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La finanza municipale in Italia: un'indagine sulla conformita con i principi del beneficio e dell'autonomia finanziaria

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Scienze Politiche

Laurea magistrale in Scienze delle pubbliche amministrazioni

La finanza municipale in Italia: un’indagine sulla

conformità con i principi del beneficio e dell’autonomia

finanziaria

Relatore:

Candidato:

Prof. Alessandro Balestrino

Ivan Vito Campanella

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INDICE

INTRODUZIONE p. 5

1. AUTONOMIA FINANZIARIA: LA COLONNA PORTANTE

PER UNA FINANZA MUNICIPALE EFFICIENTE p. 8

1.1 L’importanza dell’autonomia finanziaria p. 8

1.2 Il principio del beneficio p. 12

1.3 L’eterogeneità italiana p. 14

1.3.1 Breve fenomenologia p. 14

1.3.2 Le principali implicazioni p. 18

1.4 Considerazioni p. 19

2. L’IMPOSIZIONE SULLA PROPRIETÀ IMMOBILIARE p. 21

2.1 Sviluppi recenti dell’imposizione immobiliare in Italia p. 22

2.1.1 La graduale erosione dell’ICI p. 22

2.1.2 La nuova imposta municipale unica p. 24

2.1.3 L’Imposta unica comunale p. 27

2.1.4 Vecchie e nuove anomalie p. 28

2.2 Esenzioni e altre agevolazioni fiscali p. 30

2.3 L’IMU agricola p. 33

2.4 La TASI p. 35

2.5 Il fenomeno del tax gap p. 38

2.6 Considerazioni conclusive p. 42

3. L’IMPOSIZIONE DI SCOPO p. 45

3.1 Le potenzialità dell’istituto p. 45

3.2 Evoluzione normativa p. 48

3.3 Diffusione dell’imposta di scopo p. 50

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4. DUE TRIBUTI DI SCOPO SPEIALI: L’IMPOSTA DI

SOGGIORNO E LA TARI p. 56

4.1 L’imposta di soggiorno p. 56

4.1.1 L’indeterminatezza della disciplina p. 57

4.1.2 I comuni che possono istituire l’imposta di soggiorno p. 58 4.1.3 L’importo del tributo: criteri per la determinazione e soluzioni

adottate dai regolamenti comunali p. 60

4.1.4 Gettito riscosso e destinazione d’impiego p. 62 4.1.5 L’evidente contraddizione tra soggetto passivo e ratio del tributo p. 66

4.1.6 Considerazioni finali p. 69

4.2 La TARI p. 71

4.2.1 Il presupposto p. 72

4.2.2 Criteri per la determinazione e la ripartizione della tariffa p. 74

4.2.3 La tariffa p. 77

4.2.4 Le riduzioni p. 80

4.2.5 Imposta, tassa o tariffa? P. 81

4.2.6 Conclusioni P. 83

5. I VINCOLI DELL’ORDINAMENTO NAZIONALE E p. 85

DELL’UE

5.1 Vincoli costituzionali all’autonomia finanziaria dei comuni p. 87

5.2 Il Patto di stabilità interno p. 90

5.2.1 La complessa evoluzione normativa p. 91

5.2.2 Gli effetti del Patto p. 94

5.2.3 Lo stato attuale dei vincoli di bilancio e le prospettive future p. 97

6. ESPERIENZE INTERNAZIONALI DI IMPOSIZIONE p. 100

FISCALE LOCALE

6.1 La Council Tax p. 101

6.2 L’imposizione di scopo come strumento di cattura del valore p. 104

6.2.1 Le development exactions negli USA p. 107

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Uniti p. 108

6.3 Quali insegnamenti per la finanza locale italiana p. 110

CONCLUSIONI: STATO ATTUALE DELLA FINANZA MUNICIPALE

E PROSPETTIVE FUTURE p. 112

BIBLIOGRAFIA p. 116

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INTRODUZIONE

Nell’ottobre del 2001, una riforma costituzionale ridefiniva i principi della finanza locale italiana, prospettandone una svolta “autonomistica” e dando avvio ad un progressivo accantonamento della fonti di entrata derivate. Ora, il nuovo articolo 119 della Costituzione attribuisce agli enti territoriali “risorse autonome”, permettendo loro di stabilire e applicare “tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. Prima del 2001, il medesimo articolo riconosceva una parziale autonomia esclusivamente alle regioni, peraltro “nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica”. La svolta impressa con la riforma faceva presagire un’evoluzione della fiscalità locale nella direzione di una significativa autonomia di entrata in favore di comuni e province, seppur con le limitazioni derivanti dalla necessità di operare un coordinamento a livello nazionale e di preservare l’unitarietà del sistema tributario: si è pur sempre in presenza di una forma di stato regionale, non di un assetto federale, e dunque non è ipotizzabile una completa scissione della finanza locale da quella nazionale. Sebbene il legislatore costituzionale abbia lanciato un inequivocabile incipit, si riscontra una tendenziale persistenza del ruolo dominante dello Stato nel finanziamento degli enti locali. Questi si sono progressivamente resi indipendenti dal sostegno delle risorse erariali, ma, data la ristrettezza del potere regolamentare di cui dispongono, appaiono tutt’ora privi di strumenti normativi adeguati a strutturare autonomamente le proprie forme di entrata. Il processo di decentramento fiscale, avviato con l’approvazione della legge delega sul federalismo fiscale nel 2009, non ha avuto completa attuazione; in realtà, sembra che sia rinvenibile un abbandono del percorso intrapreso dal legislatore, probabilmente a seguito dell’avvio di una fase recessiva dell’economia che ha modificato le priorità e che ha imposto una forte presenza dello Stato (e importanti sacrifici da parte degli enti locali) in funzione di stabilizzazione del ciclo economico. Ma l’intervento di una crisi economica non può legittimare una svalutazione degli interessi delle municipalità italiane: queste infatti, indipendentemente dalle mutevoli condizioni di salute dell’economia nazionale e globale, sono permanentemente responsabili dell’amministrazione del territorio, e

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debbono essere nelle condizioni di svolgere le loro funzioni contando su leve fiscali idonee e risorse adeguate ai loro fabbisogni.

L’analisi si focalizzerà sull’imposizione fiscale municipale, mentre saranno trascurati i meccanismi di finanziamento delle province: queste, infatti, sono in fase di superamento, e il loro ambito di competenza appare ormai ridotto ai minimi termini. L’esclusione delle Città metropolitane è invece connessa alla specialità di questa suddivisione amministrativa, che riguarda le poche porzioni del territorio italiano in cui vi sono i maggiori centri urbani. I comuni, dunque, sono i veri protagonisti dell’amministrazione del territorio, titolari della quasi totalità delle funzioni esecutive di rilevanza locale. L’efficienza della finanza municipale assume un certo rilievo in quanto condizione essenziale per il buon andamento dell’attività amministrativa e per il conseguimento del massimo livello di benessere per gli abitanti delle comunità locali. In quest’ottica, si ritiene che il principio autonomistico contenuto nel novellato art. 119 debba ricevere attuazione non solo in quanto cogente, ma anche, se non soprattutto, perché ben si accorda con le teorie sul decentramento fiscale suggerite dagli esperti di federalismi e di finanza pubblica. I contributi in materia non mancano, e, oltre a numerosi economisti, anche importanti istituzioni e associazioni hanno studiato singoli istituti della finanza locale, spesso fornendo riscontri statistici utili ad evidenziare pregi e difetti della fiscalità municipale in Italia. Con il presente contributo, si intende verificare il grado di aderenza dei tributi municipali italiani alla teoria economica, e in particolare ai principi del beneficio e dell’autonomia finanziaria, servendosi anche di dati e ricerche pubblicati da enti e ed esperti di settore che a vario titolo si sono interessati alla materia.

Al centro della finanza locale si pone lo strumento dell’imposta, la forma tributaria più usuale, in quanto particolarmente idonea a raccogliere risorse da impiegare per l’erogazione di una spesa destinata non a singoli individui, ma ad un’ampia collettività di soggetti sottoposti alla medesima autorità: l’attività amministrativa, infatti, essendo orientata al perseguimento di un interesse pubblico generale, arreca quasi sempre un beneficio indivisibile all’intera comunità locale. Ugualmente, non mancano servizi pubblici che producono un beneficio marginale quantificabile: in questi casi, il modello finanziario più efficiente è quello della tariffa, poiché permette di imputare correttamente e proporzionatamene i costi del servizio ai suoi effettivi beneficiari. Contrariamente, i

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trasferimenti erariali appaiono totalmente inadeguati, in quanto gravano indistintamente sulla fiscalità nazionale e non creano adeguati incentivi al risparmio e all’eliminazione delle componenti improduttive della spesa pubblica. Tra tutte le forme tributarie, una posizione di primo piano è occupata dall’imposizione di scopo, un modello complementare alle più tradizionali imposte sul valore degli immobili, in grado di incentivare gli investimenti pubblici e conseguentemente la crescita economica della comunità locale.

Il punto di partenza di questo elaborato coincide con l’esplicitazione del concetto di “autonomia finanziaria”, di cui si illustrerà l’importanza alla luce del particolare contesto italiano. Lo studio si focalizzerà sui vari tributi locali italiani (Imposta municipale, Tassa sui servizi indivisibili, Imposta di scopo, Imposta di soggiorno, Tariffa sui rifiuti), distinti in due macro-categorie (le imposte sul valore immobiliare e i tributi di scopo). Si procederà quindi con una breve analisi sui vincoli all’autonomia finanziaria, e si concluderà con la presentazione di alcune forme tributarie locali adottate in altri ordinamenti nazionali, con il precipuo scopo di mettere in evidenza gli aspetti più virtuosi che contraddistinguono tali tributi e che quindi meriterebbero se non una fedele trasposizione nel panorama italiano, quantomeno una presa in considerazione. L’intero studio si sofferma in particolar modo sugli sviluppi attuali degli istituti della finanza locale, focalizzandosi su aspetti del passato recente che hanno prodotto effetti tutt’ora visibili, senza quindi fissarsi in un intervallo temporale rigidamente definito. Tuttavia, ciò non impedisce affatto di individuare un momento a partire dal quale sia possibile ravvisare l’inizio della fase attualmente in corso della finanza municipale, e questo momento coincide con il 2011: si può ritenere che proprio a partire da quest’anno, con l’approvazione del d.lgs. n. 23 sul federalismo municipale, abbiano avuto luogo i più recenti cambiamenti strutturali, i cui effetti sono tutt’ora percepibili. Il decreto n. 23 è la norma di riferimento per la disciplina di tre importanti tributi comunali attualmente vigenti, ovvero l’IMU, la Tassa di soggiorno e l’Imposta di scopo. Ma il 2011 rappresenta uno spartiacque anche perché da quest’anno ha avuto avvio la progressiva contrazione dei trasferimenti erariali agli enti territoriali, disposta dal decreto legge n. 78 del 2010 in attuazione dell’art. 11 della legge delega n. 42 del 2009.

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1. AUTONOMIA FINANZIARIA: LA COLONNA PORTANTE PER UNA FINANZA MUNICIPALE EFFICIENTE

1.1 L’importanza dell’autonomia finanziaria

Roy Bahl, esperto statunitense di finanza pubblica, pubblicava nel gennaio del 1999 un paper1 in cui enunciava dodici regole, da lui stesso individuate, per l’implementazione di

un sistema di decentramento fiscale. Questo breve testo rappresenta un codice utile tanto ad un ipotetico legislatore interessato a realizzare un’allocazione efficiente dei poteri di spesa e di entrata degli enti locali, quanto a chiunque necessiti di un quadro di base per studiare in concreto la complessa materia del decentramento fiscale. Ai fini del presente studio, finalizzato a dimostrare l’importanza dell’autonomia finanziaria e della coincidenza tra il soggetto passivo del prelievo e il soggetto beneficiario della spesa pubblica, una di queste regole appare di cruciale importanza: Fiscal Decentralization Requires Significant Local Government Taxing Powers. In altre parole, nel suo lavoro Bahl mostra un favor particolare per l’autonomia impositiva degli enti locali, scoraggiando l’impiego di trasferimenti erariali, convinto che il decentramento del potere impositivo permetta agli elettori locali di rendere visibili gli impieghi dei prelievi fiscali che subiscono. I cittadini, esercitando questa forma di controllo, sono messi in condizione di eleggere la classe politica che propone il rapporto più conveniente tra qualità dei servizi pubblici e costi per la loro erogazione.

In Italia, per decenni le politiche fiscali sono state contraddistinte da un forte centralismo nelle decisioni di finanza locale. Nel bilancio delle entrate dei comuni, i trasferimenti erariali diventarono centrali con la “Riforma Stammati”, intervenuta nel biennio 1977-1978, finalizzata a ripianare il pesante deficit di bilancio degli enti locali: secondo i dati del Ministero del bilancio e della programmazione economica, nel 1978 i trasferimenti erariali costituivano il 79% delle entrate correnti municipali, e nel 1990, a due anni dall’introduzione dell’ICI, il medesimo dato si attestava attorno al 65%. Sicuramente la

1 R. BAHL, Implementation Rules For Fiscal Decentralization, International Center for Public Policy

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voce dei trasferimenti ha subito dagli anni ’90 in poi un progressivo ridimensionamento, compensato dall’introduzione di tributi come l’ICI; ciononostante, nell’anno 2010. Secondo le elaborazioni del Ministero dell’economia2, il 45% delle entrate correnti dei

comuni derivava ancora dai fondi statali: una percentuale persino superiore a quella relativa al 2006 (40%). Questa perdita di peso della componente delle entrate proprie sul totale delle entrate correnti va ricondotta alla soppressione dell’ICI tra 2006 e 2008. La finanza derivata è stata all’origine di conclamati problemi per la stabilità dei bilanci locali: lo stanziamento di ingenti risorse statali, spesso concesse senza alcun vincolo di destinazione, ha di fatto deresponsabilizzato le amministrazioni locali, e i fondi erariali sono stati spesso e volentieri utilizzati dai loro destinatari in maniera infruttifera, o perlomeno inefficiente, con tangibili ripercussioni sui valori relativi alla spesa complessiva3. L’esigenza di rivedere l’assetto della finanza locale era particolarmente

sentita in sede di elaborazione della legge delega in materia di federalismo fiscale: nella relazione del ddl. 11174 si afferma che “perpetrare un modello di sostanziale «finanza

derivata» […] crea problematiche confusioni, dissocia la responsabilità impositiva da quella di spesa, genera una situazione istituzionale che rende ingovernabili i conti pubblici. In altre parole, favorisce la duplicazione di strutture, l’inefficienza e la deresponsabilizzazione. Un sistema di finanza derivata […] finisce per premiare chi più ha creato disavanzi, favorisce quelle politiche demagogiche che creano disavanzi destinati prima o poi ad essere coperti dalle imposte a carico di tutti gli italiani”. Dunque, un’amministrazione comunale che individua autonomamente il livello di spesa ottimale e le relative fonti di finanziamento, proprio perché autonoma, è anche responsabile delle sue scelte: non può quindi permettersi di destinare le risorse di cui dispone a spese improduttive o indesiderate, se non a costo di perdere il consenso degli elettori. La responsabilizzazione è il prodotto più pregiato dell’autonomia: la carenza di autonomia in capo a chi gestisce risorse pubbliche si traduce facilmente in deresponsabilizzazione, la quale a sua volta genera un’impunità integrale a favore di tutti quei soggetti che, non essendo liberi di adottare una politica fiscale sufficientemente

2 I dati relativi ai trasferimenti erariali e alle altre forme di entrate municipali sono disponibili su

http://www.dt.tesoro.it/

3 N. BIANCHI, Senza ICI aumenta la spesa locale, 17/10/2011, disponibile su www.lavoce.info. 4 Atto del Senato n. 1117, XVI Legislatura, Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in

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svincolata dalle redini dello stato (e quindi, non essendo responsabili delle scelte di fronte all’opinione pubblica locale), perdono qualsiasi interesse ad agire virtuosamente. L’impunità di cui si parla non ha necessariamente a che fare con la mancanza di sanzioni disciplinari, quanto piuttosto con l’assoluzione (o perlomeno con il mancato biasimo) da parte degli elettori locali; da essa non può che derivare una lunga serie di sprechi e inefficienze. Peraltro, non va dimenticato che il mix di trasferimenti erariali e flessibilità nella redazione dei bilanci locali ha a lungo dispiegato un velo di opacità sull’azione amministrativa, a svantaggio delle popolazioni delle comunità locali, rimaste prive di qualsiasi strumento di controllo su entrate e spese di istituzioni così vicine a loro. La carenza di accountability è risultata persino accresciuta, sebbene indirettamente, a causa della riforma costituzionale del 2001, il cui impulso di trasformazione dello stato in una direzione globalmente federale si è propagato fino a coinvolgere, oltre che gli aspetti istituzionali e finanziari, anche quelli di natura contabile, mettendo così in seria discussione la chiarezza e la trasparenza dei bilanci locali5; solo a partire dagli ultimi anni,

sulla scorta delle previsioni della legge 42 del 2009, i sistemi contabili locali stanno muovendo nella direzione di un’armonizzazione, che sta progressivamente prendendo forma grazie all’emanazione di alcuni atti normativi volti a favorire l’omogeneità e la trasparenza delle voci all’interno dei bilanci degli enti locali.

In generale, si può affermare che non vi sia sufficiente evidenza empirica per poter annunciare il definitivo abbandono di una finanza incentrata su risorse derivate: il processo di decentramento fiscale ha subito vari rallentamenti, nonché inversioni di rotta, seppur provvisorie, soprattutto a partire dal 2008, anno di inizio della recessione economica. La congiuntura negativa ha indotto il legislatore statale ad adottare provvedimenti spesso contraddittori, e talvolta non consoni a favorire autonomia e responsabilizzazione6. Nondimeno, nonostante la continua ristrutturazione delle entrate

comunali registrata negli ultimi decenni, non mancano alcuni segnali positivi: basta notare come l’importo complessivo dei contributi e dei trasferimenti correnti dallo Stato ai comuni mostra, a partire dal 2011, un nuovo trend, in netto ribasso rispetto al valore registrato nel 2010 (16,7 miliardi di euro): infatti nel periodo 2011-2014 i valori annuali

5 L. ANTONINI, L’attuazione del federalismo fiscale, in Federalismo fiscale e perequazione, a cura di G.

Armao, 2013, Aracne Editrice, p. 78-79.

6 R. COGNO, La finanza locale nel 2013 e nel 2014. Verso sistemi regionali di governo locale, in La

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si sono attestati tra i 7,2 miliardi di euro del 2011 e i 3,4 miliardi del 20157. La graduale

soppressione dei trasferimenti, disposta con il d.l. n. 23 del 2011, e, per contro, l’inevitabile incremento delle risorse derivanti dalle imposte locali, hanno inciso positivamente sull’indicatore di autonomia finanziaria dei comuni italiani8, il cui valore

è passato dal 55,1% del 2011 al 74,4% del 20159. Tuttavia, l’autonomia tributaria dei

comuni resta tutt’ora piuttosto bassa: il relativo indicatore10, per il 2015, si attesta sul

48,3%11. Ma a prescindere da questi dati, che del resto hanno registrato dei trend piuttosto

incostanti tra 2011 e 201512, non mancano dubbi e perplessità: la decisione di operare dei

tagli ai trasferimenti, lungi dall’essere concepita nell’intento di favorire la crescita degli spazi di autonomia, è piuttosto riconducibile alla generale urgenza di risparmiare denaro pubblico, avvertita in particolar modo negli anni immediatamente successivi all’imperversare della crisi (si pensi che prima ancora del d.l. 23/2011 era stata disposta una sensibile riduzione dei trasferimenti statali a regioni ed enti locali nell’ambito delle “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”, introdotte con d.l. n. 78 del 2010, poi convertito in legge con modificazioni). Del resto, tra esperti in materia tributaria e di finanza pubblica si fa strada un’idea secondo la quale l’intero disegno del federalismo fiscale contenuto nella legge delega del 2009 sarebbe finalizzato non tanto a favorire l’autonomia e la responsabilizzazione degli amministratori locali, o, più in generale, il massimo livello di benessere delle collettività di riferimento; il progetto consisterebbe piuttosto in una manovra di contrasto ai dissesti che la crisi economica ha prodotto nelle casse dello stato13, finalizzata a risanare i conti pubblici

anche a costo di ridurre la comprovata nonché apprezzata qualità dei servizi erogati in alcuni comuni italiani14. Appare dunque evidente il rischio che si corre affermando che la

finanza derivata ricopra ormai un ruolo residuale: se essa è stata accantonata per esigenze di risanamento del bilancio pubblico, nulla può escludere che si ritorni al passato una

7 Ivi, p. 35.

8 Rapporto percentuale tra la somma delle entrate tributarie ed extra-tributarie e il totale delle entrate

correnti.

9 Dati Ministero dell’Interno e Istat, consultabili in I comuni italiani 2016 - Numeri in tasca. Edizione

Aggiornata, a cura di IFEL - Fondazione ANCI, 2016, p. 19.

10 Rapporto tra entrate tributarie e il totale delle entrate correnti. 11 Ivi, p. 20.

12 Ivi, 18-20.

13 A. F. URICCHIO, Il federalismo della crisi o la crisi del federalismo?, Cacucci Editore, 2012, p. 13. 14 C. FERRETTI, P. LATTARULO, Dai tagli alle riforme della finanza comunale: il pareggio di bilancio

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volta riordinati i conti e rimessa in sesto l’economia italiana. Per tutte queste ragioni, non solo sarebbe ardito ritenere che il cammino verso l’autonomia e la responsabilizzazione degli enti locali in ambito finanziario sia ormai inarrestabile, anzi, si potrebbe supporre che in realtà questa strada non sia mai stata intrapresa.

1.2 Il principio del beneficio

La teoria economica suggerisce che uno dei criteri a cui l’imposizione fiscale locale dovrebbe ispirarsi è il cd. “Principio del beneficio”, secondo cui nel prelievo deve esservi coincidenza tra chi finanzia i servizi e chi fruisce di essi. Un tale criterio, per essere applicato alla finanza della spesa destinata a specifiche collettività territoriali, implica inevitabilmente una qualche forma di autonomia d’entrata degli enti locali: se questi impiegassero esclusivamente risorse derivanti dalla fiscalità generale, ogni cittadino finanzierebbe una quota delle spese locali di tutti gli enti territoriali della nazione, inclusi quelli con cui egli non ha nulla a che vedere. Il principio del beneficio si fonda non solo su ragioni di efficienza o di mera convenienza, ma anche su un’astratta idea di giustizia, in quanto si ritiene ingiusto che un contribuente finanzi una spesa da cui non trae il minimo vantaggio15; naturalmente, la stessa percezione dell’ingiustizia di una qualunque

forma di prelievo patrimoniale causa conseguenze negative, tra cui la perdita di consenso da parte del soggetto impositore, l’evasione fiscale, se non addirittura fenomeni di mobilità della popolazione, che sceglie di abbandonare la propria comunità locale per stabilirsi in aree in cui la pressione fiscale è minore o dà luogo ad una spesa pubblica più efficiente o più desiderabile16.

Il principio del beneficio si ricollega alla più generale idea secondo cui l’ente pubblico, nel momento in cui effettua la spesa, si pone come fattore di produzione; dunque, i beneficiari del bene pubblico prodotto sono tenuti a coprire una quota dei costi sostenuti dall’ente erogatore. Questa teoria è inizialmente proposta da De Viti De Marco17, che fa

riferimento alla finanza pubblica nazionale e al ruolo giocato dallo Stato nell’economia,

15 E. GIARDINA, Autonomia tributarie e forme alternative di finanziamento degli enti locali, in

Autonomia impositiva degli enti locali. Atti del convegno di Taormina del 26-27 marzo 1982, Cedam, 1983, p. 29.

16 C.M. TIEBOUT, A Pure Theory of Local Expenditures, in Journal of Political Economy, n. 5, ottobre

1956, pp. 416-424.

17 A. DE VITI DE MARCO, Il carattere teorico dell’economia finaniaria, Loreto Pasqualucci, Roma,

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viene poi sviluppata da altri pensatori del calibro di Lindhal18 e Musgrave19. De Viti poi,

anche nelle sue opere successive, pone attenzione al rapporto tra stato e individuo, sottolineando in particolare come tra i due intercorra un rapporto di scambio: i cittadini domandano beni di loro interesse allo stato, il quale viene investito de compito di produrli ed erogarli. Affinché la loro domanda venga presa in giusta considerazione dallo stato, i cittadini debbono però essere nelle condizioni di poter disporre della loro classe dirigente: solo all’interno di un ordinamento democratico, che preveda efficienti meccanismi di elezione e di destituzione delle cariche istituzionali, sarà possibile garantire la condivisione collettiva delle scelte e scongiurare il rischio di abusi di potere20. Definito

quindi il ruolo dello stato come produttore e del cittadino come acquirente, il criterio del beneficio si concretizza poi in quegli strumenti di prelievo che consentono la più ampia corrispondenza tra entrate e singoli oggetti di spesa: in mancanza di questo nesso, le risorse rischierebbero di non essere destinate ai beni o servizi desiderati dalla collettività. In questo modo, anzitutto si realizza il tanto agognato scambio tra contribuenti e istituzioni, che di fatto fa scendere lo stato dal suo piedistallo fino a raggiungere la quasi parificazione con la sfera privata. Naturalmente, il discorso di De Viti è estensibile anche al binomio cittadino-municipalità: anzi, l’implementazione del meccanismo risulta addirittura più semplice a livello locale, data la vicinanza dell’ente decentrato alla propria comunità di riferimento. Inoltre al di là dell’immediatezza del rapporto tra amministrazione comunale e cittadino, la dimensione municipale offre maggiori occasioni di scambio, specialmente nel contesto italiano, in cui la maggior parte dei servizi pubblici è erogata proprio a livello comunale.

Come si avrà modo di vedere nelle pagine successive, i tributi che meglio rispondono al principio del beneficio sono le imposte di scopo, previste nel quadro normativo italiano, ma con i limiti riconducibili alla riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione, in virtù della quale i lineamenti essenziali della disciplina di qualsivoglia tributo devono essere dettati da una fonte primaria del diritto. È in consonanza con questo principio anche la tassazione locale sugli immobili, in quanto grava su soggetti che si presume siano i

18 E. LINDHAL, Just taxation: a positive solution, in R. A. MUSGRAVE, A. T. PEACOCK, Classics in

the Theory of Public Finance, Macmillan, London, 1958.

19 R. A. MUSGRAVE, The theory of public finance: a study in public economy, 1959.

20 A. DE VITI DE MARCO, Principi di economia finanziaria. Edizione riveduta definitiva, Torino,

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principali fruitori dei servizi presenti sul territorio sui cui giacciono i loro immobili. Il principio della controprestazione è rispettato in misura ancora maggiore da tariffe e prezzi pubblici, che vengono corrisposti dai fruitori di beni e servizi pubblici in misura del beneficio individuale che essi ne traggono; tuttavia, queste forme di entrata non possono che trovare applicazione residuale, in quanto permettono di finanziare esclusivamente la produzione e la distribuzione di beni e servizi il cui beneficio individuale sia chiaramente identificabile, mentre la maggior parte dei benefici prodotti dalle prestazioni degli enti locali si caratterizza per l’indivisibilità del beneficio arrecato.

1.3 L’eterogeneità italiana

L’autonomia finanziaria diventa concretamente indispensabile se si prende coscienza della carattere eterogeneo che contraddistingue il panorama italiano: l’eterogeneità è riscontrabile non solo confrontando le macro-aree del Paese (Nord-Sud) o le varie regioni, ma anche piccole porzioni di territorio, finanche quelle limitrofe. Le divergenze che si possono rintracciare attengono a numerose variabili, riconducibili ad ambiti quali la configurazione del territorio, gli aspetti demografici, la specializzazione economica. Si è di fronte a peculiarità congenite a determinate porzioni di territorio, ovvero da esse acquisite nel corso del tempo, le quali determinano una diversificazione orizzontale della spesa, da cui deriva la convenienza di una finanza maggiormente autonoma.

Occorre dare uno sguardo ad alcune manifestazioni concrete dell’eterogeneità di cui si sta trattando: lo si farà presentando a titolo di esempio le statistiche relative ad alcune variabili che esercitano indirettamente un’influenza sulla quantità e sulle finalità della spesa pubblica. I dati che verranno presentati non si riferiscono tutti alla medesima annata, ma in questa sede si intende esclusivamente fornire una panoramica finalizzata a prendere coscienza dell’esistenza di specifiche divergenze ben radicate, le cui entità non subiscono mutamenti rilevanti in un breve arco di tempo.

1.3.1 Breve fenomenologia

Dal punto di vista della configurazione del territorio, 3471 comuni italiani sono montani (circa il 43,4% del totale), e 644 sono comuni litoranei21.

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La variabilità in termini di ampiezza demografica dei comuni italiani è una realtà ben nota: in data 1 gennaio 201622, in 5.584 comuni su 7.998 vi sono meno di 5.000 abitanti,

mentre ve ne sono meno di 1.000 in ben 1.960 comuni. I municipi con una popolazione di almeno 15.000 abitanti sono solamente 743, appena il 9,3% del totale.

Anche la densità di popolazione dei comuni è piuttosto variabile: i dati relativi al censimento del 201123 registrano un valore medio di 196.75 ab/kmq, con un picco

massimo di 12.224,41 ab/kmq (comune di Casavatore), mentre il valore più basso è di 0,92 ab/kmq (comune di Briga Alta). Il valore mediano si aggira attorno ai 108 ab/kmq. I comuni nei quali la densità demografica è inferiore a 50 ab/kmq sono più di ¼ del totale, mentre il 25% dei comuni con maggior concentrazione di abitanti registra un valore superiore a 275 ab/kmq.

Il grado di urbanizzazione, parametro introdotto dall’Eurostat24, si basa essenzialmente

sulla densità demografica, e si esprimere su tre livelli: alto, medio e basso. Secondo i dati relativi al 201325, ricade nella classe di bassa urbanizzazione circa il 67,9% dei comuni

italiani, abitati dal 24,3% della popolazione italiana, mentre sono altamente urbanizzati solamente il 3,3% dei comuni, e in questi si concentra il 33,3% della popolazione nazionale.

Sotto il profilo della specializzazione economica, il 59,5% dei comuni italiani fonda la propria economia sull’agricoltura, il 30,7% sull’industria, mentre il restante 9,8% sui servizi26. La specializzazione economica è in correlazione con altre variabili27. Nel

meridione, gran parte del reddito prodotto deriva dall’attività agricola: la percentuale di comuni che presenta una vocazione agricola nelle regioni del sud è superiore alla media nazionale; nelle regioni del nord invece la vocazione industriale è maggiore rispetto al

22 Dati Istat del 01/01/2016.

23 http://dati-censimentopopolazione.istat.it/Index.aspx

24 Per informazioni più dettagliate, si veda

http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Degree_of_urbanisation_classification_-_2011_revision

25 Fonte: Istat, Movimento e calcolo della popolazione residente annuale; Variazioni territoriali,

denominazione dei comuni, calcolo delle superfici comunali; Eurostat.

26 Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati Infocamere, 2016, dati

consultabili in I comuni italiani 2016 – Numeri in tasca. Edizione Aggiornata, a cura di IFEL-Fondazione ANCI, pp. 36-37.

27 Fonte: elaborazione Centro Documentazione e Studi Anci-Ifel su dati Infocamere, 2012, dati

consultabili all’indirizzo http://formazione.fondazioneifel.it/index.php/numeri-e-territori/item/download/834_b31066359d702621976682b079d2df30.

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resto dell’Italia. Vi è anche una correlazione tra la specializzazione e l’ampiezza demografica dei comuni: minore è la popolazione locale, maggiore è la vocazione agricola; la percentuale di comuni di ampiezza media specializzati nell’industria è maggiore rispetto al valore medio del totale dei comuni; la supremazia del settore dei servizi invece caratterizza la maggior parte dei comuni con popolazione superiore ai 60.000 abitanti.

Le particolarità di cui si sta trattando possono indubbiamente avere dei risvolti positivi sull’economia locale, sebbene talvolta rappresentino dei veri e propri ostacoli. In qualunque caso, a prescindere dalla loro desiderabilità, la diversità delle condizioni si trasmette inevitabilmente all’attività amministrativa, determinandone spese e costi. In un comune di montagna situato nei pressi di un torrente, il rischio di frane o di altri dissesti idrogeologici è ineliminabile, pertanto la collettività locale dovrà sopportare i costi per le attività di prevenzione o di riparazione dei danni che eventuali calamità potrebbero provocare.

La numerosità della popolazione ha un peso non trascurabile sui costi di alcuni servizi pubblici: specialmente quelli a rete presentano delle economie di scala, e quindi un costo medio pro capite che decresce all’aumentare della popolazione e della superficie di territorio servite, e, al contrario, più cospicuo (al punto da poter diventare insostenibile) nelle aree più piccole e meno popolate. Le diseconomie dei numerosi centri scarsamente popolati hanno indotto a pensare forme di amministrazione congiunta: le legislazioni nazionale e regionali infatti favoriscono lo sviluppo della cooperazione tra gli enti territoriali più piccoli, da realizzarsi specialmente attraverso la formazione di unioni di comuni. Attraverso tali fusioni, si otterrebbe una riduzione del costo medio di alcuni servizi (e dunque, una contrazione della spesa pubblica, in linea con le esigenze di risparmio dettate dai deficit del bilancio nazionale), un miglioramento in termini di qualità dell’offerta, un guadagno in termini di efficienza ed efficacia dell’attività amministrativa nonché nell’erogazione dei servizi28.

L’età media della popolazione locale influisce sulla domanda (e quindi sul costo totale) di determinati servizi pubblici: laddove vi sia una maggiore percentuale di popolazione

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anziana, vi sarà maggiore richiesta di servizi di assistenza, mentre in un comune in cui l’età media è più bassa, sarà più alta la spesa da destinare all’edilizia scolastica, alla creazione di asili nido e all’erogazione dei servizi per la prima infanzia. La densità demografica, che, come si è visto, presenta una varianza locale elevata rispetto alla media nazionale, incide su vari costi, tra cui quelli di realizzazione e manutenzione delle vie di comunicazione, quelli relativi al trasporto pubblico. La specializzazione economica determina i caratteri del sistema fiscale locale nel complesso: in una località turistica sono ampiamente utilizzabili forme di prelievo tariffarie e prezzi pubblici, mentre in un comune dedito all’attività agricola è preferibile fare ricorso all’imposizione fiscale sulla proprietà fondiaria.

Gli esempi appena presentati di certo non esauriscono l’ampio catalogo di aspetti che, configurandosi come specificità di singoli enti locali, determinano una differenziazione orizzontale della spesa pubblica (e quindi dei suoi costi); essi comunque sono sufficienti a far intuire che, indifferentemente dai suoi risvolti positivi o negativi, l’eterogeneità genera sempre una domanda di beni pubblici29 frammentata e altamente diversificata: una

serie di servizi specifici nelle località turistiche, la manutenzione continua del territorio nelle zone a rischio di dissesto, l’attivazione di strutture residenziali o l’erogazione di altre misure di supporto per l’anzianità nei comuni dove l’età media è più elevata. Tutte queste “domande” possono trovare una risposta adeguata soltanto in presenza di un’amministrazione locale dotata di un’autonomia finanziaria idonea a sopportare i costi degli interventi: in assenza di tale autonomia, le risorse potrebbero essere insufficienti, o essere destinate ad altre spese di minore utilità per la comunità locale.

Vi è poi un altro elemento degno di considerazione, poiché incide indirettamente sulla quantità di denaro pubblico che affluisce nelle casse delle amministrazioni locali: si tratta della disomogeneità nella distribuzione dei redditi delle persone fisiche. I dati relativi all’anno d’imposta 201330 mostrano che nei comuni italiani il reddito imponibile medio

variava dai 51.403 euro del comune di Portofino ai 6.350 euro del comune di Cavargna.

29 All’interno della nozione di “bene pubblico” sono inclusi anche i servizi pubblici erogati dai comuni,

anzi, si può dire che questi siano la componente prevalente. La distinzione tra “bene” e “servizio” non ha rilevanza in questo contesto: qui rileva non tanto la “materialità” o “l’immaterialità” di beni e servizi, quanto la loro natura pubblica, in virtù della quale essi vengono forniti sulla base di logiche e regole diverse da quelle di mercato.

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Sicuramente la ricchezza degli abitanti del comune di Portofino costituisce un caso a se stante, e ciò è confermato dal fatto che il reddito medio di Cusago, il terzo comune “più ricco” d’Italia, nel 2013 era pari a 35.735,09 euro, con uno scarto di 15.667,91 euro rispetto al valore rilevato a Portofino. Nonostante ciò, non può passare inosservato come nei 2.000 comuni italiani “più poveri” il reddito medio pro capite sia risultato inferiore ai 13.756 euro annui, mentre nei 2.000 comuni più ricchi l’imponibile medio era al di sopra della soglia di 18.967 euro: queste cifre, sebbene non eccessivamente distanti dalla media nazionale (16.508,06 euro), implicano ad ogni modo che il gettito fiscale derivante da addizionale IRPEF è sensibilmente disomogeneo tra i vari comuni, e quindi tendenzialmente non idoneo a finanziare la spesa locale, persino nell’ipotesi che la domanda di beni pubblici e i costi dell’offerta pubblica fossero identici e non frammentati sull’intero territorio italiano (vale a dire, nel caso in cui la spesa pubblica pro capite fosse ovunque identica). Poiché quest’ultima ipotesi, come si è visto, non trova riscontro nel variegato scenario dei comuni italiani, ne deriva che la determinazione in sede nazionale degli elementi essenziali di un’imposta locale sul reddito non è affatto coerente con il fabbisogno di risorse degli enti locali, non essendo il gettito dell’imposta commisurato alla spesa che l’ente deve sostenere. Le risorse prelevate con l’addizionale IRPEF si basano esclusivamente sulla capacità contributiva, non anche al sul fabbisogno di finanziamento, e il presupposto di questo tributo produce due effetti degni di nota: la variabilità del gettito in base a fattori estranei alle esigenze del governo locale, e, soprattutto, lo svantaggio arrecato ai comuni in cui il reddito medio è più basso. Va segnalato anche che l’addizionale sul reddito non rispetta il principio del beneficio, poiché l’entità del contributo versato è correlata esclusivamente alla ricchezza del contribuente (che peraltro risulta altamente variabile anche all’interno del medesimo comune). Da ultimo, non si dimentichi che, trattandosi di una forma di imposizione delineata a livello nazionale, la sua normativa inevitabilmente subisce mutamenti che, in quanto non deliberati dal legislatore locale, rendono imprevedibili eventuali mutamenti futuri circa l’entità del gettito di cui il comune potrà disporre; un’ulteriore fonte di incertezza circa l’ampiezza del suo gettito deriva dal condizionamento che le congiunture economiche esercitano sul livello generale dei redditi.

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Ancora una volta, è il caso di ribadire l’opportunità di far coincidere in capo al medesimo ente il potere di spendere e il potere di determinare le forme di entrata, aggiungendo un’ulteriore giustificazione: oltre a favorire il controllo degli elettori e l’imputazione delle responsabilità di ogni scelta, la vicinanza dei governi locali ai propri cittadini fa sì che la classe dirigente locale, più di quella nazionale, sia capace di operare un prelievo mirato, identificando le basi imponibili più stabili e meno sperequate, e soprattutto comprendendo quali siano i soggetti più propensi a sacrificare parte della loro ricchezza per finanziare spese pubbliche dalle quali potranno ricavare un beneficio individuale.

Queste osservazioni inducono a riflettere sulle difficoltà che potrebbe incontrare uno stato investito del compito di finanziare in maniera efficiente tutte le spese che le singole comunità territoriali ritengono desiderabili: per svolgere una simile missione, l’attività statale finirebbe per acquisire un raggio d’azione smisurato e dei costi sovrumani. La classe dirigente nazionale non potrà mai accollarsi l’onere di perseguire i molteplici interessi espressi dalle varie comunità locali, sia a causa di oggettive difficoltà, sia perché, ai fini della sua legittimazione politica, non ha alcun bisogno di tenere in considerazione le richieste della totalità degli elettori: presterà invece ascolto solo agli interessi promossi da porzioni consistenti di popolazione, essendo sufficiente l’acquisizione del consenso della maggioranza relativa degli elettori. Pertanto, la dimensione locale del governo è l’unica in grado di cogliere gli interessi confinati all’interno di un ambito territoriale ristretto31; questi interessi possono ben avere un peso trascurabile in sede di composizione

della domanda nazionale di beni pubblici, ma hanno una rilevanza cruciale nell’ambito ristretto in cui originano; e proprio per questo motivo sarà esclusivamente la classe dirigente locale, al fine di ottenere il consenso necessario, ad avere interesse a raccogliere e ad esaudire le specifiche richieste delle comunità locali32.

1.4 Considerazioni

L’analisi finora svolta consente di identificare alcuni dei requisiti essenziali per una finanza locale efficiente: questa dovrebbe basarsi principalmente su entrate proprie, le uniche fondate sul principio del beneficio, essendo destinate principalmente a finanziare

31 W.E. OATES, Fiscal federalism, Harcourt, Brace, Jovanovich, Inc., 1972

32 P. SEABRIGHT, Accountability and Decentralization in Government: an Incomplete Contracts Model,

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le spese necessarie per l’amministrazione di specifiche porzioni di territorio; spese delle quali l’amministrazione locale, meglio di chiunque altro, può conoscere gli oggetti e i costi. Una finanza propria responsabilizza gli amministratori, impedendo loro di destinare il denaro pubblico a spese infruttifere, se non a costo di perdere il consenso; inoltre, permette ai governi locali di reperire le risorse adeguate all’erogazione di specifici beni pubblici essenziali non per l’intera nazione, ma per singole comunità. Il rispetto del criterio della controprestazione limiterà l’insofferenza popolare nei confronti della pressione fiscale, poiché chi trae beneficio dall’azione di governo sarà generalmente disposto a finanziare le spese pubbliche.

Man mano che si proseguirà nell’analisi, si identificheranno ulteriori linee guida, tuttavia si può rilevare sin da adesso che il modello di finanziamento che sta emergendo dovrà fare i conti con i numerosi vincoli presenti a vario titolo nell’ordinamento italiano, primo fra tutti quello che prevede la riserva di legge per la definizione degli elementi fondamentali tanto dei tributi nazionali, quanto di quelli regionali e locali. Questi vincoli saranno oggetto di trattazione specifica in un apposito capitolo.

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2. IMPOSIZIONE SULLA PROPRIETÀ IMMOBILIARE

L’imposizione fiscale immobiliare può assumere forme differenti, distinguibili a seconda che il prelievo gravi sul patrimonio o sul reddito prodotto dagli immobili, o ancora sui trasferimenti di proprietà (vendita, successione, donazione...). Nel presente capitolo, si farà riferimento all’imposizione sul patrimonio immobiliare (e più precisamente, sul valore di tale patrimonio), i cui soggetti passivi sono i titolari di diritti reali sugli immobili (proprietà, usufrutto, enfiteusi e figure analoghe): si può facilmente osservare che nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea questa forma di tributo si configura come la principale leva fiscale di cui dispongono gli enti locali. Anche dando uno sguardo tra le fila dei paesi OCSE si riscontra la centralità delle imposte ricorrenti sulla proprietà immobiliare, il cui gettito è mediamente superiore a quello prodotto dalle imposte sui trasferimenti di proprietà o sui redditi derivanti dagli immobili33. Se le imposte sul valore

degli immobili sono la principale forma di entrata tributaria degli enti locali in numerosi ordinamenti, è perché presentano numerosi vantaggi: esse si caratterizzano per l’idoneità a riscuotere una consistente quantità di denaro nel rispetto del principio del beneficio, si applicano su una base imponibile stabile nel tempo e scarsamente mobile, e rispettano il principio di capacità contributiva34: il gettito dell’imposta è commisurato al valore

dell’immobile, un indicatore di ricchezza del possessore, e pertanto i contributi più ingenti saranno conferiti dai proprietari degli immobili di maggior valore, mentre potranno essere concesse varie forme di agevolazione fiscale a chi possiede proprietà il cui valore di mercato è al di sotto di una determinata soglia.

Per quanto riguarda l’Italia, nel 1992 fu introdotta l’ICI, ovvero l’Imposta comunale sugli immobili, nata per divenire la principale fonte di entrata tributaria dei comuni italiani; tuttavia, specialmente a partire dal 2006, questo tributo venne a trovarsi al centro di accesi dibatti politici, in cui si contrapponevano da un lato il proposito di operarne un ridimensionamento, e dall’altro le tendenze opposte di coloro che intendevano

33 Gli immobili in Italia 2015, a cura di Agenzia delle entrate e MEF, pp. 129-132, disponibile su

http://www.agenziaentrate.gov.it.

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consolidare la centralità dell’imposizione immobiliare nell’ambito della finanza degli enti locali35; prevalse infine la prima di queste due linee politiche, e infatti, per quanto riguarda

le abitazioni principali, nel 2007 fu stata introdotta un’importante detrazione, mentre nel 2008 venne addirittura soppresso l’intero pagamento dell’imposta. Un’inversione di tendenza si registrò appena qualche anno dopo, nel 2011, anno in cui l’ICI, che erogava un gettito ormai fortemente ridimensionato, cedette il posto alla più onerosa Imposta municipale unica (IMU), un tributo ideato nell’ambito del più ampio progetto di attuazione del federalismo fiscale, ma la cui adozione in tempi rapidi, come si vedrà più in là, ebbe luogo alla luce dei deficit del bilancio statale causati dalla imperversante crisi economica piuttosto che per una risoluta determinazione ad ampliare gli spazi di autonomia degli enti locali. A partire dal 2011, il trend dell’imposizione sulla proprietà immobiliare si è mostrato piuttosto altalenante, in ragione dell’instabilità delle disposizioni di legge (in particolare quelle concernenti il regime delle agevolazioni fiscali).

Dando uno sguardo ai numeri, si nota che l’intero processo di abbattimento dell’ICI ha inciso fortemente sull’entità complessiva del prelievo sul patrimonio immobiliare, il quale nel 2011 generava un livello di entrate pari a 0,6% del PIL nazionale, relativamente basso rispetto alla media dei paesi OCSE. Nel 2012, invece, grazie alle entrate derivanti dalla riscossione della nuova imposta municipale, il prelievo totale era al 2,6% del PIL, quello derivante dalle imposte ricorrenti pari all’1,5% del PIL: dei valori del tutto in linea con i quelli riscontrati in quei paesi dell’UE che presentano i più alti livelli di prelievo fiscale sugli immobili36.

2.1 Sviluppi recenti dell’imposizione immobiliare in Italia 2.1.1 La graduale erosione dell’ICI

Con specifico riferimento al contesto italiano, l’imposta sugli immobili (ICI) è stata introdotta per la prima volta nel 1992, e la sua disciplina ha subito numerose modifiche, soprattutto a partire dal nuovo millennio. L’instabilità della normativa ha riguardato

35 G. POLA, Criteri selettivi per il federalismo, 09/07/2007, disponibile su www.ilsole24ore.com. 36 Redazione ANSA, Fisco: in Italia tasse casa 2,6% Pil, nona in Ocse, 05/08/2015, disponibile

all’indirizzo http://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2015/08/05/fisco-in-italia-tasse-casa-26-pil-nona-in-ocse_77e2c0b6-1010-4ab8-9de6-57bf3c6f9835.html; Gli immobili in Italia 2015, cit., pp. 129-132.

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aspetti di primo piano della struttura dell’imposta, come il presupposto, le esenzioni, le aliquote; in ragione di questi mutamenti, spesso orientati al raggiungimento di obiettivi non conciliabili (alleggerimento del carico fiscale, risanamento dei conti pubblici nazionali…), il gettito annuale è risultato piuttosto variabile. Ma nonostante la consueta rivisitazione della disciplina dell’imposta, non è mai stata messa in discussione l’identificazione dei comuni come principali beneficiari del gettito.

Una prima modifica di una certa rilevanza si ebbe nel 2007, quado con la legge n. 244/2007 (Finanziaria per il 2008) fu disposta detrazione del 1,33 per mille della base imponibile sino ad un massimo di 200 euro per i contribuenti che percepivano un reddito non superiore a 50.000 euro. Pochi mesi dopo, in data 21 maggio del 2008, il Consiglio dei Ministri approvò il d.l. 93/2008, con il quale venne disposta un’esenzione all’ICI per gli immobili destinati ad abitazione principale e per quelli ad essi assimilati dai regolamenti comunali, eccetto che per i fabbricati rientranti nelle categorie catastali A1 (abitazioni di tipo signorile), A8 (ville) e A9 (castelli e palazzi eminenti). Il d.l. 93/2008 recava “Disposizioni urgenti per salvaguardare il potere di acquisto delle famiglie”, e dal suo titolo si può facilmente intuire che la modifica della disciplina dell’ICI in esso contenuta non era finalizzata a regolare gli interessi collegati alla finanza locale, ma piuttosto a ridurre la pressione fiscale, che, sommata ai primi effetti della nascente crisi economica, comportava delle forti limitazioni al potere d’acquisto degli italiani. Un ulteriore aspetto critico del decreto consisteva nella compensazione del mancato gettito ICI attraverso un trasferimento erariale, per il quale era prevista la creazione di un fondo di 2.664,1 milioni di euro: inizialmente, non vi erano nemmeno sufficienti garanzie circa l’effettiva copertura statale37, ma soprattutto l’entità del trasferimento, secondo Anci e

SVIMEZ38, appariva nettamente inadeguata a coprire la perdita di gettito dovuta

all’esenzione, che nel 2008 sarebbero ammontata a 3.202 milioni di euro: il gap da coprire sarebbe risultato superiore a 500 milioni. Oltretutto, la compensazione erariale gravò pesantemente sui fondi destinati al Mezzogiorno: Sicilia e Calabria dovettero rinunciare, senza contropartita, ad alcuni stanziamenti destinati ad interventi per la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina, di opere ferroviarie e stradali e di opere viarie minori39.

37 N. COTTONE, Forti tensioni sulla copertura del taglio ICI, 15/07/2008, disponibile su

www.ilsole24ore.com.

38 Previsioni per le regioni italiane nel 2008 e 2009, a cura di SVIMEZ, Roma, 11/12/2008, pp. 19-20. 39 Ivi, p. 15.

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Non mancano perplessità neppure circa gli effetti distributivi dell’esenzione ICI in vigore nel 2008: paradossalmente, dal punto di vista della ricchezza, sono le famiglie più abbienti quelle che ne ricavarono un beneficio maggiore; confrontando invece i dati territoriali, si rileva che con l’esenzione le famiglie delle regioni meridionali ottennero nel complesso un beneficio relativamente basso40. Infine, non si può non riconoscere come questa scelta

politica sia stata rilevante, oltre che per aver indotto gli specifici effetti appena menzionati, anche per la sua portata simbolica: essa assestò un pesante colpo all’autonomia finanziaria degli enti locali, la cui valorizzazione, in attesa dell’imminente approvazione del testo normativo sul federalismo fiscale, rappresentava già da sette anni la pietra miliare del riformato art. 119 Cost.41

2.1.2 La nuova Imposta municipale unica

Nel 2012 si assistette ad una riaffermazione dell’imposizione immobiliare: abolita l’Imposta comunale sugli immobili, venne introdotto un nuovo tributo, che prese il nome di IMU (Imposta municipale unica). Si tratta di un’imposta originariamente prevista dal d.l. 23/2011 sul cd. “federalismo municipale”, con il quale si annunciava la sua introduzione a decorrere dall’anno 2014. All’art. 8 c. 1, il decreto stabiliva che l’IMU “sostituisce, per la componente immobiliare, l’imposta sul reddito delle persone fisiche e le relative addizionali dovute in relazione ai redditi fondiari relativi ai beni non locati, e l’imposta comunale sugli immobili”. Tuttavia, con il d.l. 201/2011 cd. “Salva Italia”, la nuova imposta fu applicata in via sperimentale a decorrere dall’anno 2012, mentre l’entrata a regime era ivi prevista per il 2015; questa contrazione delle tempistiche per l’introduzione dell’IMU si ricollegava alla necessità, annunciata nel titolo del decreto legge n.201, di raggiungere obiettivi di rilevante interesse nazionale, quali la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici. Le più importanti novità della nuova imposta adottata in via sperimentale erano le seguenti:

 Ampliamento del presupposto, che includeva anche le abitazioni principali (assoggettate all’imposta con aliquota agevolata di 0,4%).

 Base imponibile più ampia rispetto a quella su cui gravava l’ICI, ottenuta moltiplicando per il coefficiente di 160 la rendita catastale rivalutata al 5% (per i

40 Ivi, pp. 15-18.

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fabbricati classificati nel gruppo catastale A e nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, con esclusione della categoria catastale A/10).

 Definizione di un’aliquota pari allo 0,76% della base imponibile, manovrabile dai singoli comuni in rialzo o in ribasso per uno scostamento massimo di 0,3% dal valore standard. Per l’abitazione principale, l’aliquota standard era fissata allo 0,4%, con possibilità di rialzo o ribasso fino ad un massimo del 2% dell’imponibile. La disciplina dell’ICI, invece, attribuiva ai comuni la scelta dell’aliquota, entro un margine di 0,4% e 0,7%.

 Detrazione standard di 200 euro sull’abitazione principale, innalzabile dal comune e incrementata di 50 euro per ogni figlio a carico di età inferiore ai 26 anni (fino ad un limite massimo di 600 euro).

 “Espropriazione” di parte del gettito delle entrate comunali in favore dello stato al fine di riequilibrare il bilancio nazionale42: nel 2012, lo stato beneficiò della

metà del gettito standard dell’IMU, salvo che per la parte derivante dalle abitazioni principali e relative pertinenze, e dai fabbricati rurali ad uso strumentale.

L’inclusione delle abitazioni principali nel presupposto e la compartecipazione statale al gettito dell’imposta sono due scelte che astrattamente rischiano di comportare ingenti costi per la classe dirigente che decide di adottarle: la prima è palesemente impopolare, in quanto produce un aumento del carico fiscale per la quasi totalità delle famiglie; la seconda genera malcontenti all’interno degli organi municipali, nella misura in cui i comuni vedono affievolirsi la portata di una cospicua fonte di finanziamento. Quindi, con riferimento al contesto italiano, l’adozione di provvedimenti talmente onerosi in termini di consenso politico dà ulteriore conferma delle finalità che lo Stato ha inteso perseguire attuando la revisione della disciplina di questa imposta: massimizzare il gettito per rispondere all’urgenza di risanare l’economia e i conti pubblici nazionali, tralasciando completamente qualsiasi obiettivo di perfezionamento della finanza locale. Nonostante ciò, a prima vista sembrerebbe che i comuni abbiano tratto giovamento dall’incremento delle loro entrate tributarie prodotto dalla nuova imposta: essa, infatti, rispetto all’ICI si applica ad una base imponibile più ampia e ha un’aliquota media più elevata. Tuttavia, le

42 P. MIRTO, Iuc: tributo o semplice acronimo?, in G. BERNABEI, G. MONTANARI, Tributi propri e

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entrate complessive municipali sono rimaste pressoché immutate: nel 2011, il valore risultava pari a 84.212 milioni di euro43, un dato microscopicamente inferiore agli 84.423

milioni44 accertati per il 2012; di queste entrate, 9.811 milioni corrispondevano al gettito

ICI del 2011, mentre le entrate municipali derivanti dall’IMU nel 2012 ammontavano a 15.625 milioni di euro: la nuova imposta sperimentale ha fornito ai comuni un quantitativo di risorse visibilmente maggiore della vecchia Imposta comunale, nonostante che una buona parte del prelievo complessivo sia terminata nelle casse dello stato. Dunque, se tra il 2011 e il 2012, le entrate tributarie dei comuni italiani sono aumentate (da 33.366 a 37.105 milioni), l’invariabilità delle entrate complessive è da imputarsi alla flessione dei trasferimenti correnti e di capitale da stato e regioni: in particolare, le variazioni in negativo degli accantonamenti nel Fondo Sperimentale di Riequilibrio e dei trasferimenti statali hanno vanificato lo scarto positivo esistente tra le entrate derivanti dall’IMU e quelle prodotte dall’ICI. In conclusione, il passaggio dal vecchio al nuovo tributo ha causato un incremento della pressione fiscale sui contribuenti senza incidere sull’entità complessiva delle risorse a disposizione dei comuni: il surplus generato dalla nuova imposta è andato a beneficio esclusivo delle casse dello Stato45. Al di là di questo

effetto da più parti indesiderato, occorre segnalare un'altra nota dolente: nell’atto di introdurre l’IMU, il legislatore, come già osservato, non intendeva affatto accrescere le entrate municipali, e pertanto il conseguente incremento del gettito doveva essere compensato da un’equivalente contrazione dei trasferimenti statali. La quantificazione dell’importo da trasferire fu effettuata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dal Ministero dell’Interno, che stimarono il gettito dell’IMU e quello dell’ICI per il 2010; tuttavia, tali elaborazioni, come accertato dal Tar del Lazio (Sent. n. 3804/2014) e confermato dal Consiglio di Stato (Sent. n. 5008/2015) in seguito al ricorso presentato dall’ANCI, si basavano su criteri approssimativi e parametri inadeguati. Da tali calcoli scaturì una differenza di gettito IMU-ICI superiore di 500 milioni di euro rispetto al

43 Fonte: Bilanci consuntivi delle amministrazioni comunali (2011), pubblicati da Istat in data 22/10/2012. 44 Fonte: Bilanci consuntivi delle amministrazioni comunali (2012), pubblicati da Istat in data 08/07/2016. 45 A. FERRI, C. POLLASTRI, S. SCOZZESE, Il federalismo municipale: l’anticipazione dell’IMU,

Relazioni introduttive del seminario svoltosi a Frascati il 18 maggio 2012 in tema di Imposta Municipale Unica sperimentale, a cura di IFEL – Fondazione ANCI, pp. 8-10, disponibile online all’indirizzo

http://www.fondazioneifel.it/studi-ricerche-ifel/item/336-il-federalismo-municipale-l-anticipazione-dell-imu.

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risultato accertato dai conti consuntivi: questa è l’entità del surplus illegittimamente sottratto al Fondo sperimentale di riequilibrio e al Fondo di perequazione46.

L’incombenza del pagamento dell’IMU sulla prima casa aveva carattere esclusivamente transitorio (si ricordi: l’IMU, secondo la sua disciplina originaria, occasionalmente derogata ma mai abrogata, non grava sull’abitazione principale): il d.l. 102/2013 infatti soppresse il pagamento della prima delle due rate per le abitazioni principali e le relative pertinenze, salvo che per i fabbricati di lusso (categorie A1, A8, A9), i terreni agricoli e fabbricati rurali, le multiproprietà di cooperative adibite ad abitazione principale e gli alloggi popolari. Con il d.l. n. 133 del 30 novembre 2013, l’esenzione fu applicata anche al pagamento della seconda rata relativa al 2013; a titolo compensativo, la medesima legge ha disposto lo stanziamento di circa 2,2 miliardi di euro a favore dei comuni italiani per l’anno 2013. Peraltro, poiché le risorse stanziate con il decreto non sono sufficienti a compensare il minor gettito, una quota dell’IMU relativa al 2013 fu pagata dai contribuenti entro i termini del 24 gennaio 2014. Contestualmente, il legislatore dispose che per il 2014 i comuni non avrebbero avuto la possibilità di modificare in rialzo le aliquote, neppure entro i limiti previsti dalla legge. Con quest’ultima norma, la cui validità è stata protratta negli anni successivi dalle varie leggi di stabilità, l’autonomia municipale è risultata ulteriormente ridimensionata. Infine, a partire dal 2013 la compartecipazione statale ha riguardato esclusivamente il gettito ricavato dall’imposizione sugli immobili a destinazione speciale (categoria catastale D), ma la Legge di Stabilità 2016 ha introdotto nuove esenzioni su queste tipologie di immobili, con conseguente perdita di gettito erariale stimata nell’ordine di 375 milioni di euro47.

2.1.3 L’Imposta unica comunale

La Legge di Stabilità 2014 diede luogo a un importante rinnovamento delle forme di imposizione immobiliare, con l’introduzione dell’Imposta unica comunale (IUC), attualmente in vigore. L’IUC riassume tre tributi: la versione originaria dell’IMU con esenzione sull’abitazione principale (eccetto per i fabbricati appartenenti alle categorie catastali A1, A8 e A9), una rinnovata tassa sui rifiuti (TARI) e un’imposta del tutto nuova

46 G. TROVATI, Quel mezzo miliardo di euro smarrito tra ICI e IMU, 14/03/2016, disponibile su

www.ilsole24ore.com.

47 Documento di economia e finanza 2016, a cura di MEF, sez. II, pp. 87-89, disponibile su

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sui servizi indivisibili (TASI). Quest’ultima è finalizzata al finanziamento di servizi, specificatamente identificati tramite regolamento comunale, destinati ai residenti (illuminazione pubblica, nettezza urbana, manutenzione delle strade...), il cui beneficio tratto dal singolo individuo non è quantificabile. L’importo della TASI si calcola sulla medesima base imponibile dell’IMU (il valore catastale dell’immobile), applicandovi un’aliquota standard di 0,1%; a partire dal 2016, la TASI non grava più sulle abitazioni principali. La nuova imposta sui servizi indivisibili appare un duplicato dell’IMU, in quanto condivide con essa il presupposto e la base imponibile: la scelta di istituire due tributi talmente simili appare alquanto discutibile, e una fusione dei due tributi, recentemente prospettata ma almeno temporaneamente abbandonata48, semplificherebbe

le procedure e ridurrebbe i costi amministrativi collegati al calcolo e alla riscossione degli importi. In questo capitolo si tratterà esclusivamente dell’IMU e della TASI, mentre la TARI sarà presentata nell’ambito dei capitoli riguardanti l’imposizione di scopo, poiché si può facilmente osservare come questo tributo, seppur riconducibile alla titolarità di diritti sugli immobili, persegua una finalità distinta, necessitando quindi di essere inserito nell’ambito di differente tipologia di imposta.

2.1.4 Vecchie e nuove anomalie

A seguito di questo breve excursus sulle travagliate vicende che hanno interessato l’imposizione immobiliare in Italia nel corso degli ultimi anni, si possono mettere in evidenza alcuni aspetti che hanno caratterizzato a più riprese la disciplina dell’imposizione sulla proprietà immobiliare a partire dall’introduzione dell’IMU, e che appaiono in contrasto con i principi ispiratori di una modello di imposizione fiscale che sia concepito nell’ottica del perseguimento dell’efficienza della finanza locale.

 L’esenzione sulla prima casa, attualmente applicata sia sull’IMU che sulla TASI, non è in armonia con il principio del beneficio: i residenti possiedono degli immobili nel loro comune, e sono i principali fruitori dei servizi pubblici locali, dunque proprio loro dovrebbero finanziare la spesa pubblica49. Appare evidente

come questa misura sia stata più volte introdotta in quanto altamente appetibile

48 G. TROVATI, Niente fusione per IMU e TASI, 15/10/2015, disponibile su www.fondazioneifel.it. 49 P. LIBERATI, F. GASTALDI, Il Pasticcio della tassazione immobiliare, 08/10/2013, disponibile su

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per la moltitudine di elettori che possiedono almeno un’abitazione: nessuno di essi si opporrà all’abbattimento dell’imposta sugli immobili50, e per di più, essendo

scarsamente individuabili i singoli oggetti di spesa finanziati con l’imposta municipale, sarà nondimeno inavvertibile la perdita di beneficio in termini di minore erogazione di bene pubblico implicata dalla minore (o nulla) onerosità del prelievo. Eppure un’esenzione così considerevole prospetta importanti conseguenze negative: i fruitori dei servizi pubblici incentiveranno l’incremento di una spesa pubblica che non finanziano, i cui costi verranno coperti principalmente attraverso i prelievi effettuati sui contribuenti che possiedono almeno due abitazioni (fortemente incentivati all’evasione), se non proprio ricorrendo al deficit di bilancio51.

 La compartecipazione statale al gettito dell’imposta sulla proprietà immobiliare riduce sensibilmente la quantità di risorse di cui possono disporre i comuni, e, soprattutto, non è coerente con la natura dell’imposta, istituita per il sostentamento finanziario esclusivo dei comuni stessi. Il conseguente trasferimento di fondi erariali per compensare le minori entrate locali si è rivelato inadeguato al sostentamento delle spese finanziate con l’intero gettito derivante dall’imposta municipale.

 Il “blocco parziale” delle aliquote IMU (ovvero l’impossibilità di aumentarle, neppure all’interno margini di manovra previsti dalla legge istitutiva dell’imposta) comporta un’ulteriore limitazione dell’autonomia comunale: questa misura è stata introdotta con la Legge di Stabilità 2014 e confermata anche per il 2015 e il 2016. Dando poi uno sguardo globale, si riscontra una marcata instabilità della disciplina normativa e la provvisorietà di determinati provvedimenti: due realtà che complicano le decisioni di spesa dei comuni, i quali non possono fare affidamento su risorse certe. In particolare, va precisato che le principali modifiche sono state introdotte per mezzo di decreti legge, strumenti legislativi che, data la loro rapida procedura di formazione, hanno la capacità di stravolgere l’intera normativa di un’imposta senza che i destinatari dell’atto stesso (specificamente i comuni) abbiano i mezzi per disporre a tempo debito la contrazione della spesa pubblica o l’impiego di fonti di finanziamento alternative. A

50 M. BORDIGNON, Se la felicità è tagliare l’Imu, 26/04/2013, disponibile su www.lavoce.info. 51 G. MURARO, La ballata dell’Imu, disponibile su www.lavoce.info, 04/02/2013.

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