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Nei capitoli precedenti si è svolta un’analisi dei tributi municipali italiani, soffermandosi in particolare sulle imposte, che costituiscono la principale tipologia di entrata per i comuni. Sono state riscontrate molteplici criticità: una scarsa aderenza al principio del beneficio, ridotti margini di manovra a disposizione degli enti locali, un’assenza di proporzione tra le entrate disponibili e le spese da finanziare. Tutto ciò conferisce all’imposizione locale una marcata inefficienza: occorrerebbe ovviare ai vari difetti riscontrati rimodellando l’assetto della finanza municipale, ponendosi però dalla prospettiva degli enti locali e degli interessi delle loro comunità di riferimento. Per concludere questo studio, si darà uno sguardo al di là della frontiera italiano, osservando alcuni esempi virtuosi di imposizione locale, al fine di scoprire modelli dai quali la legislazione italiana potrebbe trarre spunto. Infatti, un’analisi costruttiva deve necessariamente essere accompagnata da soluzioni correttive, la cui elaborazione non può avvenire esclusivamente in astratto, ma richiede piuttosto un lavoro di confronto con strumenti di prelievo “testati”, che abbiano concretamente dimostrato la loro funzionalità. Naturalmente, l’illustrazione di questi modelli tributari non sottende all’intento di trasporli fedelmente da un ordinamento all’altro: ogni tributo è strutturato in un preciso contesto, ed è collocato all’interno di una più ampia cornice omnicomprensiva, al di fuori della quale potrebbe risultare inefficiente o superfluo. Pertanto, si ritiene che il raffronto internazionale debba avere principalmente una finalità conoscitiva, e il suo esito deve essere quello di offrire spunti per l’elaborazione di nuovi tributi adattabili al contesto italiano, ma epurati dai ben noti difetti che attanagliano gli strumenti di prelievo attualmente vigenti nel nostro ordinamento.

Nei prossimi paragrafi, l’analisi verterà sia su istituti stranieri esistenti anche in Italia, ma declinati diversamente all’estero, sia su tipologie di tributo totalmente assenti nell’ordinamento italiano: in qualunque caso, si porrà una particolare attenzione agli aspetti che maggiormente rilevano per la loro originalità o per contrasto con quanto si osserva nel nostro panorama fiscale.

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6.1 La Council Tax

La Council Tax, istituita con il Local Government Finance Act del 1992 in Inghilterra, Galles e Scozia, è paragonabile alla TASI italiana Le analogie non vertono tanto sugli elementi essenziali dei due tributi, dato che il loro funzionamento diverge sensibilmente, ma piuttosto sulle finalità perseguite: entrambi, infatti, sono riscossi per finanziare le spese afferenti ai servizi locali indivisibili.

La Council Tax ha sostituito la Community Charge, un’imposta altamente impopolare introdotta in epoca thatcheriana. La filosofia dei due tributi è fondamentalmente identica, e si basa sull’assunto che le entrate locali debbano rappresentare la contropartita dei servizi pubblici erogati nella comunità: questa visione della finanza decentrata, nella sua versione originale affermatasi negli anni ’80 con l’introduzione della Community Charge, non dava spazio a criteri di progressività, i quali invece restavano ancorati alla fiscalità nazionale. Così concepita, l’imposta locale tenta di replicare il meccanismo dei pagamenti effettuati nella dimensione privata del libero scambio, e perciò viene commisurata al valore del bene/servizio fornito al contribuente, senza che questi possa invocare agevolazioni in ragione della propria situazione reddituale154. La Community Charge,

quindi, consisteva in un importo fisso, ed era del tutto indifferente alle caratteristiche del nucleo familiare e dell’immobile su cui gravava. L’imposta vide la luce nel 1988, ma si rivelò altamente impopolare, tant’è che fu soppressa appena quattro anni dopo. La Council Tax, invece, introdotta nel 1993, è tutt’ora in vigore, ed ha una rilevanza cruciale nell’ambito della finanza delle municipalità: nel periodo 2015-2016, i suoi proventi hanno coperto circa il 26% del totale delle spese degli enti locali inglesi155. Rispetto alla

Community Charge, la nuova imposta è, seppur lievemente, informata al criterio della progressività. In realtà, si può osservare come l’impianto di fondo sia sostanzialmente mutuato dal tributo precedentemente vigente: la Council Tax è pagata come corrispettivo dei servizi pubblici offerti in loco, e pertanto si cerca quanto più possibile di commisurarne l’importo all’effettivo beneficio individuale. L’aspetto redistributivo resta in secondo piano, e si limita ad un leggero smussamento dell’onere d’imposta correlato alla composizione del nucleo familiare o all’appartenenza ad una delle categorie

154 I. LEIGH, Law, Politics and Local Democracy, Oxford, 2000, p. 103.

155 Council tax levels set by local authorities in England 2016-17, Department for Communities and

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“speciali”: i singles hanno diritto ad un affrancamento del 25%, gli studenti fuori sede sono totalmente esenti, e altre riduzioni sono dispensate a favore dei minorenni e degli altri soggetti a questi assimilati, dei detenuti, e dei soggetti con reddito annuo inferiore a 18.000 sterline; sono altresì agevolate anche le proprietà appartenenti a stati esteri o alle forze dell’ordine. L’identificazione del soggetto passivo avviene nel rispetto del principio del beneficio: l’imposta, infatti, grava sull’occupante dell’immobile, sia esso affittuario o proprietario. Il peso ridotto della finalità redistributiva nel computo dell’imposta comporta l’assenza di qualsiasi agevolazione sulle abitazioni principali, così come di aggravi particolari sulle seconde case; al contrario, i vari councils possono introdurre delle riduzioni a favore dei possessori di seconde case non occupate, la cui ratio diverge integralmente da quella dell’esenzione sulla prima casa vigente in Italia. In realtà, nel caso britannico non si può nemmeno parlare di “agevolazione”, poiché la possibilità di concedere uno sconto appare concepita nell’ottica del principio della controprestazione, sul presupposto logico che all’aumentare del numero di immobili posseduti non vi è un evidente incremento del beneficio individuale derivante dal godimento dei servizi pubblici156. Per quanto riguarda la determinazione dell’importo del tributo, esso è

variabile in ragione della prossimità dei servizi pubblici nelle varie aree del Council: ciò significa che se l’immobile si trova in una zona ben fornita, l’imposta sarà relativamente onerosa. Di conseguenza, l’onere gravante sul contribuente è assai variabile, poiché, date le caratteristiche dell’immobile e del nucleo familiare, non diverge esclusivamente da municipio a municipio, ma anche da quartiere a quartiere. La marcata variabilità del peso della Council Tax è esplicita manifestazione dell’idea di fondo che sottende all’imposta: progettare un tributo che abbia le sembianze di una tariffa puntuale, di un pagamento correlato ad un insieme di prestazioni ben definito piuttosto che al generico sostentamento del bilancio dell’ente locale. Il legislatore cerca di commisurarne l’importo pro capite al livello di godimento individuale dei servizi locali, frammentandone in maniera proporzionata l’onere complessivo. Accanto a vantaggi in termini di rispondenza al principio del beneficio, la Council Tax ha anche il merito di generare una collocazione adeguata dei singoli contribuenti sulla superficie municipale: questi, almeno in linea generale, si sceglieranno di risiedere in prossimità dei servizi pubblici solo se realmente

156 La variabile che determina la quantità e la tipologia dei servizi pubblici fruiti non è tanto il numero di

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interessati ad essi, e tale interesse sarà rivelato dalla disponibilità a pagare un significativo onere d’imposta; diversamente, preferiranno senz’altro abitare in un quartiere meno servito, subendo così un prelievo fiscale più blando. Dal punto di vista urbanistico, quindi, le città britanniche appaiono suddivise in zone diversificate tra loro, in ognuna delle quali è distribuita una popolazione accomunata da analoghe esigenze e caratteristiche individuali. Di particolare entità risulta poi lo spazio di autonomia a disposizione dei municipi britannici in ordine alla quantificazione dell’imposta: annualmente, i councils stabiliscono la tariffa, tenendo conto anche di particolari scopi, tra i quali l’Adult Social Care157. Essi devono però attenersi alla suddivisione degli importi in base al valore degli

immobili, operata a livello nazionale: attualmente, vi sono 8 fasce di valore, da A ad H, ad ognuna delle quali è assegnata una specifica quota del tributo, calcolata come frazione di quella scelta per la fascia intermedia (D), che si erge a parametro di riferimento; rispetto a questa, la quota della fascia A è pari a 6/9, mentre quella della fascia H corrisponde a 18/9. Le autorità locali possono stabilire liberamente la tariffa relativa alla fascia D, da cui derivano direttamente gli importi da applicare sugli immobili rientranti nelle altre fasce.

In definitiva, la Council Tax britannica rappresenta un modello di riferimento per il finanziamento degli enti definiti “di terzo livello”, ovvero quelli più vicini ai cittadini, incaricati dell’amministrazione e dell’erogazione dei servizi pubblici in un ambito territoriale ristretto. L’imposta traduce in termini concreti la teoria astratta del beneficio, in quanto consente di richiedere ai contribuenti un prezzo commisurato al valore dei servizi offerti in una determinata area. Inoltre, essa è ampiamente manovrabile dai councils, e in questo senso diverge nettamente dalle imposte immobiliari previste nell’ordinamento italiano, eccessivamente incentrate sulla massimizzazione del gettito e prive di quella flessibilità necessaria a rendere realmente autonome le decisioni di entrata e di spesa delle amministrazioni comunali. Dal punto di vista della finanza italiana, il modello britannico è senz’altro un esempio da replicare, perlomeno nella sua impostazione di fondo, proprio perché esalta l’autonomia finanziaria dell’ente destinatario del gettito e la correlazione tra contribuente e utente del servizio pubblico,

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due principi annunciati in Italia con la riforma costituzionale del 2001 e con la legge delega del 2009, ma ancora lungi dal riceverne attuazione.

6.2 L’imposizione di scopo come strumento di cattura del valore

Nel capitolo 1 si è visto come sia importante che gli enti locali abbiano in dotazione strumenti finanziari che consentano loro di attuare specifici programmi, afferenti ai vari ambiti di amministrazione territoriale, e funzionali al miglioramento e al potenziamento dei servizi pubblici locali. Ciò è tanto più opportuno quanto più si prende coscienza della condizione attuale delle varie aree del territorio italiano, caratterizzate da molteplici eterogeneità, sia dal punto di vista dei bisogni concreti delle singole comunità locali, sia da quello della qualità del bene pubblico offerto. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, in particolare, il livello di sviluppo, valutato nel complesso, non è affatto omogeneo: vi sono ancora aree più arretrate, che necessitano di interventi di riqualificazione, di ammodernamento o di potenziamento relativi ad infrastrutture, servizi a rete ed edilizia urbana. Date queste impellenze, occorre che gli enti locali competenti (ovvero i comuni) siano dotati di strumenti finanziari appropriati, con i quali poter sostenere gli investimenti necessari. Tali strumenti, però, debbono naturalmente essere fondati sul principio del beneficio: infatti, se gli oneri di urbanizzazione gravassero su soggetti non beneficiari delle opere pubbliche, questi non accetterebbero di buon grado un pagamento coercitivo, e ne domanderebbero la soppressione; come diretta conseguenza, si avrebbe una generale assenza di incentivi alla creazione di opere di un certo valore. Un’allocazione efficiente si realizza solo se il costo delle opere pubbliche è pagato dai soggetti direttamente beneficiati: in casi come questi, si è di fronte alla produzione di esternalità, le quali, siano esse negative o positive, richiedono sempre una qualche tipologia di intervento pubblico. In questo senso, l’imposizione di scopo, come si è visto nel capitolo 3, rappresenta un utile strumento per compensare le esternalità generate dall’attività di singoli soggetti: essa permette di finanziare la realizzazione di specifici interventi pubblici, ed è in grado di funzionare quando è richiesta ai soggetti maggiormente interessati a tale opera, siano essi fruitori o sviluppatori del progetto. Alla luce dell’importanza dei suddetti obiettivi e dell’esistenza di modelli finanziari adeguati a realizzarli, gli strumenti a disposizione dei comuni italiani appaiono piuttosto limitati, soprattutto se messi a confronto con quelli previsti in altri ordinamenti.

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L’imposizione di scopo, principale strumento di cattura del valore, è eccessivamente vincolata ai tradizionali moduli della finanza locale italiana, che, per quel che riguarda i tributi propri, si dimostra saldamente ancorata alla tassazione immobiliare, peraltro rigidamente disciplinata a livello nazionale. I soggetti beneficiati da un’opera pubblica locale non sono sempre identificabili nell’intera popolazione residente in un dato comune. Vi sono, infatti, molte opere destinate non alla totalità degli abitanti, ma solo ad una parte di essi: si pensi, ad esempio, alla costruzione di scuole, di asili nido, di centri di assistenza sociale, o al vasto novero di interventi che hanno risonanza solamente in una specifica porzione del territorio comunale, o rispetto a particolari categorie di residenti accomunati da medesimi interessi o esigenze. Pertanto, assoggettare l’intera collettività agli oneri richiesti per la realizzazione di questi interventi comporterebbe un’inosservanza del principio della controprestazione. Inoltre, occorre tener presente che il beneficio ricavabile da un intervento pubblico non deriva esclusivamente dal godimento del bene finale, ma anche dal profitto conseguito dal costruttore che realizza l’opera in qualità di soggetto privato. Dunque, la gamma dei potenziali soggetti passivi di un’imposta di scopo è piuttosto ampia, ma l’ordinamento italiano si limita a prevedere un tributo dalla disciplina rigida, ricalcata su quella dell’imposta municipale, e gli oneri di urbanizzazione a carico dei costruttori, di cui all’art. 16 del D.P.R. 380/2001 (T.U. dell’edilizia). Su questi ultimi, che la legge denomina “contributi”, conviene soffermarsi brevemente, soprattutto in vista della successiva trattazione della development exaction, con la quale condividono la ratio di base. Essi videro la luce nel 1977, con l’approvazione della legge n. 10 (meglio nota come “Legge Bucalossi”), e sono corrisposti ai comuni dai privati che intendono ottenere il permesso di costruire. Il pagamento di un contributo consentirebbe una più equa suddivisione dei costi relativi alla trasformazione del territorio, facendo in modo che essi gravino non solo sulla fiscalità generale, ma anche, in maniera diretta, su coloro che realizzano concretamente tale trasformazione. Nell’intento originario del legislatore, questa forma di pagamento risulta quindi coerente con un modello tributario fondato sul beneficio, tanto più che, secondo il Testo Unico dell’edilizia, gli oneri di urbanizzazione dovrebbero rappresentare delle entrate municipali vincolate: i commi 7 e 8 ne attribuiscono i proventi ad opere di urbanizzazione primaria (strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica ecc.) e secondaria (asili nido e scuole materne, scuole dell’obbligo nonché strutture e complessi per l’istruzione superiore all’obbligo,

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mercati di quartiere, ecc.). Ma nonostante ciò, nel corso degli anni si è assistito ad una distrazione nel loro impiego, favorito dallo stesso legislatore, che talvolta ha espressamente alle amministrazioni locali la facoltà di servirsi dei contributi di urbanizzazione per la copertura di spese correnti. La legge 244/2007, art. 2, c. 8 ha stabilito in via temporanea che i proventi delle concessioni e delle sanzioni edilizie “possono essere utilizzati per una quota non superiore al 50 per cento per il finanziamento di spese correnti e per una quota non superiore ad un ulteriore 25 per cento esclusivamente per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale”. I termini di questa disposizione, in vigore a partire dal 2008, sono stati più volte prorogati, da ultimo con il d.l. 35/2013, art. 10, c. 1-ter, che ha esteso tale possibilità fino al 2014. Infine, la l. 208/2015, ha stabilito che i proventi di contributi e sanzioni edilizie “possono essere utilizzati per una quota pari al 100 per cento per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche”. La nuova disposizione, oltre ad estendere la quota degli oneri imputabile alla copertura di spese correnti, facilita la quadratura dei conti in bilancio soprattutto perché nell’ambito del patrimonio comunale possono rientrare molteplici tipologie di spesa corrente158. In definitiva, sebbene la distorsione nella destinazione dei

proventi derivanti dai contributi di costruzione rappresenti una misura non definitiva, non si può fare a meno di rimarcare che tale deroga è ormai stabilmente operativa, e i termini per il ritorno alla disciplina ordinaria sono facilmente prorogabili, e di fatto vengono annualmente dilazionati.

Nei paragrafi successivi si presenteranno alcuni meccanismi di finanziamento adottati negli Stati Uniti d’America e assimilabili all’imposizione di scopo: lo scenario con cui si ha a che fare è alquanto variegato, ed esibisce numerosi istituti particolari finalizzati proprio a catturare il valore generato dalle opere pubbliche: gli oneri non gravano esclusivamente sulla proprietà immobiliare, ma sono imputati ai soggetti individuati come beneficiari della spesa pubblica. In particolare, sono tassati gli sviluppatori di progetti di opere pubbliche, mentre per quanto riguarda i possessori di immobili, il prelievo gravante su di essi risulta più mirato rispetto a quanto si rileva nel panorama italiano. Si vedrà inoltre la centralità del vincolo d’impiego gravante sui prelievi

158 E. MASINI, Oneri di urbanizzazione, utilizzo «libero» permesso dalla manovra ma non

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sottoposti ad analisi, una caratteristica che consente di ricondurre tali tributi al modello dell’imposizione di scopo.

6.2.1 Le development exactions negli USA

Per quanto riguarda gli sviluppatori, essi sono chiamati al pagamento di un tributo per poter realizzare i programmi di sviluppo di aree pubbliche promossi dalle amministrazioni locali. Su di loro gravano infatti le cd. Development exactions: questi oneri sono originariamente concepiti come fonti di entrata da destinare al finanziamento di ulteriori investimenti159, e possono essere in forma diretta (addebito dei costi

dell’infrastruttura) oppure indiretta (pagamento di una tassa istituita ad hoc). Le development exactions si articolano in varie tipologie, tra cui si ricordano: la land dedication, istituto attraverso il quale lo sviluppatore cede al governo locale immobili o mezzi strumentali alla realizzazione dell’opera; le in lieu fees, pagamenti alternativi alla land dedication con vincolo d’impiego, assimilabili alle impact fees160 (di cui si tratterà a

breve); i linkage fees, i cui proventi sono impiegati ai fini del contenimento dell’impatto di alcune opere sui prezzi delle abitazioni; le mitigation fees, ovvero dei corrispettivi pagati qualora il progetto abbia un impatto ambientale negativo; le connection fees, che si pagano per l’allacciamento alle reti di servizi locali. Ma in realtà il modello più diffuso prende il nome di impact fee, con cui si fa riferimento ad una tassa riscossa dai governi locali per la copertura parziale o totale dei costi di realizzazione di progetti relativi a opere e servizi pubblici locali, tra i quali rientrano la costruzione di strade, reti idriche, parchi, stazioni delle forze dell’ordine, scuole, biblioteche ecc. Le soluzioni impositive adottate negli stati membri differiscono tra loro, e in certi casi può essere difficile capire se un tributo rientri tra le impact fees o meno. Nonostante ciò, secondo Duncan & Associates, specialisti del settore finanziario che hanno più volte effettuato indagini sulla diffusione di questa tipologia di tasse, vi sono alcune caratteristiche comuni al modello: le mpact fees sono oneri applicabili solo per la realizzazione di nuovi progetti di sviluppo, non consistono in pagamenti concordati ad hoc ma sono standardizzati, e sono impiegati per finanziare investimenti finalizzati alla crescita161. Le impact fees producono effetti sia

159 M. DRESCH, S. M. SHEFFRIN, Who Pays for Development Fees and Exactions?, Public Policy

Institute of California, 1997, p. 1, disponibile su www.impactfees.com.

160National impact fee survey, 2015, a cura di Duncan Associates, p. 1, disponibile su

www.impactfees.com.

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sullo sviluppatore che sul destinatario dell’opera realizzata: mentre da un lato cala il profitto del primo, dall’altro, invece, la costruzione dell’opera pubblica produce un aumento del prezzo degli immobili circostanti. Questo incremento, salvo che la domanda di immobili non si riveli anelastica, tende ad essere inferiore all’importo della tassa, il cui onere viene quindi suddiviso tra sviluppatore e utente finale162. Il calo del profitto dello

sviluppatore e l’aumento del prezzo degli immobili sono i principali effetti delle impact fees, grazie ai quali si può asserire che esse sono improntate al principio del beneficio, nella misura in cui colpiscono tanto i soggetti che godono direttamente dell’opera pubblica quanto gli sviluppatori che ne ricavano un profitto. Tuttavia, tali tasse non hanno

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