Nell’ordinamento italiano, accanto all’imposta di scopo ai sensi della l. 296/2006, esistono almeno altri due tributi assimilabili ad essa: si tratta dell’imposta di soggiorno, introdotta con il d.lgs. 23/2011, e della tassa sui rifiuti, rientrante nell’ambito dell’Imposta unica comunale. La prima può essere istituita esclusivamente dai capoluoghi di provincia e dai comuni di interesse turistico o artistico, mentre la seconda è riscossa obbligatoriamente da tutti i comuni italiani per la copertura dei costi di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani. Data la loro destinazione particolare, individuata dal legislatore nazionale, si è scelto di trattare questi tributi in un capitolo a parte, in modo tale da mettere meglio in evidenzia le loro peculiarità.
4.1 L’imposta di soggiorno
Una prima forma di imposta di soggiorno nell’ordinamento italiano si rintraccia nella legge n. 863 del 1910, che all’art. 1 c. 1 disponeva così: “I Comuni, a cui conferisce importanza essenziale nell’economia locale l’esistenza di stabilimenti idroterapici o il carattere di stazione climatica o balneare, hanno facoltà di promuovere con deliberazione dei propri Consigli domanda al Ministero degl’interni per essere autorizzati ad applicare una tassa di soggiorno a carico di coloro che si recano nel Comune per dimorarvi a scopo di cura”. L’art. 2 c. 1 stabiliva che il gettito dell’imposta doveva essere destinato “alle spese ritenute necessarie allo sviluppo delle stazioni climatiche o balneari, vuoi con opere di miglioramento o di ampliamento, vuoi anche di semplice abbellimento”. Il Regio decreto legge n. 1926 del 1938 estese l’applicazione dell’imposta di soggiorno alle località di interesse turistico, individuate in apposito elenco “con decreto del Ministro per l’interno, di concerto con quelli per le finanze e per la cultura popolare”. Il tributo è stato poi soppresso con il d.l. n. 66 del 1989 perché si riteneva che potesse limitare l’afflusso di turisti, soprattutto in vista dei mondiali di calcio che si sarebbero disputati in Italia
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nell’anno successivo79. L’imposta di soggiorno è stata reintrodotta 22 anni dopo, con il
decreto legislativo n. 23 del 2011, ma il suo embrione risiede nella legge delega n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, nella stessa disposizione che annunciava l’introduzione dell’imposta di scopo80. Il d.lgs. 23/2011, art. 4, c. 1 stabilisce che “i comuni capoluogo
di provincia, le unioni dei comuni nonché i comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte possono istituire con deliberazione del consiglio, una imposta di soggiorno a carico di coloro che alloggiano nelle strutture ricettive situate sul proprio territorio, da applicare secondo criteri di gradualità in proporzione al prezzo sino a 5 euro per notte di soggiorno. Il relativo gettito è destinato a finanziare interventi in materia di turismo, ivi compresi quelli a sostegno delle strutture ricettive, nonché interventi di manutenzione, fruizione e recupero dei beni culturali ed ambientali locali, nonché dei relativi servizi pubblici locali”. L’art. 4, c. 3, annunciava l’emanazione, entro 60 giorni dalla sua entrata in vigore, della disciplina generale dell’imposta, da adottare con regolamento governativo d’intesa con la Conferenza Stato-città autonomie locali. In realtà, la normativa non è mai stata emanata, ma lo stesso comma 3 autorizza i comuni a istituire ugualmente il tributo in caso di mancata approvazione della sua disciplina generale; non può quindi sorprendere che le varie imposte di soggiorno concretamente istituite risultino visibilmente disomogenee tra loro.
4.1.1 L’indeterminatezza della disciplina
In assenza del regolamento governativo, la normativa nazionale del tributo appare decisamente scarna. L’unico vero limite imposto ai comuni consiste nel tetto massimo all’importo che può essere riscosso dalla struttura ricettiva, pari a 5 euro per ogni notte di soggiorno (10 euro per il Comune di Roma81). Paradossalmente, risulta più vincolata la
disciplina dell’imposta di scopo, sebbene tra questa e l’imposta di soggiorno intercorra un palese rapporto di genus – species: infatti, la gamma di interventi finanziabili
79 L’imposta di soggiorno in Italia: lo stato dell’arte e le questioni aperte, dossier a cura di Confesercenti
in collaborazione con INDIS-Unioncamere, con il supporto tecnico di Ref ricerche, 2014, p. 3, disponibile su www.confesercenticampania.it.
80 L.d. 42/2009, art. 12 lett. d): “disciplina di uno o più tributi comunali […] in riferimento a particolari
scopi quali […] il finanziamento degli oneri derivanti da eventi particolari quali flussi turistici e mobilità urbana”.
81 Per il Comune di Roma, l’imposta, che prende il nome di “contributo di soggiorno”, era già disciplinata
nel d.l. 78/2010, convertito con modifiche con la l. 122/2010. La normativa si limita a stabilire un tetto massimo dell’importo pari 10 euro per notte, senza nulla dire in merito alla destinazione del gettito riscosso.
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attraverso ISCOP è significativamente più ampia rispetto alle tipologie di opere realizzabili con i proventi dell’imposta di soggiorno. Risulta quindi apertamente contraddittoria la scelta del legislatore di lasciare maggiore libertà ai comuni nella determinazione di aspetti rilevanti di un tributo a finalità vincolata, rispetto a quella di porre numerosi limiti su un’imposta che dovrebbe invece costituire uno strumento svincolato da particolari obiettivi di interesse nazionale, in grado di rispondere alle specifiche esigenze delle singole comunità locali. A dispetto di importanti limitazioni, la sinteticità della normativa dell’imposta di soggiorno fa sì che il tributo si presti a finanziare un novero di interventi assai ampio, poiché sono numerosi i servizi e le opere pubbliche che possono avere una seppur minima rilevanza per i turisti82: infrastrutture,
spazi pubblici, attività commerciali, ospedali, oltre naturalmente al complesso di strutture destinate specificatamente ai visitatori. Si potrebbe ritenere che vadano esclusi da questo novero gli interventi non esplicitamente finalizzati alla valorizzazione turistica di una determinata area83, ma si tratterebbe di un’ipotesi non direttamente ricavabile da quanto
disposto all’art. 4 del d.lgs. 23/2011, in cui si fa riferimento anche ai “relativi servizi pubblici locali84”, una locuzione nient’affatto chiara, che sembra fare riferimento ad una
gamma potenzialmente illimitata di servizi erogati sul territorio.
Inoltre, l’indeterminatezza della normativa ha posto un ulteriore problema, di natura meramente giuridica, al quale bisogna comunque accennare: l’art. 4 tralascia l’individuazione di elementi essenziali, quali il responsabile d’imposta e il regime delle sanzioni. Trattasi di aspetti che non possono essere disciplinati né da un regolamento ex art. 17 della l. 400/1988, né tanto meno da un regolamento comunale ai sensi dell’art. 52 del d.lgs. 446/1997, in quanto sottoposti a riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione.
4.1.2 I comuni che possono istituire l’imposta di soggiorno
Occorre precisare preliminarmente che, almeno nel 2016, non è più possibile istituire l’imposta di soggiorno a causa della norma contenuta nella l. 208/2015 (Legge di Stabilità
82 E. BECHERI, I turisti come city-users: fra ricavi e costi. Perché la corsa alla tassa di scopo?, in
Turistica, 2011, 2/3, 39.
83 L. TOSI, Considerazioni sulla fiscalità degli enti locali nel disegno di legge di riforma federalistica
dell’ordinamento tributario, in Rivista di diritto tributario, 2008, 11, 968.
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2016), che pone il blocco agli aumenti dei tributi locali: secondo una sua interpretazione estensiva, data dalla Corte dei Conti in più occasioni85, la sospensione dell’efficacia delle
delibere comportanti aumenti tributari va intesa anche alla stregua di un generale divieto di introdurre nuovi tributi. Dunque, rispetto al 2015, il numero di comuni che riscuotono l’imposta di soggiorno è rimasto pari a 650. In questo paragrafo, tuttavia, non ha rilevanza questo blocco, in quanto si intende esclusivamente verificare l’appropriatezza della scelta di riservare la possibilità di servirsi dell’imposta di soggiorno solo a determinati comuni. L’art. 4, c.1, del d.lgs. 23/2011 stabilisce che hanno facoltà di introdurre il tributo i capoluoghi di provincia, le unioni di comuni e i comuni inclusi negli elenchi regionali contenenti le località turistiche e le città d’arte. Questa disposizione è stata legittimamente criticata da più parti86: in primo luogo, un flusso turistico, seppur ridotto, è registrabile in
qualsiasi località, anche in quelle non prettamente turistiche o di pregio artistico. Naturalmente, dato il suo presupposto, l’imposta di soggiorno sarebbe applicabile solo in quei comuni che dispongono di almeno una struttura ricettiva: nondimeno questi, nel luglio 2015, erano ben 6.882, a fronte dei 4147 comuni che risultavano idonei a riscuotere il tributo87. Inoltre, in qualunque località, i proventi derivanti da un’imposta di soggiorno
sarebbero sempre proporzionati al numero di turisti che vengono ospitati, con la conseguenza implicita che la quantità di risorse prelevata non risulterebbe affatto priva di collegamento con i costi delle attività amministrative di rilevanza turistica. D’altra parte, però, si ha potrebbe obiettare che un comune con ridotta affluenza turistica abbia scarso interesse a investire nel turismo, e che quindi le entrate derivanti dall’imposta di soggiorno verrebbero “deviate”, per essere devolute verso tipologie di spesa non in linea con le finalità perseguite del tributo. Ciò nonostante, dato il potenziale riflesso positivo che il turismo può avere sull’economia locale, si può ipotizzare che qualsiasi comunità possa avere interesse ad investire in questo settore. Il ritorno economico non sarebbe comunque scontato: se fosse concessa la possibilità di servirsi dell’imposta di scopo anche ai comuni attualmente esclusi, questi potrebbero optare per applicarla, correndo il
85 Corte dei Conti, Sezione Controllo Piemonte, deliberazione n.35/2016; Corte dei Conti, Sezione
Regionale Controllo Abruzzo, deliberazione n. 35/2016; Corte dei Conti, Sezione Controllo Liguria, deliberazione n. 10/2016.
86 L. TOSI, Considerazioni sulla fiscalità degli enti locali nel disegno di legge i riforma federalistica
dell’ordinamento tributario, cit.
87 L’imposta di soggiorno, Osservatorio sulla fiscalità locale di Federalberghi, agosto 2015, pp. 20-25,
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rischio di ridurre ulteriormente l’afflusso turistico per via di un onere fiscale supplementare, ma al contempo sperando di poter valorizzare il proprio territorio e la qualità dei servizi erogati per attrarre più visitatori. Dunque, si ritiene che la scelta dovrebbe essere aperta a tutti i comuni, avendo ragione di credere che l’applicazione dell’imposta da un lato comporti un rischio sufficiente per dissuadere le amministrazioni non realmente interessate a perseguire le finalità pensate dal legislatore, dall’altro dia agli enti locali la concreta opportunità di investire nel turismo, in consonanza con l’esigenza di garantir loro adeguati spazi di autonomia finanziaria e decisionale.
4.1.3 L’importo del tributo: criteri per la determinazione e soluzioni adottate dai regolamenti comunali
A tal riguardo, alcune incertezze sono state sollevate in riferimento alla concreta implementazione dei criteri di gradualità di cui all’art. 4, c. 1 del d.lgs. 23/2011: sebbene la norma stabilisca che l’importo del tributo è commisurato al prezzo pagato per il soggiorno, la maggior parte dei regolamenti comunali hanno scelto di rapportare l’entità del prelievo alla classificazione della struttura ricettiva, ovvero a un parametro che non sempre esprime l’informazione sull’entità delle tariffe praticate; questa prassi ha preso piede probabilmente poiché tale criterio era previsto nel primo regolamento adottato, destinato alla Città di Roma88. In questo modo, la progressività dell’imposta diviene
incerta, in quanto ad un numero di “stelle” maggiore non corrisponde necessariamente un prezzo più alto da pagare; inoltre, il prezzo come parametro a cui commisurare l’imposta tiene conto della stagionalità e della localizzazione della struttura, ma soprattutto, risulta più preciso e puntuale89, consentendo così di operare una discriminazione anche tra le
quote di imposta da pagare in strutture appartenenti alla medesima classe ma che praticano tariffe sensibilmente differenti (un’eventualità tutt’altro che rara)90. Ma
nonostante tutto, la “deviazione” di cui si sta trattando è stata più volte tollerata dalla giurisprudenza91: infatti, secondo TAR Toscana, sent. 1348/2011, questo criterio, adottato
dal Comune di Firenze, “per quanto non ottimale e come tale perfettibile […] non risulta
88 L’imposta di soggiorno, Osservatorio sulla fiscalità locale di Federalberghi, cit., p. 36.
89 G. CORDASCO, Tassa di soggiorno, ecco come potrebbe cambiare, 12/05/2016, disponibile su
www.panorama.it.
90 Ivi, p. 36-37.
91 Si vedano TAR Toscana, 07/02/2013, n.200; TAR Calabria, 31/12/2011, n. 1694, TAR Puglia, Lecce,
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tuttavia illegittimo, in quanto la classificazione delle strutture ricettive in “stelle”, “chiavi” e “spighe”, alla quale l’imposta si correla, evidenzia […] caratteristiche qualitative via via crescenti delle strutture medesime cui è collegato un aumento del prezzo richiesto ai clienti, così che indirettamente l’imposta viene a porsi in rapporto di proporzionalità con il prezzo”.
Mentre la legge statale ha stabilito i criteri generali per determinare il quantum, residua invece ai comuni il compito di definire i molteplici aspetti di dettaglio dell’imposta. Le soluzioni adottate nei vari regolamenti sono piuttosto eterogenee tra loro, con il risultato che l’onere del tributo può variare sensibilmente tra una località e l’altra. Solitamente, i comuni richiedono importi diversi a seconda della tipologia di struttura ricettiva (hotel, camping) e della sua categoria di appartenenza (il numero di stelle). L’accurato studio pubblicato da Federalberghi92 presenta dati dettagliati sui modelli impositivi adottati dai
comuni italiani e sugli importi definiti dai regolamenti istitutivi.
Osservando i dati, si nota che l’imposta è mediamente più elevata nelle grandi città italiane. Il comune che riscuote il prelievo giornaliero più elevato è quello di Roma (dove il limite massimo è di 10 euro): si va dai 3 euro a notte per gli hotel con una stella ai 7 euro per quelli con cinque stelle. L’importo massimo raggiunge i 5 euro nelle città di Milano, Firenze, Torino, Palermo e Venezia. Generalmente la tariffa minima è pari a 1 euro, eccetto che a Roma (3 euro), Milano e Salerno (2 euro), Torino (1,80 euro), Firenze e Siena (1,50 euro). La tariffa massima è invece più contenuta a Catania e Siracusa (2,50 euro), Ancona e Pisa (2 euro). Nella Capitale, anche le agevolazioni sono piuttosto ridotte (sono esenti soltanto i minori di 10 anni), mentre il periodo di applicazione dell’imposta è di ben 10 giorni. Più blando il regime praticato a Catania, dove il tributo può essere riscosso per un massimo di 3 notti, e grava solamente sui maggiorenni.
Rispetto alla grandi città, nel resto dei comuni l’onere dell’imposta di soggiorno è visibilmente minore, e quasi tutti i regolamenti prevedono tariffe massime inferiori al limite di 5 euro stabilito dalla legge: solitamente, l’importo va da un minimo di circa 0,50 euro ad un valore massimo inferiore ai 3 euro. Mentre per quanto riguarda il limite alla durata d’applicazione, si segnalano intervalli di tempo mediamente più lunghi nelle
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località lacuali e balneari, con punte massime di 30 giorni (Bibbona, Castagneto Carducci, S. Michele al Tagliamento, Cavallino Treporti).
Accanto alla folta schiera dei comuni che prevedono scaglioni commisurati alla categoria della struttura ricettiva, vi sono quelli che commisurano gli importi al prezzo del soggiorno. Il regolamento del Comune di Bologna individua quattro fasce di prezzo (da 0 a 30,99 euro, da 31 a 70,99 euro; da 71 a 120,99 euro; oltre 121 euro), a cui corrispondono quattro tariffe differenti: (1,50; 2,00; 3,00; 5,00 euro). In Valle d’Aosta, la normativa sugli importi è identica in tutti i comuni; la tariffa, come avviene a Bologna, è commisurata al prezzo, ma risulta decisamente più contenuta.
Una terza via, originariamente percorsa da alcuni comuni, consisteva nell’applicazione di un unico importo, che prescinde da qualsiasi tipo di commisurazione, diretta o mediata, al prezzo del soggiorno. Si trattava di località come La Spezia (1,50 euro), Pizzo Calabro (1 euro) e Campiglia Marittima (0,50 euro). Tuttavia, in seguito questi comuni si sono uniformati ai restanti, e attualmente praticano tariffe differenziate.
4.1.4 Gettito riscosso e destinazione d’impiego
Per poter effettuare un bilancio preliminare sull’imposta di soggiorno, occorre soffermarsi sull’analisi del suo gettito, ed assicurarsi che esso venga effettivamente destinato a quelle tipologie di spesa che contribuiscono al sostentamento del turismo93:
se così non fosse, si perderebbero alcuni importanti vantaggi dell’imposta, ovvero la sua aderenza al principio della controprestazione e la trasparenza nell’impiego del denaro pubblico. Inoltre, da più parti è sorto il timore che l’imposta sia stata adottata non tanto per fornire un sostegno addizionale agli investimenti nel turismo, quanto piuttosto al fine di rendicontare le preesistenti spese relative al settore turistico che precedentemente venivano coperte da altre fonti di entrata: pertanto, l’istituzione del tributo non sarebbe servita ad incrementare gli investimenti nel turismo, bensì a “liberare” le risorse precedentemente stanziate per questa tipologia di spesa, così da destinarle ad altre voci di bilancio. Alla luce degli obiettivi individuati dal legislatore, l’imposta di soggiorno dovrebbe essere applicata per incentivare ulteriormente il turismo, e quindi si potrebbe ritenere che in seguito alla sua istituzione la spesa complessiva in questo settore debba
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crescere. Tuttavia, si ha motivo di pensare che un onere fiscale a carico dei turisti sia un requisito necessario per il finanziamento di quella porzione di spesa pubblica che arreca beneficio anche ai turisti, proprio in ottemperanza al principio del beneficio; inoltre, sui turisti dovrebbe gravare i costi relativi al nocumento che essi arrecano alla comunità che li ospita (questo argomento verrà approfondito nei paragrafi successivi). Ma soprattutto, a prescindere da valutazioni di merito, la giurisprudenza ha dispensato importanti chiarimenti sulla questione, affermando che l’istituzione dell’imposta di soggiorno non comporta necessariamente un incremento delle spese in ambito turistico: secondo il TAR Lecce94, “il legislatore non impone che il gettito derivante dal nuovo tributo venga
destinato a nuove spese, ma impone solo che esso venga utilizzato per finanziare interventi in materia di turismo”. Si consideri, inoltre, che nello stesso periodo in cui è stata introdotta l’imposta di soggiorno nell’ordinamento italiano, il Governo italiano emanava vari decreti legge nei quali veniva disposta la progressiva contrazione dei trasferimenti erariali; pertanto, nella medesima sentenza, il TAR Lecce rilevava che “ove il legislatore non avesse attribuito loro la possibilità di istituire l’imposta di soggiorno, i Comuni, a fronte di una riduzione dei trasferimenti erariali, sarebbero stati costretti a ridurre il livello qualitativo e quantitativo degli interventi nel settore della promozione turistica, della manutenzione del territorio e dei servizi pubblici locali, ovvero in alternativa, ad aumentare le aliquote di tributi già istituiti. […] Fermo restando il rispetto del vincolo di destinazione imposto dal legislatore, ben può il gettito del nuovo tributo essere utilizzato per garantire la continuità, rispetto ai precedenti esercizi, dei servizi assicurati dal Comune nel settore del turismo e della manutenzione del territorio”. La pronuncia del TAR esprime un orientamento difendibile, in quanto fa notare chiaramente come l’imposta di soggiorno possa consentire di riempire il gap causato dalla contrazione delle risorse statali: da questo punto di vista, quindi, scegliendo di rimpiazzare una quota dei trasferimento erariali con un tributo proprio, il legislatore ha compiuto un passo in avanti nel solco del decentramento fiscale e dell’autonomizzazione della finanza locale. Non vi è, quindi, alcuna anomalia, né tantomeno l’ombra di un abuso, se l’istituzione del nuovo tributo non è accompagnata da alcun aumento di spesa nel settore turistico.
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Si passa ora ad esaminare il gettito riscosso con l’imposta di soggiorno: secondo i dati raccolti dall’UIL95, nel 2015 il valore complessivo era di 431 milioni di euro, un importo
superiore del 20,5% rispetto a quello dell’anno precedente. In particolare, i comuni che hanno conseguito le entrate più alte sono stati Roma (123.100.000 euro), Milano (61.000.000 euro), Venezia (27.500.000 euro) e Firenze (26.750.000 euro), mentre nei restanti i proventi sono risultati inferiori a 10 milioni di euro: al quinto posto, infatti, si colloca Rimini, che ha prelevato circa 7 milioni di euro. La cifra riscossa nelle quattro città con maggior gettito è così ingente anzi tutto per l’elevata quantità di turisti che vi affluisce ogni anno: Roma, Milano, Venezia e Firenze sono infatti le città italiane che registrano il più elevato afflusso di visitatori96. Peraltro, questi comuni applicano anche
una tariffa piuttosto onerosa. Per quanto riguarda le voci di spesa finanziate con l’imposta, sulla scorta del rapporto curato da Federalberghi97, si illustreranno i dati relativi al 2014
dei quattro comuni che hanno ottenuto più risorse.
A Roma, il gettito conseguito nel 2014 era pari a 4,671 milioni di euro: il 94% è stato rendicontato a titolo di “Impieghi generali di bilancio”; solo il 6% è stato destinato a “Impieghi per turismo, beni culturali e ambientali”. Nello specifico, di questo 6% dei proventi, il 38,9% è servito a finanziare la voce “Accoglienza e informazione turistica”, mentre la restante quota è stata destinata a “Gare bandite per marketing e nuovi prodotti turistici”, “Programmazione eventi in Italia e nel Mondo”, “Partecipazione a fiere e workshop”, “Comunicazione dell’immagine Roma” e “Formazione del personale”. Dunque, solo una minima parte del Contributo di soggiorno è stata destinata a voci di