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L’imposta di scopo è una delle tipologie di entrata più adeguate a finanziare i singoli oggetti della spesa pubblica locale. Per quanto riguarda questo tributo, la legislazione italiana si è rivelata incapace di strutturare l’imposta in modo tale da favorirne il più ampio e ottimale impiego. L’inadeguatezza della normativa è segnalata dalla scarsa applicazione del tributo nel panorama locale italiano: attualmente, un’imposta di scopo è prevista in appena 25 comuni su un totale di circa 8100. Ciò nonostante, sono numerose le ragioni che portano a pensare che questo modello impositivo sia efficiente, e per le quali sarebbe auspicabile una rivisitazione della sua normativa affinché vengano rimossi gli ostacoli che ne disincentivano l’adozione. Di seguito verranno mostrate le potenzialità dell’imposta di scopo, e si vedrà come nel contesto italiano esse siano vanificate dai numerosi vincoli apposti dal legislatore.

3.1 Le potenzialità dell’istituto

Uno dei principali punti di forza dell’imposta di scopo è rintracciabile nel suo legame diretto con la spesa pubblica: in questo caso, il meccanismo “vedo, pago, voto” si attiva piuttosto facilmente, differentemente da quanto accade per tributi finalizzati esclusivamente a produrre gettito. E se dal punto di vista dell’amministrazione comunale un’imposta come l’IMU non è che una ricca fonte di entrata, da quello del contribuente lo stesso tributo è visto come un gravame, un costo non compensato da uno specifico ed evidente beneficio. Contrariamente, un’imposta di scopo potrebbe risultare desiderabile nella misura in cui serve alla copertura di spese ben definite, afferenti non tanto all’ordinaria amministrazione dell’esistente, quanto piuttosto a specifici progetti volti alla realizzazione di svariate opere di interesse pubblico (riqualificazioni di aree, ampliamento e sviluppo di reti infrastrutturali, potenziamento o ammodernamento dei servizi presenti sul territorio ecc.). Obiettivi di questo genere sarebbero difficilmente implementabili facendo esclusivo ricorso al gettito dell’imposta municipale o ai trasferimenti erariali; necessiterebbero invece di contributi ad hoc, corrisposti dai soggetti beneficiari dell’opera pubblica. Tuttavia, a malincuore si scopre che solitamente le amministrazioni

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comunali puntano a conseguire il massimo gettito dall’imposta piuttosto che a prelevare le risorse necessarie per sostenere una spesa pubblica efficiente68. Occorrerebbe superare

questa concezione della finanza locale per proporne una nuova, alla cui base bisogna porre l’efficienza complessiva degli apparati amministrativi: percorrendo questa strada, ci si accorge che il prelievo fiscale non è più fine a se stesso, ma diventa funzionale all’erogazione di beni e servizi socialmente desiderati. In questo modo, la quantità di denaro da corrispondere al fisco trova un limite ben preciso, ovverosia il costo della spesa che si intende erogare. Risulta così evidente una delle principali differenze tra i tributi locali obbligatori (IMU, TASI…) e l’imposta di scopo: i primi, in quanto doverosamente riscossi, sono privi di collegamento con le decisioni di spesa della singola amministrazione comunale (con conseguente rischio di essere non proporzionati al fabbisogno di risorse), mentre quest’ultima nasce per consentire la realizzazione di un’opera ben identificata, ai cui costi verrà commisurata. Con questo non si vuole affatto negare l’utilità e la desiderabilità di imposte ricalcate sul modello dell’ICI o dell’IMU, ma si intende piuttosto rimarcare la necessità che queste siano affiancate da altri tipi di strumenti di prelievo che garantiscano un più evidente rispetto del principio della controprestazione e favoriscano la realizzazione di una serie di opere che spesso richiedono un surplus di entrate, ma che meritano di essere realizzate in quanto generatrici di valore aggiunto per il cittadino. A garanzia del contribuente si pone il vincolo di destinazione del gettito, che conferisce trasparenza alle decisioni degli amministratori locali e limita le distorsioni nell’impiego delle risorse pubbliche.

Il fondamento ultimo dell’imposta di scopo è la cd. “cattura del valore”, che consiste nell’identificare il plusvalore prodotto da un intervento pubblico e imputare i costi ai soggetti che ne traggono beneficio69. Dunque, questo modello tributario consente di

avvicinare i meccanismi della finanza pubblica alle logiche di mercato, secondo le quali vi deve essere perfetta coincidenza tra acquirente e fruitore di un determinato bene. In questo senso, l’imposta di scopo si ispira al modello tariffario, sebbene in questo caso, data la non escludibilità e la non rivalità tipiche dei beni pubblici puri, il collegamento tra utente e contribuente sia inevitabilmente meno rigido: a differenza di quanto avviene con

68 A. F. URICCHIO, Il modello delle imposte di scopo tra principi ispiratori e sbocchi normativi, in La

fiscalità locale tra gestori e nuovi sistemi di prelievo, Maggioli Editore, 2014, p. 95.

69 C. SUMIRASCHI, Catturare il valore: politiche innovative per finanziare le infrastrutture, Egea,

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le tariffe, l’imposta di scopo deve essere corrisposta anche da chi non domanda esplicitamente la realizzazione dell’opera pubblica, o non si serve di essa. Ma in qualunque caso, non si può fare a meno di rilevare come questo tributo costituisca uno dei mezzi più adeguati per realizzare opere pubbliche volute da una determinata collettività locale: proprio per via della maggior aderenza alle logiche di mercato, la spesa pubblica finanziata con l’imposta di scopo è frutto non tanto di decisioni calate dall’alto, quanto piuttosto di progetti supportati dalla comunità di riferimento; ciò, naturalmente, sarà vero a condizione che esistano adeguati meccanismi di dialogo che consentano di favorire il concorso delle istituzioni e della comunità di riferimento nella determinazione delle opere da realizzare. Ma quando la dimensione territoriale di riferimento è quella locale, la comunicazione tra amministratori e cittadini è più semplice e immediata, e, data la tendenziale uniformità degli interessi all’interno della medesima collettività, si ha motivo di ritenere che le scelte pubbliche siano più omogenee; e la classe dirigente, per scongiurare una perdita di consenso, dovrà tener conto delle preferenze degli elettori70.

Infine, emerge con forza la rispondenza di un siffatto tributo con la complessiva tendenza che il legislatore italiano ha voluto imprimere alla finanza locale attuando la riforma dell’art. 119 Cost. e approvando successivamente la legge delega sul federalismo fiscale. In particolare, il nuovo art. 119 dispone che gli enti locali “stabiliscono e applicano tributi e entrate propri”, mentre l’art. 12 della legge 42/2009 concede una delega all’esecutivo per l’introduzione “di uno o più tributi propri comunali che, valorizzando l’autonomia tributaria, attribuisca all’ente la facoltà di stabilirli e applicarli in riferimento a particolari scopi quali la realizzazione di opere pubbliche e di investimenti pluriennali nei sevizi sociali ovvero il finanziamento degli oneri derivanti da eventi particolari quali lussi turistici e mobilità urbana”. L’imposta di scopo, più di qualsiasi altro tributo locale previsto nel nostro ordinamento, si accorda con il proposito di concedere significativi margini di autonomia impositiva, come previsto dalle due leggi appena richiamate. E l’autonomia inoltre si traduce in una maggior certezza delle risorse: gli amministratori si trovano ad essere vincolati in minor misura dalle decisioni prese dall’alto, potendo ben trovare fonti di finanziamento addizionali per sostenere maggiori livelli di spesa. Tuttavia, questo è vero solo in astratto, poiché, come si vedrà in seguito, la normativa

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ISCOP risulta ancora eccessivamente gravata da vincoli statali che non solo limitano le potenzialità dell’imposta, ma di fatto ne disincentivano l’istituzione (nel 2016 il tributo è applicato in soli 25 comuni italiani). Nondimeno, la disciplina originaria, introdotta nel 2007, ha subito un’apprezzabile (ma ancora insufficiente) evoluzione nella direzione del progressivo abbattimento dei numerosi vincoli esistenti: si pensi che in origine tramite l’imposta si poteva finanziare non oltre il 30% del costo complessivo dell’opera pubblica, mentre attualmente le amministrazioni possono optare per una copertura ISCOP integrale. 3.2 Evoluzione normativa

In tempi recenti71, l’imposta di scopo è stata introdotta in Italia con la legge 296/2006

(Finanziaria per il 2007), che attribuiva ai comuni la facoltà di istituire con regolamento un tributo per finanziare, nei limiti del 30% del costo complessivo, una delle opere pubbliche comprese in un elenco tassativo, che annoverava:

 Opere per il trasporto pubblico urbano;

 Opere viarie, esclusa la manutenzione di quelle esistenti;

 Opere particolarmente significative di arredo urbano o di maggior decoro dei luoghi;

 Opere di risistemazione di parchi e giardini;  Opere di realizzazione di parcheggi pubblici;  Opere di restauro;

 Opere di conservazione di beni artistici e architettonici;

 Opere relative a nuovi spazi per eventi e attività culturali, allestimenti museali e biblioteche;

 Opere di realizzazione e di manutenzione straordinaria dell’edilizia scolastica. L’aliquota era scelta dal comune entro un limite massimo dello 0,5 per mille. La base imponibile era mutuata dall’ICI, alla cui legge istitutiva rimandava la l. 296/2006 per quanto non espressamente previsto. L’art. 151 disponeva (e dispone tuttora) che “nel caso di mancato inizio dell'opera pubblica entro due anni dalla data prevista dal progetto esecutivo i comuni sono tenuti al rimborso dei versamenti effettuati dai contribuenti entro

71 La presente analisi verte esclusivamente sulla disciplina dell’ISCOP, e tralascia completamente le varie

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i due anni successivi". L’imposta, peraltro, poteva essere riscossa per non più di 5 anni. Per quanto riguarda le agevolazioni, il loro regime è rimasto pressoché invariato dal 2007: i comuni possono introdurre esenzioni, riduzioni o detrazioni in base alla situazione sociale o reddituale dei soggetti, in particolare a favore di coloro che percepiscono un reddito inferiore a 20.000 euro annui e di chi già dispone di altre agevolazioni ai fini dei pagamenti dell’imposta comunale sugli immobili

Con l’approvazione della legge delega 42/2009, il parlamento ha incaricato il governo di elaborare un nuovo schema per l’imposta di scopo. Il testo della norma forniva delle linee guida piuttosto vaghe72, prevedendo che il Governo avrebbe dovuto introdurre la

disciplina di uno o più tributi propri comunali che, “valorizzando l'autonomia tributaria, attribuisca all'ente la facoltà di stabilirli e applicarli in riferimento a particolari scopi quali la realizzazione di opere pubbliche e di investimenti pluriennali nei servizi sociali ovvero il finanziamento degli oneri derivanti da eventi particolari quali flussi turistici e mobilità urbana”. La delega è stata esercitata con l’emanazione del d.lgs. 23/2011, che riconosce ai comuni la possibilità di stabilire e applicare tributi di scopo per “la realizzazione di opere pubbliche ed investimenti pluriennali nei servizi sociali” e per “il finanziamento degli oneri derivanti da eventi particolari quali flussi turistici e mobilità urbana”. La formula del nuovo testo normativo (attualmente vigente) appare di portata più ampia rispetto a quella enunciata nella l. 296/2006, poiché non elenca tassativamente le tipologie di opera pubblica finanziabili tramite ISCOP. Tra le novità del decreto legislativo, vanno menzionati l’allungamento del periodo massimo di applicazione dell’imposta (da 5 a 10 anni) e la possibilità di coprire attraverso essa l’intero importo della spesa necessaria per la realizzazione dell’opera. Resta invece immutato il termine di due anni, decorso il quale scatta l’obbligo di restituzione del prelievo in caso di mancato avvio dell’opera. Non viene meno neanche il legame con l’imposta sul valore degli immobili, che continua a sussistere in seguito all’eliminazione dell’ICI: secondo l’art. 6 c. 2 del d.lgs. 23/2011, “a decorrere dall’applicazione dell’imposta municipale propria […] l’imposta di scopo si applica, o continua ad applicarsi se già istituita, con riferimento alla base imponibile e

72 M. VANNI, Riflessioni in tema di federalismo fiscale, responsabilità politica e tetti massimi di

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alla disciplina vigente per tale tributo”. Infine, è confermata l’aliquota massima dello 0,5 per mille dell’imponibile.

3.3 Diffusione dell’imposta di scopo

Nonostante le potenzialità dell’istituto, l’imposta di scopo ha registrato una scarsa applicazione, non solo nella sua versione originaria, ma anche in quella modificata con il d.lgs. 23/2011. Attualmente è vigente in appena venticinque comuni italiani, diciannove dei quali ne avevano disposto l’introduzione già prima del 201173: si nota quindi come, a

dispetto di quanto ipotizzabile aprioristicamente, l’alleggerimento dei vincoli in seguito alle modifiche introdotte dal d.lgs. 23/2011 non abbia affatto incentivato l’istituzione del tributo. I venticinque comuni che prevedono un’imposta di scopo hanno una popolazione complessiva di circa 520.000 abitanti, meno dell’1% dei residenti in Italia; tra di essi, sedici hanno un’ampiezza demografica compresa tra 1.000 e 15.000 unità, mentre sono solo tre i comuni con più di 50.000 abitanti.

Caratteristiche delle imposte di scopo nei comuni con imposta di scopo. Fonte: elaborazione IFEL da regolamenti comunali (ove disponibili) reperibili dai siti web delle amministrazioni, 2015

73 I dati riportati nel presente elaborato, relativi alla diffusione dell’imposta di scopo in Italia, sono

estrapolati da Le imposte di scopo e il finanziamento dello sviluppo locale, a cura di Fondazione IFEL, Dipartimento Studi Economia Territoriale e Dipartimento Servizi ai Comuni, 2016, disponibile su

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Si passa ora all’analisi delle caratteristiche delle imposte di scopo concretamente adottate, sulla scorta delle elaborazioni effettuate da IFEL. Si nota subito che gli interventi più ricorrenti riguardano opere pubbliche relative a strada e trasporti (in dieci comuni su venticinque) e alle scuole (in nove comuni). Risultano invece meno diffusi gli investimenti sugli immobili pubblici (tre comuni) e su igiene e arredo urbano (quattro comuni). La copertura media dell’ISCOP è pari al 39% del valore complessivo delle opere pubbliche (82,3 milioni di euro), una cifra piuttosto bassa, che dipende dalla ridotta quota di comuni che hanno introdotto l’imposta dopo il 2011. Di questi comuni (sei in totale), si hanno i dati relativi a Berceto, Cesenatico, Pisa e Roccaraso: tra di essi, solo Berceto non ha optato per la copertura ISCOP integrale del costo dell’opera, limitandosi invece al 30%. Mentre per quanto riguarda l’aliquota, tutti i comuni di cui si hanno a disposizione le informazioni hanno applicato il livello massimo, pari a 0,05%.

Interpretando le statistiche appena presentate, si può dedurre che l’imposta di scopo in Italia non ha avuto il successo che era lecito aspettarsi, e che il passo in avanti compiuto con l’approvazione del decreto sul cd. Federalismo municipale non è bastato ad incentivarne l’adozione. L’imposta è stata introdotta in un solo paese con più di 100.000 abitanti, la copertura media è inferiore al 40% del costo dell’opera, e l’importo complessivo delle spese con essa finanziate si attesta su una cifra irrisoria; bisogna quindi interrogarsi sulle cause di un simile fallimento e cercare di comprendere se è possibile migliorare la normativa del tributo, oppure se conviene puntare su forme di finanziamento alternative.

3.4 Le ragioni dell’insuccesso

I motivi per i quali l’imposta di scopo non ha trovato ampia applicazione attengono sia ai numerosi punti critici della sua normativa, sia alla più generale condizione dell’economia italiana che fa da sfondo: il tributo è stato proposto dal legislatore proprio in concomitanza con l’inizio di una fase avversa dell’economia italiana. A causa di questa congiuntura, che ha destabilizzato i conti pubblici, la pressione fiscale nazionale, come ben noto, è visibilmente aumentata, e i trasferimenti erariali agli enti locali hanno subito dei tagli; crisi economica e spending review hanno senz’altro determinato una crescita del fabbisogno di risorse dei comuni italiani, ma il ricorso ad un ulteriore prelievo tributario non era una strada percorribile dalle amministrazioni comunali, data l’alto livello di

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pressione fiscale che già gravava sui contribuenti. Ad ogni modo, ai fini del presente studio risulta più utile soffermarsi sugli aspetti peculiari che riguardano direttamente la disciplina dell’imposta di scopo piuttosto che sui fattori, seppur determinanti, che si collocano al di fuori di essa. Un discorso a sé va fatto invece in riferimento ai vincoli di finanza pubblica, che scoraggiano l’impiego dell’imposta di scopo, ma che saranno oggetto di trattazione specifica poiché giocano una ruolo determinante non solo in riferimento all’imposizione di scopo, ma bensì nel quadro complessivo della finanza degli enti locali.

Un aspetto indiscutibilmente critico del tributo è dato dallo stretto legame tra esso e l’imposizione immobiliare. Appare insensato sottoporre a una doppia tassazione la medesima base imponibile, ma soprattutto inopportuno: la pressione fiscale sugli immobili, come già osservato, aveva raggiunto livelli piuttosto elevati secondo la maggior parte dei contribuenti, e rincarare la dose aggiungendo un’ulteriore fonte di prelievo sulla stessa fattispecie non può certamente giovare alla reputazione di un sindaco. Sulla scorta di questa tesi, il disincentivo all’adozione dell’imposta si rintraccia paradossalmente all’interno dello stesso decreto legislativo che ha sgravato la disciplina dell’ISCOP da alcuni dei numerosi vincoli paralizzanti: il d.lgs. 23/2011 è anche l’atto con cui il legislatore ha previsto l’introduzione dell’IMU, un’imposta che, rispetto alla vecchia ICI, richiede un sacrificio maggiore al contribuente74. Ma soprattutto, sempre nel 2011, il d.l.

201 cd. “Salva Italia” ha introdotto una versione dell’IMU ancora più “aggressiva” rispetto a quella ordinaria, gravante anche sulle abitazioni principali. Quindi, l’istituzione di un’ennesima fonte di prelievo sul valore immobiliare, traducendosi in un di un aggravio addizionale a carico dei possessori di immobili, risulta altamente impopolare, a prescindere da quanto possa essere desiderata l’opera pubblica che si intende realizzare con i proventi dell’imposta.

Indipendentemente dal livello di pressione fiscale gravante sui proprietari di immobili, risulta ad ogni modo critica la dipendenza dell’imposta di scopo dalla disciplina IMU, che peraltro si è rivelata sin da subito provvisoria e altamente instabile. Infatti, l’ISCOP mutua dall’imposta municipale la base imponibile, il presupposto e il soggetto passivo.

74 G. COSTA, L’imposta di scopo riallinea l’imponibile, 25/04/2012, disponibile su

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Non si tratta solo dell’inopportunità di prevedere un “duplicato” di un tributo già esistente: il collegamento dell’ISCOP con l’imposta municipale comporta che ogniqualvolta quest’ultima subisca una modifica, gli effetti si propaghino anche sulla prima. Da qui derivano due implicazioni importanti:

 In primo luogo, è messa in discussione la certezza delle risorse, in quanto risulta impossibile effettuare una previsione a lungo termine del gettito del tributo di scopo, anzi, può ben accadere che esso si riduca di misura tale da non essere più sufficiente per coprire i costi dell’intervento pubblico. Infatti, la disciplina dell’imposta municipale viene emendata per rispondere a obiettivi che nulla hanno a che vedere con il fabbisogno economico necessario a realizzare le opere pubbliche; questo perché naturalmente essa non nasce come tributo di scopo, ma come mezzo di copertura universale delle spese pubbliche locali. Quindi, qualora intervenisse una riforma fiscale che comporta una riduzione del gettito standard dell’IMU, in mancanza di risorse sufficienti, e data l’impossibilità di far ricorso all’indebitamento, si corre il rischio di paralizzare totalmente la realizzazione dell’opera.

 In secondo luogo, i difetti ascrivibili all’imposta municipale si trasmettono anche al tributo di scopo, mettendo seriamente a rischio l’efficienza dei meccanismi di finanza locale. E, come si è visto nel capitolo precedente, sono numerose le pecche dell’IMU, prima fra tutte la previsione di un’esenzione totale dal pagamento sulle abitazioni principali. Considerando che dal 2016 la medesima agevolazione è applicata anche alla TASI, si può facilmente profilare la situazione di un contribuente, proprietario di seconda casa in un comune con ISCOP in cui non risiede, che non corrisponde alcun tributo al proprio comune di residenza, ma ben tre imposte a favore di un comune della cui attività amministrativa non si serve minimamente. Considerando poi che l’ISCOP, a differenza di una generica imposta sul valore degli immobili, rappresenta un modello tributario per sua natura ispirato al principio del beneficio, imporne la corresponsione a un soggetto non residente appare indiscutibilmente contradditorio.

Un altro freno all’introduzione dell’imposta va rintracciato nel suo obbligo di restituzione in caso di mancato avvio dell’opera entro due anni dalla data prevista per l’avvio

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dell’esecuzione del progetto. Si tratta di una condizione apposta per garantire che le risorse prelevate siano effettivamente impiegate per le specifiche finalità annunciate nel regolamento comunale dell’imposta di scopo, ma che tuttavia rende significativamente rischioso il ricorso al tributo, soprattutto alla luce dell’esistenza di vincoli che impongono

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