ma anche come educatori/
trici e formatori/trici, che la questione del competere/cooperare non potevamo in ogni caso recintarla nei confini, che pure più da vicino ci appartengono, dell’educazione. Questa consapevolezza ha, tra l’altro, “aperto” i contributi della settimana formativa di Urbino a presenze di esperti e ricercatori più o meno eccentrici rispetto al campo dell’educazione e della formazione. Per tornare, poi, all’educazione (come assunzione responsabile di un progetto formativo destinato a educatori/trici) ma, come dire, immunizzati sufficientemente da ogni tentazione di scorciatoia semplificatrice.
Di qui, l’ordine delle problematiche che ho inteso rappresentare nelle metafore che chiudono il titolo di questo testo. La soluzione di mantenere una dicotomia in fondo manichea tra “cooperazione”
e “competizione” ci è sembrata, dopo tutto, la meno convincente e
praticabile. Torna quella parentela semantica a inquietarci, per farci chiedere quanto intreccio possa esserci, o immaginarsi, tra queste due dimensioni. Intreccio che la nostra esperienza di educatori e di educatrici continuamente registra nelle situazioni di apprendimento, di funzionamento delle dinamiche gruppali: in cui sembra difficile separarle chirurgicamente o comunque ordinarle in sequenze lineari.
Piuttosto, ci sembra pertinente ad un lavoro di “regia educativa”
disporre contesti che lascino emergere, nominare, riconoscere la competizione come un elemento ineludibile dell’esserci dei singoli, come un passaggio di elaborazione profonda delle proprie cariche aggressive e della primaria forma di “autoaffermazione”
che permette di connettere la rappresentazione “io” e “noi”. Da questo punto di vista, potremmo domandarci se il rischio più serio che possiamo correre non sia proprio quello di mis-conoscere la competizione, e costringerla, per così dire, ad un regime di clandestinità, di occultamento a se stessa (e agli altri). E ciò che è clandestino più facilmente degenera, ciò che viene delegittimato cerca forme e modi perversi di giustificazione (che vanno dal privato “oggi sono triste e arrabbiato: domani tornerò buono”, al pubblico “nemico esterno” verso cui si mobilita la guerra santa nel nome dello “scontro di civiltà”…). Sembra possibile, in educazione, dare asilo alle componenti competitive dello scambio umano, costruire contesti che intenzionalmente ne facilitino l’elaborazione, per vedere se per caso il “cum-petere” (etimologicamente:
tendere verso uno stesso scopo) possa mostrare un lato di energia non distruttiva, ma disponibile. E’ emersa, nella stessa Equipe che ha articolato la tematica della scorsa settimana formativa, un’ipotesi che mi pare particolarmente interessante, secondo cui la cooperazione potrebbe essere una forma altamente elaborata della competizione. In altri termini, il punto più alto di governo delle spinte competitive si raggiunge quando la tensione verso uno stesso scopo (cum-petere) produce un livello così elaborato,
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simbolicamente ricco di implicazioni di effetto a medio-lungo termine, da orientare all’azione coordinata e non semplicemente contestuale o contemporanea (cum–operare). Tra queste due dimensioni si renderebbe dunque più visibile una correlazione che supera definitivamente ogni polarizzazione e interpretazione dicotomica; mentre guadagna una funzione essenziale l’azione e la strategia dell’educare, come “medium” efficace che pone in essere, presidia e verifica le condizioni del nesso possibile.
Come si vede da queste ipotesi (che ovviamente vanno prese come tali, con tutte le caratteristiche conseguenti di provvisorietà, fallibilità ecc.), si potrebbe allora ragionevolmente sostenere come non siano di principio incompatibili competizione e cooperazione;
diventa plausibile quel nesso “e”, non disgiuntivo, su cui ci siamo interrogati con qualche perplessità. Mentre con tutta evidenza emergono almeno due elementi di riflessione. La prima si può esprimere così: siamo nel terreno della competizione governata, non dalle regole amorali del mercato, ma dalle azioni intenzionali di un progetto complessivo di società che diventa anzitutto una
“paideia”. Aspetto importante, questo, che ci permette di ragionare sul rapporto tra istruzione ed educazione, che è stato al centro dell’evoluzione dei sistemi formativi a partire dal XVIII secolo.
L’idea di una “istruzione educante”, ponendo in corto circuito il sapere (come teoresi e come tecne) e il più complessivo processo di formazione, diventa la leva strategica forse più rilevante per la costruzione di strutture sociali coerenti con un progetto politico;
non a caso, i più ambiziosi e complessi disegni politico-sociali nati sul terreno delle ideologie tra ‘700 e ‘800 hanno promosso o addirittura espresso teorie e pratiche educative.
La seconda riflessione, correlata alla precedente, risponde all’istanza educativa che sta dentro l’idea stessa della cooperazione. Secondo questa concezione, cooperare non è un’inclinazione “naturale”
(posto che sia possibile adottare una visione naturalistica per un
soggetto fortemente intriso di cultura, come sono gli uomini e le donne…). Non c’è nessuno stato armonico di natura da cui siamo precipitati, per effetto dell’azione degenerativa delle formazioni sociali: il famoso esordio dell’Emilio di Rousseau, da cui hanno preso le mosse le concezioni di una pedagogia negativa, va assunto, credo, come una dimostrazione paradossale degli effetti antisociali che può avere un’azione pedagogica scollata da un progetto complessivo di società; è in realtà, mi pare, l’affermazione della decisività dell’educazione, perfino o sommamente quando si ritrae da un terreno visibile di intervento…
Se cooperare non è un’attitudine per così dire innata, se le nostre esperienze ci dicono che comunque è possibile (oltre che auspicabile), allora vuol dire che la cooperazione è insegnabile, e l’educazione legittimamente se ne fa carico, la tematizza, ne dispone le condizioni. Passaggio essenziale, quest’ultimo, per replicare a quei pessimisti di comodo che esaltano la competitività come forma unica e definitiva della convivenza umana e delle strutture
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sociali. E, stravolgendo l’ordine del ragionamento che stiamo facendo, al più concedono che la cooperazione sia un passaggio strumentale, umanitario e (perfino…) residualmente ingenuo verso la competizione generalizzata.
Contigui, anche se non immediatamente sequenziali, i termini della competizione e della cooperazione, hanno questo terreno comune di coltura: l’intervento educativo come insieme di azioni che regolano le spinte competitive e permettono, a certe condizioni, il passaggio ad una diversa forma di struttura sociale che fa della cooperazione un metodo delle relazioni e una strategia dell’azione. Resta ancora da esplorare la diversa accezione che assume la cooperazione, a seconda che la si consideri come una forma molto evoluta di rappresentazione dell’utile, che travalica i limiti dell’individuo per porsi come utile sociale; o piuttosto come un “salto” dal terreno pragmatico all’orizzonte etico che riguarda la nozione di bene. Nel primo caso, potremmo dire che
“cooperare è meglio”, nel secondo che “cooperare è bene”. Qui la vicinanza dei due termini che la semantica e l’esperienza ci aveva autorizzato a pensare in rapporto di contiguità cede il passo ad un’affermazione di distinzione che non è solo concettuale, ma in qualche misura valoriale. Sembrerebbe che non basti governare le istanze competitive curvandole verso uno scopo riconosciuto come socialmente utile, per assicurare un’armonia prestabilita tra le singole rappresentazioni; la cooperazione è qualcosa di diverso dalla semplice composizione degli interessi e dei fini individuali, quella che le teorie liberistiche affidano all’autoregolazione delle dinamiche del mercato. Cooperare comporta dunque l’attraversamento di criticità nelle quali può rendersi necessaria una temporanea o definitiva remissione di istanze competitive, secondo un criterio di priorità orientato ad un fine riconosciuto come bene comune. E’ appena il caso di sottolineare l’ambiguità intrinseca di questa nozione, nella consapevolezza che attorno a questo nucleo
si sono confrontate posizioni interpretative diversificate. Basti accennare problematicamente alla questione del senso da attribuire al termine “comune”: ha a che fare con la totalità numerica degli individui o piuttosto con una qualità capace di costruire sintesi fortemente aggreganti dentro il medesimo orizzonte simbolico?
In questa prospettiva, la questione della competizione/cooperazione interroga l’educazione e gli/le educatori/trici riguardo a che cosa intendiamo, ad esempio, per “formazione alla cittadinanza”; se cioè basti formare un individuo integro nella sua “morale privata”, o se piuttosto non sia indispensabile ancorare i criteri degli atteggiamenti e delle azioni all’asse valoriale di un’etica pubblica: quella, per intenderci, che si muove sul terreno del bene comune in quanto indivisibile. Per la quale, per riprendere una suggestiva affermazione di Herbert Spencer, ”nessuno può essere libero se tutti non sono liberi”. La fondatezza di questo assunto sembra aver acquistato nuove ragioni proprio nello scenario della globalizzazione, nel quale con massima evidenza si rendono disponibili e visibili le interrelazioni tra strutture e soggetti, per cui la stessa nozione di “vicino” e “lontano”, di “centro” e “periferia” è radicalmente sovvertita e in definitiva superata nella nuova geografia antropica.
Educare alla cooperazione, allora, richiede non solo la predisposizione di contesti che facilitino l’espressione delle istanze competitive sottratte al “sottobanco”, l’evoluzione delle azioni dall’utile immediato alle finalità sociali, ma anche il confronto con valori etici condivisi che siano capaci di interpretare, perseguire, tutelare il bene comune.
A partire da qui, sarà forse possibile ridisegnare il senso dell’essere/
fare l’educatore/trice, restituendo al mestiere e alla professione dell’insegnante quella funzione pubblica che vediamo banalizzata nell’esecutività burocratica o peggio negata nel progetto politico-culturale dei venti neoliberisti che spirano non solo nel nostro Paese.
La scuola è l’espressione istituzionale di questa funzione, ma a darle
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corpo e memoria nel passaggio generazionale sono gli educatori e le educatrici. In questo senso, la qualità “pubblica” travalica i confini tutti nostrani dello schieramento che oppone “pubblico” e “privato”
(comprensibilmente da noi, per precise ragioni storiche, intriso dei principi della laicità dello Stato e delle sue istituzioni) per assumere uno spettro più ampio di significati. E’ forse più vicina alla natura
“pubblica” della ricerca che appartiene alla comunità scientifica, perché ha a che fare con il bene massimamente comune e per questo minacciato dalle spinte della mercificazione: il sapere, nella sua dimensione sociale di accesso e fruizione della conoscenza.
Di questo bene immateriale gli educatori e le educatrici sono i
“custodi/funzionari”: nel senso che ne sono soggetti, ricercatori, promotori, garanti. E la “cooperazione educativa” è molto di più che un metodo di lavoro: è la sostanza della loro azione.
*Parte dell’intervento è stato pubblicato in ‘Cooperazione Educativa’ n.1/2005