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L’autonomia finanziaria municipale deve fare i conti con i rapporti intercorrenti tra i comuni e gli enti sovraordinati ad essi: infatti, l’intera attività delle amministrazioni locali ha come sfondo una serie di vincoli nazionali e internazionali, sorti attraverso accordi intercorrenti tra i vari livelli di governance, oppure per mezzo di norme direttamente calate dall’alto. L’esistenza di queste limitazioni è riconducibile sia a ragioni economiche che a caratteristiche dell’ordinamento giuridico italiano: tra le prime, rientrano il coordinamento della finanza pubblica e il controllo dei conti pubblici nazionali, che hanno ispirato il Patto di stabilità interno; tra le seconde, si può annoverare il primato del potere legislativo, che prevale gerarchicamente su quello regolamentare, e che costringe gli enti locali, sprovvisti di esso, a prendere decisioni di entrata e di spesa muovendosi nel reticolo di norme intessuto da enti gerarchicamente preposti. Nel primo caso, il vincolo nasce perché si intende realizzare obiettivi specifici di finanza pubblica; nel secondo caso, invece, esso non nasce in vista di una finalità contingente, ma è riconducibile esclusivamente al modo in cui sono strutturati i rapporti intercorrenti tra i vari livelli istituzionali. Questa distinzione riflette fedelmente la duplice articolazione rinvenibile nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica: il coordinamento dinamico, finalizzato a raggiungere specifici obiettivi o a produrre determinati effetti sull’economia pubblica, e quello statico, volto a definire gli spazi di autonomia e a suddividere il potere di entrata e di spesa degli enti pubblici124. A ben vedere, però, i vincoli apposti

all’autonomia finanziaria hanno sempre a che fare con aspetti di natura giuridica, anche quando sono introdotti per attuare principi di natura economica: infatti, il perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica è richiesto dall’Unione Europea, e l’adeguamento alle disposizioni emanate da questa organizzazione internazionale deriva a sua volta da una norma contenuta nella Costituzione125. Del resto, il complesso dei meccanismi di finanza

124 A. BRANCASI, Il coordinamento della finanza pubblica nel federalismo fiscale, 57° Convegno di

Studi Amministrativi, Varenna, 22-23-24 settembre 2011, pp. 1-4, disponibile su

https://www.portalefederalismofiscale.gov.it.

125 Art. 10, c. 1 Cost: “L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale

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pubblica deve sottostare a regole specifiche previste nell’ordinamento nazionale e da quello europeo. Talvolta, però, tali regole rischiano di compromettere l’autonomia e la prosperità economica degli enti locali, soprattutto perché si tratta di disposizioni emanate da autorità che non conoscono gestiscono direttamente i conti pubblici locali, e che di conseguenza non possono carpire a pieno le esigenze delle amministrazioni locali; inoltre, le norme emanate dallo stato o dall’Unione Europea rispondono solitamente ad interessi nazionali o sovranazionali che, in virtù della loro diffusione in un raggio molto più ampio di quello locale, possono facilmente confliggere con gli obiettivi delle amministrazioni comunali. Tuttavia, esplicitando l’affermazione fatta all’inizio di questa breve introduzione, la conflittualità tra enti posti su livelli gerarchici differenti è direttamente proporzionale all’intensità dei loro rapporti; pertanto, quanto più è autonoma la finanza locale, tanto più liberi saranno gli enti locali di investire liberamente le proprie risorse. Al contrario, maggiore è la dipendenza finanziaria dei comuni dallo Stato e dall’Unione Europea, maggiore sarà il loro coinvolgimento ai fini della stabilizzazione economica nazionale. In quest’ottica, l’allentamento dei vincoli procede di pari passo con la promozione dell’autonomia finanziaria: quest’ultima, infatti, conferisce indipendenza e responsabilità ai comuni italiani, consentendo loro di prendere decisioni che non producano conseguenze significative al di fuori dei loro confini; così, qualsiasi vincolo imposto ai municipi per tutelare un interesse nazionale o sovranazionale potrebbe perdere completamente la propria ragion d’essere. D’altra parte, l’esistenza di norme di coordinamento tra livelli diversi di governo presuppone un nucleo di autonomia a disposizione degli enti locali; contrariamente, il potere decisionale sarebbe interamente attribuito allo stato, e mancherebbe così il secondo termine del coordinamento, ovvero una qualche forma di attività autonoma in capo a municipi e province.

Come si vedrà nel paragrafo successivo, il peso dei vincoli derivanti dalle caratteristiche dell’ordinamento giuridico italiano non solo è determinante, ma appare anche difficilmente rimovibile. Il potere normativo, di rango regolamentare, di cui dispongono i comuni è sensibilmente più debole rispetto a quello legislativo, di cui sono titolari lo Stato e le Regioni: da qui deriva un forte limite all’autonomia impositiva dei parlamenti locali, i quali non possono disporre liberamente delle proprie forme di entrata, potendo solamente manovrare alcuni aspetti di dettaglio di tributi definiti a livello nazionale. Le difficoltà che si incontrerebbero qualora si intendesse ampliare la portata del potere

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impositivo degli enti locali sono sostanzialmente riconducibili all’esistenza di una previsione di rango costituzionale, secondo la quale vi è una riserva di legge per l’imposizione di qualsiasi prestazione patrimoniale.

Il coordinamento della finanza pubblica si estrinseca in una varietà di disposizioni normative e di accordi programmatici. In questo capitolo, si analizzeranno solamente gli aspetti che producono effetti diretti sull’autonomia finanziaria dei comuni italiani, ovvero la riserva di legge in materia di imposizione tributaria e il Patto di stabilità interno. 5.1 I vincoli costituzionali all’autonomia finanziaria dei comuni

Il principale limite all’autonomia finanziaria dei comuni è rintracciabile in una disposizione costituzionale che impedisce loro, in quanto enti locali, di disporre pienamente dell’autonomia impositiva in ambito finanziario. Infatti, l’art. 23 della Costituzione afferma che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”; la stessa Carta costituzionale attribuisce il potere legislativo soltanto allo Stato e alle Regioni, non anche agli enti locali, che sono dotati esclusivamente di potestà regolamentare (e quindi di rango secondario). Ragion per cui, nessun comune potrà mai introdurre ex novo un tributo che non sia stato previsto e disciplinato, almeno nei suoi elementi fondamentali (presupposto, base imponibile, soggetti passivi, aliquota), da una legge statale o regionale. Al comune residua quindi solo il gettito dei tributi locali istituiti dalla legge (e la possibilità di istituire ulteriori tributi che siano già previsti dalla legge). I comuni possono in genere modificare gli aspetti di dettaglio: spesso è concessa la possibilità di modificare l’aliquota del tributo in rialzo o in ribasso, entro limiti ben definiti, e talvolta condizionatamente alle manovre effettuate sulle aliquote di altri tributi (si vedano i limiti combinati nell’applicazione delle aliquote di IMU e TASI, la cui somma non può superare l’1,06% dell’imponibile).

Il collegamento tra autonomia normativa e autonomia finanziaria è piuttosto evidente: se i comuni sono privi di adeguati poteri normativi, essi non possono prendere decisioni realmente autonome in termini di spesa e di entrata126. E ciò è vero nella misura in cui le

funzioni loro attribuite afferiscono all’intero ambito amministrativo, alla stregua di un principio di sussidiarietà verticale concepito partendo dall’assunto che è proprio l’ente

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municipale quello maggiormente adeguato ad occuparsi dell’amministrazione; ne consegue che gli enti gerarchicamente preposti dovrebbero intervenire soltanto qualora i comuni non riescano a svolgere al meglio le proprie mansioni (e quindi in via del tutto residuale). La sussidiarietà è un concetto ben radicato nell’ordinamento sovranazionale, in quanto definisce il perimetro dell’intervento delle istituzioni comunitarie, al di fuori del quale si dipana l’attività normativa degli stati membri (art. 5 TUE). Tale criterio trova spazio anche all’interno dell’ordinamento italiano, e, insieme alla differenziazione e all’adeguatezza, è posto a presidio della distribuzione delle funzioni tra i vari livelli di governo nazionale; questi tre principi hanno esplicitamente ispirato la devoluzione di funzioni amministrative dallo Stato ai comuni nel corso degli anni ’90 (si veda la l. 59/1997), e, a partire dalla riforma del Titolo V, sono stati inseriti nell’art. 118 della Costituzione. La sussidiarietà verticale relega l’intervento degli enti gerarchicamente preposti a casi eccezionali, laddove gli interessi in gioco esondino dal ristretto ambito municipale, rendendo così opportuno, per determinate funzioni, un esercizio unitario a un livello superiore. Come si è precedentemente osservato, i comuni, data l’ampiezza delle funzioni amministrative per le quali sono competenti, debbono essere in grado di dotarsi di adeguate risorse finanziarie, e il legislatore costituzionale sembrava cosciente di questa necessità allorché emendò l’art. 119. Tuttavia, la nuova formulazione dell’articolo 118 implica il superamento del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative, attribuendo queste ultime a enti dotati di un potere normativo, di rango secondario, che appare insufficiente ai fini dell’esplicazione di una reale autonomia finanziaria. Ed è proprio qui che si rinviene, con riferimento all’assetto della finanza municipale, l’elemento maggiormente contradditorio presente all’interno testo costituzionale.

Al di là delle previsioni costituzionali, l’opportunità di concedere maggiore autonomia normativa è auspicabile anche e soprattutto alla luce della rimarcata disomogeneità esistente sul territorio italiano, in termini di deficit infrastrutturali, distribuzione della ricchezza, esigenze e bisogni della popolazione.

Tornando all’art. 23 della Costituzione, la sua interpretazione, quando si tratta di potere impositivo locale, non può non tener conto delle disposizioni contenute in alcuni articoli del Titolo V della stessa costituzione, come modificato dalla riforma del 2001: l’art. 114, infatti, riconosce eguale importanza a tutti gli enti che compongono la Repubblica

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italiana, enunciando che essa “è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”; e soprattutto l’art. 119 stabilisce che “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa”. Le nuove disposizioni del Titolo V si pongono in potenziale contrasto con l’articolo 23, in quanto le prime sembrano riconoscere un’autonomia finanziaria di analoga portata per i suddetti enti, mentre il secondo, subordinando la piena autonomia fiscale alla titolarità del potere legislativo, finisce per limitare indirettamente i poteri d’entrata degli enti locali. Interpretando alla lettera la prescrizione di cui all’art. 23, l’autonomia impositiva locale ne risulterebbe azzerata: infatti, affermando che nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge, l’imposizione fiscale dovrebbe necessariamente essere identica all’interno di ogni singola regione, o comunque un’eventuale differenziazione non potrebbe che derivare da scelte statali o regionali; e di conseguenza, gli enti locali dovrebbero esercitare esclusivamente le funzioni di riscossione e accertamento127. Ma questa via non è stata avvallata né dalla

dottrina, né dalla giurisprudenza: si ritiene che la riserva di legge attenga esclusivamente alla definizione degli elementi essenziali del tributo, quali il presupposto, i soggetti attivi passivi, la base imponibile e l’aliquota: essi costituiscono i principali limiti a cui il potere regolamentare degli enti locali deve attenersi128. Ulteriori limitazioni derivano

dall’esigenza di coordinare la finanza nazionale, che, in primo luogo è ampiamente riconosciuta in costituzione, e in secondo luogo si pone come valore centrale della legge delega n. 42 del 2009129. Ciononostante, come già accennato, non si può non riconoscere

la portata dell’art. 119, che attribuisce autonomia di entrata e di spesa tanto allo stato quanto agli enti territoriali: alla luce di questa disposizione, la riserva di legge in materia di imposizione fiscale perde inevitabilmente rigidità; ed ecco che, come afferma A. Fantozzi130, “nella «fiscalità locale», la riserva di legge deve, tuttavia, essere indagata e

declinata contemperando il “valore” tributario con il “valore” dell’autonomia fiscale, la quale è, prima di tutto, riconoscimento della dignità democratica e della rappresentatività degli organi istituzionali degli Enti locali: un profilo, questo, che consentirebbe una

127 M. CARDILLO, Potestà regolamentare comunale, in La fiscalità locale tra modelli gestori e nuovi

strumenti di prelievo, cit., p. 49.

128 A. FEDELE, La potestà normativa degli enti locali, in Riv. Dir. Trib., 1998, p.113.

129 M. CARDILLO, La potestà tributaria regolamentare dei Comuni, in Riv. Trib. Loc., 2011, p. 39. 130 A. FANTOZZI, Riserva di legge e nuovo riparto della potestà normativa in materia tributaria, in

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maggiore flessibilità del minimo contenuto della legge, proprio per conferire spazio di autonoma manovra fiscale a livello locale ed, in definitiva, di gestione autonoma e responsabile”. L’osservazione dell’autore induce a riflettere sulla ratio dell’art. 23: si può ipotizzare che la riserva di legge risponda più all’esigenza di garantire che le decisioni fiscali siano prese da un organo rappresentativo democratico, qual è in effetti il parlamento; ma tale rappresentatività è tipica anche dei consigli locali, in quanto anch’essi eletti dal popolo, e poco importa che gli atti normativi di questi organi non siano di rango primario. In ultima analisi, secondo questa lettura, l’unico limite concreto all’autonomia impositiva locale consisterebbe nel necessario coordinamento della finanza pubblica. Una visione di questo genere ben si accorda con l’opportunità di assicurare adeguati spazi di autonomia finanziaria ai comuni; in quanto implica la possibilità a livello locale di diversificare i presupposti oggettivi dei tributi e di allargare i margini di manovra su basi imponibili e aliquote131. Tuttavia, la giurisprudenza non ha accolto un’interpretazione

così larga dell’autonomia di cui all’art. 119, limitandola non solo con il richiamo all’art 23, ma anche in ottemperanza a esigenze di unità e di coordinamento del sistema tributario nazionale132.

5.2 Il Patto di stabilità interno

Citando la definizione contenuta nel sito istituzionale del MEF, il Patto di stabilità interno nasce “dall'esigenza di convergenza delle economie degli Stati membri della UE verso specifici parametri, comuni a tutti, e condivisi a livello europeo in seno al Patto di stabilità e crescita e specificamente nel trattato di Maastricht133”. Il Patto è finalizzato a contenere

nei limiti del 3% il rapporto tra indebitamento netto delle P.A. e PIL, ed entro un massimo del 60% il rapporto tra debito pubblico delle P.A. e PIL: è evidente, quindi, come esso risponda ad una puntuale esigenza di coordinamento dinamico dell’economia. Il passo in avanti compiuto con questo provvedimento134 consiste nell’estensione agli enti territoriali

dei vincoli del Patto di stabilità e crescita, che obbliga esclusivamente gli stati contraenti:

131 G. BERNABEI, G. MONTANARI, Tributi Propri e Autonomie Locali, Primiceri Editore, 2016, pp.

91-92.

132 Si veda in particolare Corte Cost. sent. n. 37/2004.

133http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/e-GOVERNME1/Patto-di-S/CosaeilPatto.

134 A dispetto della sua denominazione, si preferisce definire il Patto di stabilità interno come un

provvedimento unilaterale, piuttosto che come un accordo, perché in realtà è frutto di un atto imposto dal legislatore nazionale agli enti territoriali; manca infatti qualsiasi accordo nella determinazione delle norme, così come la facoltà di non aderire.

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questo perché, con l’adesione dell’Italia all’Unione economica e monetaria, i principi europei di coordinamento della finanza pubblica non riguardano più esclusivamente i conti nazionali, ma si applicano al complesso delle pubbliche amministrazioni, incluse quelle territoriali. La legge istitutiva del Patto di stabilità interno è la 448/1998 (finanziaria per il 1999) ma nel corso degli anni obiettivi e modalità di determinazione degli equilibri finanziari sono stati più volte rivisti, fino al 2016, anno nel quale la rigidità dei vincoli hanno subito una netta distensione. Il contenimento del deficit e del debito pubblico è rimasto un obiettivo indiscusso, ma non di certo l’unico: ulteriori finalità, tra cui la riduzione a livello locale della spesa pubblica e della pressione fiscale, sono via via entrate a far parte del Patto, sebbene non in via definitiva. Inoltre, le disposizioni sono differenziate per Regioni, Province e Comuni.

5.2.1 La complessa evoluzione normativa

Il Patto di stabilità interno mira a realizzare un obiettivo di una certa rilevanza nel panorama economico nazionale e comunitario, ma nondimeno appare criticabile l’evoluzione che la sua normativa ha frequentemente subito a partire dall’inizio del nuovo millennio sino ai giorni nostri. In questa sede, rileva segnalare in particolare che l’introduzione di determinate norme (alcune delle quali successivamente rimosse) ha comportato una certa contrazione dell’autonomia di spesa dei comuni, peraltro senza che ciò abbia arrecato un qualsiasi vantaggio in termini di contenimento dell’indebitamento135. Ma soprattutto, la periodica variazione delle regole, che pare essere

una prerogativa della finanza locale, ha paradossalmente generato instabilità e incertezza nelle operazioni di gestione dei bilanci, mettendo a serio rischio l’efficienza complessiva del sistema. Nel 2001, appena due anni dopo l’introduzione del Patto, si intervenne sulla determinazione del saldo obiettivo, stabilendo che esso non doveva più essere commisurato a un parametro di riferimento universale, bensì al valore riportato negli anni precedenti dal singolo ente, con conseguente obbligo di migliorare il proprio risultato anche con riguardo agli enti che nell’ultima annata avevano già registrato un saldo positivo. Una regola alquanto penalizzante, che di fatto imponeva una contrazione dei flussi in uscita anche in presenza di entrate impegnabili; e infatti, già nel 2002 il saldo obiettivo tornò a fondarsi sugli originari parametri di convergenza. Il riferimento ai saldi

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delle annate precedenti fu poi nuovamente introdotto nel 2007, seppur con criteri diversi: i saldi obiettivi erano commisurati a quelli registrati tra il 2003 e il 2005, tenendo conto sia dei valori di cassa che di quelli di competenza. Dal 2008, poi, il conseguimento degli obiettivi del Patto di stabilità si è misurato sulla base di un saldo misto, calcolato come differenza tra i risultati della gestione di competenza di entrate e spese correnti e quelli della gestione di cassa per quel che riguarda entrate e spese in conto capitale. Un'altra norma di breve durata, inizialmente destinata alle regioni, fu applicata agli enti locali a partire dal 2005: la spesa di comuni e province, inclusa quella in conto capitale, incontrava un limite specifico, quantificato in ragione della minore o maggiore virtuosità degli enti. A partire dal 2011, la disciplina dell’equilibrio dei conti pubblici degli enti territoriali è stata rinnovata da varie norme, alcune delle quali non hanno acquisito efficacia immediata, ma sono invece diventate esecutive a partire da annate successive. Anzi tutto, è stata ampliata la platea dei comuni assoggettati al Patto: se in precedenza erano inclusi solamente quelli con popolazione maggiore o uguale a 5000 abitanti, a partire dall’annata 2013 si sono aggiunti anche quelli con almeno 1000 abitanti. Sempre dal 2013, l’applicazione dei vincoli del Patto è estesa alle aziende speciali, agli enti pubblici strumentali ai comuni e che esercitano attività senza fini di lucro, e alle istituzioni. La l. 220/2010 (Legge di Stabilità 2011) ha poi introdotto la possibilità regionalizzare il Patto: si distinguono quindi due procedure, la regionalizzazione verticale e quella orizzontale. Nel primo caso, le regioni autorizzano gli enti locali a peggiorare il loro saldo programmatico per finanziare spese in conto capitale, rideterminando contestualmente l’obiettivo programmatico in termini di cassa e di competenza. Nel secondo caso, invece, la regione può deliberare obiettivi di saldo distinti per gli enti locali presenti nel suo territorio, purché l’obiettivo del Patto sia raggiunto nel complesso: questa norma autorizza la cessione degli spazi finanziari da parte degli enti che prevedono di registrare un saldo positivo in favore di quelli che invece rischiano di “sforare”. La Legge di Stabilità 2011, inoltre, ha reso più stringenti gli obiettivi del Patto, i quali, a partire dal 2011, riguardano il conseguimento di un saldo calcolato sulla base della spesa corrente mediamente sostenuta nell’arco di un triennio di riferimento. Ma le regole di maggior rilevanza in epoca attuale hanno visto la luce nel 2012: in quest’anno, i vincoli di bilancio previsti nel Trattato di Maastricht (rapporto debito/PIL e indebitamento netto delle P.A.) sono stati inseriti in Costituzione, e successivamente la legge rinforzata n. 243 del 2012,

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attuativa del principio del pareggio di bilancio contenuto nell’art. 81 Cost., è intervenuta sui criteri di determinazione dell’equilibrio finanziario, stabilendo che “i bilanci delle regioni, dei comuni, delle province, delle città metropolitane e delle province autonome di Trento e di Bolzano si considerano in equilibrio quando, sia nella fase di previsione che di rendiconto, «registrano: a) un saldo non negativo, in termini di competenza e di cassa, tra le entrate finali e le spese finali; b) un saldo non negativo, in termini di competenza e di cassa, tra le entrate correnti e le spese correnti, incluse le quote di capitale delle rate di ammortamento dei prestiti”; complessivamente, quindi, l’equilibrio si calcolava sulla base di quattro saldi, e riguardava sia la gestione di competenza che quella di cassa. Per il 2016, l’efficacia della legge 243 è stata sospesa: la legge 208/2015, infatti,

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