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Paola Manfredonia

Giudice del Tribunale per i Minorenni di Roma, Ministero della Giustizia, Roma

Principi generali processo penale minorile

Il DPR 448/1988, istitutivo del processo penale minorile, ha una finalità prevalentemente educativa del soggetto, autore di reati, il quale, poiché minorenne, presenta una personalità non ancora strutturata e in evoluzione. Si ritiene, infatti, che la commissione di un reato da parte di un soggetto minore di età costituisca una sorta di inciampo nel corso del proprio cammino educativo e di crescita. Il processo penale minorile non è pertanto lo strumento giurisdizionale volto esclusivamente all’accertamento di un fatto previsto dalla legge come reato addebitabile ad un soggetto minorenne e alla applicazione della eventuale condanna, ma comprende una serie di istituti concepiti in modo da assicurare una rapida fuoriuscita del minore dal circuito penale e a garantire un avvio o una ripresa del percorso educativo che la commissione del reato ha interrotto. È dunque strutturato ben al di là della stessa funzione rieducativa della pena già sancita dall’art. 27 comma III della Costituzione: “le pene…devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il fine educativo, nell’ambito del quale si colloca anche una funzione responsabilizzante del minore, deve esplicarsi, infatti, non soltanto attraverso la definizione del processo e, in caso di condanna, la conseguente applicazione della pena (come per i soggetti maggiorenni), ma anche durante tutto il corso del procedimento e anche a prescindere dall’applicazione di una pena. Pertanto, per realizzare tale fine educativo, cui si affianca anche una finalità protettiva (cfr art. 31 comma 2 Costituzione) del minore dal processo penale, è previsto (art. 1 comma II DPR 448/1988) che il giudice illustri all’imputato il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza nonché il contenuto e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni; che il genitore sia messo in grado di partecipare al processo, attraverso la notifica, a pena di nullità, dell’informazione di garanzia e del decreto di fissazione dell’udienza (art. 7 DPR 448/1988); che l’assistenza affettiva e psicologica all’imputato minorenne sia assicurata in ogni fase e grado del procedimento dalla presenza dei genitori o di altra persona idonea indicata dal minorenne e ammessa dall’autorità giudiziaria che procede. In ogni caso, è assicurata l’assistenza dei servizi minorili centrali e locali (art. 12 DPR 448/1988).

Sono previste particolari forme processuali che devono favorire l’indagine sulla personalità del minore, ma anche evitare che la partecipazione al processo penale ne turbi la psiche, facendo anzi sì che essa possa risolversi in un momento di educazione per il minore.

Le peculiarità, dunque del processo penale minorile si sostanziano in una spiccata esigenza di proporzione rispetto alla effettiva entità oggettiva e soggettiva del reato e nell’utilizzo dell’impianto procedurale come occasione di intervento educativo che possa favorire lo sviluppo della personalità dell’autore del reato. Tali peculiarità possono riassumersi nel principio di individualizzazione che ha come indispensabile corollario quello della conoscenza del soggetto sottoposto a procedimento penale.

L’art. 9 DPR 448/1988 (Accertamenti sulla personalità del minorenne), considerato il cardine dell’intero processo minorile, è espressione di questa esigenza cognitiva tenuto conto che la commissione di un reato da parte di un soggetto minorenne può essere espressione di una problematica multifattoriale cui deve accompagnarsi una valutazione multidisciplinare e multidimensionale.

È proprio la preminenza della funzione educativa che necessita di tali indagini allo scopo di accertare la capacità di intendere e di volere e di individuare la risposta più adeguata alle difficoltà personali e familiari del minore manifestatesi attraverso la commissione del fatto reato e di adottare eventuali provvedimenti civili. Tali indagini, dunque, devono essere espletate in una prospettiva sia strutturale che dinamica.

La funzione altresì protettiva dall’impatto con il circuito penale, ma anche responsabilizzante per il minore autore del reato, rendono ulteriormente fondamentali tali indagini. Lo strumento privilegiato per lo svolgimento di tali indagini è costituito dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e dai servizi di assistenza dipendenti dagli enti locali.

L’art. 9 prevede altresì che il p.m. e il giudice possano sentire il parere di esperti anche senza alcuna formalità. Tali esperti possono essere costituiti dagli operatori dei servizi specialistici delle aziende sanitarie locali, i quali non assumono, tuttavia, il rango di consulenti/periti con conseguente esclusione dell’applicazione della disciplina del codice di procedura penale ordinario (1-3).

Intervento del Giudice delle Indagini Preliminari

Misure cautelari

Le esigenze e le finalità sopra menzionate possono accompagnarsi a finalità terapeutiche e/o preventive quando il minore, entrato nel circuito penale, presenti problematiche personali, determinanti per la commissione del reato, che evidenziano anche specifiche necessità di tutela e di cura.

Nella prassi applicativa, tali problematiche possono emergere nel momento in cui il minore, sottoposto ad arresto e/ o a fermo, condotto in Centro di Prima Accoglienza (CPA), evidenzi disagi con necessità di interventi terapeutici.

A seconda dei casi e, ricorrendo i presupposti di legge, il giudice può svolgere una funzione rafforzativa degli interventi necessari a fornire al minore supporti terapeutici.

In particolare, il Giudice delle Indagini Preliminari (GIP), nella fase delle indagini preliminari, sempre che vi sia richiesta del Pubblico Ministero (PM) di applicazione di misura cautelare, può, nell’ambito della misura inserire indicazioni per la cura e la tendenziale riabilitazione del minore anche sotto il profilo della salute psico-fisica.

Nel contenuto delle misure cautelari previste dal DPR 448/1988, fondate sui principi di specialità, tassatività, facoltatività e assoluta residualità della custodia cautelare in carcere, possono essere inserite indicazioni che possono riguardare l’inizio di un trattamento di cura ovvero la prosecuzione di un trattamento già in atto o interrotto.

Tali misure sono le prescrizioni, la permanenza in casa, il collocamento in comunità e la custodia cautelare in carcere; le prime tre possono essere applicate solo quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. La custodia cautelare può essere applicata quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a nove anni.

Nell’ambito della misura delle prescrizioni, in caso di minori assuntori di sostanze stupefacenti, è inserita la prescrizione di astenersi dall’uso di sostanze stupefacenti e di

intraprendere o di riprendere, a seconda dei casi, idoneo percorso al Servizio Dipendenze (SER.D). Tale prescrizione non può considerarsi terapeutica in senso stretto rispondendo maggiormente ad una finalità educativa; spesso è applicata nei casi in cui agli atti non risulti ancora effettuata una diagnosi relativa ad una dipendenza patologica del minore dalle sostanze stupefacenti. Ha una durata di due mesi dall’emissione del provvedimento e può costituire una utile piattaforma dalla quale avviare un percorso terapeutico particolareggiato. Qualora ricorrano esigenze probatorie, il giudice può disporre la rinnovazione delle prescrizioni per non più di una volta.

Anche nell’ambito della misura della permanenza in casa, possono essere concesse autorizzazioni ad allontanarsi dalla abitazione qualora sia necessario per l’inizio o la continuazione di terapie già in atto.

A livello intermedio tra la permanenza in casa e la custodia cautelare in carcere si colloca il collocamento in comunità, la quale è strutturata, di norma, come comunità di tipo educativo e viene applicata specie nei casi in cui l’assenza e/o l’inidoneità del nucleo familiare di appartenenza del minore non consenta l’applicazione e l’esecuzione di una misura gradata. Tale misura viene in considerazione anche quando i reati siano stati commessi all’interno dell’abitazione e ai danni dei familiari del minore.

Il minore che presenti problematiche gravi e una personalità violenta con concreto rischio di agiti etero e autoaggressivi, che verosimilmente necessitano di cure sanitarie può, durante il tempo necessario per l’espletamento della diagnosi a cura dei servizi sanitari regionali, essere inserito in una comunità di tipo educativo in attesa di essere trasferito in una comunità terapeutica. In tali casi, il GIP, nell’applicare la misura del collocamento in comunità, autorizza il collocamento temporaneo in una comunità di tipo educativo, qualora vi sia una assoluta indisponibilità di idonea comunità terapeutica e per un tempo limitato in attesa della diagnosi. A tale proposito, è indispensabile che i servizi sanitari procedano con rapidità, tenuto conto della scadenza dei termini di durata della misura in atto, il cui termine decorre dal momento del fermo e/o dell’arresto del minore ovvero dalla esecuzione della misura cautelare, qualora la stessa sia stata applicata al di fuori delle ipotesi di flagranza.

Si noti che per il caso tipico del minore indagato per maltrattamenti in famiglia che debba essere inserito in comunità terapeutica il termine di fase è di quarantacinque giorni per l’infradiciottenne e di trenta giorni per l’infrasedicenne, salvo richiesta da parte del PM di procedere con rito immediato nel qual caso i termini ridecorrono e sono rispettivamente di e di . È dunque indispensabile la tempestività dell’intervento dei servizi oltre che necessaria la collaborazione del minore e dei suoi familiari, ove presenti.

Il GIP minorile, nello scegliere la misura da applicare dovrà bilanciare non soltanto le ragioni cautelari e quelle educative, ma anche quelle derivanti da necessità terapeutiche delle quali abbia avuto conoscenza in ragione delle funzioni svolte.

Disposta la misura cautelare, il minore è affidato ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia individuati nei servizi sociali facenti parte dei centri per la giustizia minorile affinché gli stessi svolgano, in collaborazione con i servizi di assistenza istituiti dagli enti locali, attività di sostegno e controllo per tutta la durata della misura cautelare.

È importante ribadire che per potere applicare la misura cautelare è indispensabile che sia stato commesso un fatto previsto dalla legge come reato, per il quale, in questa fase, sono sufficienti i gravi indizi di colpevolezza e che questo fatto sia addebitabile al minore, sempre che vi sia richiesta del PM. In nessun caso il GIP può d’ufficio applicare le misure cautelari.

Pertanto, anche in presenza di un minore con problematiche psicopatologiche e/o psichiatriche e/o dipendenze patologiche gravi, conosciute nell’ambito processuale, l’intervento giurisdizionale penale deve rispettare i limiti imposti dalla legge e non può essere in nessun caso attuato al di

fuori di essi. Non può dunque essere applicata una misura cautelare al solo fine di avviare e/o riprendere un percorso terapeutico, pur in concreto necessario e urgente.

Le esigenze terapeutiche sono di norma evidenziate al GIP nella relazione scritta che gli operatori del CPA redigono nei tempi, molto brevi, di permanenza del minore all’interno del CPA in caso di arresto o di fermo.

Ulteriore documentazione può essere depositata dal difensore qualora il minore abbia una storia pregressa di necessità di terapia derivante da problematiche psicologiche, psichiatriche e/o derivante da dipendenze patologiche. Talvolta, i genitori o il tutore, se presenti in udienza, forniscono ulteriori informazioni e documentazione ad integrazione di quanto gli operatori del CPA abbiano già raccolto.

È frequente, specie nei casi di minori con problematiche personali ictu oculi evidenti, riscontrare la piena collaborazione sia dei genitori che degli stessi difensori con l’Autorità Giudiziaria che procede nel senso che raramente vi sono opposizioni o reclami contro l’ordinanza applicativa della misura, pur avendo il minore e il suo difensore il diritto di farlo.

Se l’esigenza terapeutica non è ancora delineata in quanto manca una diagnosi ovvero la stessa debba essere aggiornata, il GIP può applicare la misura e incaricare i servizi sanitari per la valutazione. In tal caso, ferma restando la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari, la misura, se necessario, potrà essere integrata con eventuali modifiche.

Anche in tal caso, però, le eventuali modifiche potranno essere adottate nel rispetto dei limiti di legge. Il rifiuto del minore a seguire le terapie necessarie potrebbe costituire elemento per disporre l’aggravamento della misura cautelare: la questione è molto delicata e la soluzione va individuata a seconda dei casi, specie quando si tratti di violazione attuata nell’ambito della misura del collocamento in comunità e si tratti, pertanto, di decidere se applicare la più grave misura della custodia cautelare in carcere

La esigenza terapeutica, qualora individuata e recepita all’interno di una misura cautelare, segue i termini di durata della misura stabiliti dalla legge che sono quelli previsti dall’art. 303 cpp ridotti della metà se il minore ha compiuto sedici anni e di due terzi se il minore ha un’età inferiore.

Terminata la fase processuale delle indagini preliminari, il controllo sulla misura in atto spetta al Giudice che procede che, a seconda dei casi, sarà il Giudice dell’Udienza Preliminare (GUP) ovvero il Giudice del Dibattimento, entrambi giudici collegiali, dove al componente togato si affianca la componente onoraria dotata di specifiche competenze professionali attinenti alla valutazione della personalità del minore (4).

Intervento del Magistrato di Sorveglianza

Misure di sicurezza.

La misura di sicurezza si applica quando un minorenne, sia infraquattordicenne che ultraquattordicenne, è giudicato socialmente pericoloso. Ciò pone immediatamente una problematica derivante dalla sostanziale differenza tra il sistema del processo penale minorile e il sistema delle misure di sicurezza.

Come già sopra evidenziato, il processo penale minorile è costituito da strumenti aventi una spiccata finalità educativa ed è un “luogo” in cui il minore è al centro di un sistema di servizi deputati al sostegno e al controllo del minore medesimo.

Con riferimento al sistema delle misure di sicurezza, invece, vengono in considerazione categorie pensate per soggetti adulti: soltanto infatti le forme esecutive delle misure di sicurezza

sono espressamente disciplinate dal DPR 448/1988, mentre per tutti gli altri aspetti si applica la normativa prevista per gli adulti che non prevede nessun tipo di valutazione della personalità.

Presupposto per l’applicazione della misura di sicurezza è l’accertamento della pericolosità sociale del soggetto che, al momento della commissione del fatto, era minorenne e che sia valutato pericoloso socialmente al momento in cui deve essere applicata la misura di sicurezza.

L’art. 203 cp definisce la pericolosità sociale quale probabilità che il soggetto, anche non imputabile o punibile, che ha commesso un reato, commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reato: può essere dunque formulato un giudizio probabilistico in merito alla futura reiterazione di condotte criminose. Tale definizione non è applicabile ai minori in quanto il DPR 448/1988 contiene una disciplina più restrittiva sia del concetto di pericolosità sociale che dei presupposti per l’applicazione delle misure di sicurezza.

L’art. 37 II comma DPR 448/1988 prevede infatti una definizione di pericolosità sociale specifica circoscritta soltanto a determinati delitti, commessi con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro la sicurezza collettiva o l’ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalità organizzata.

La ratio di tale ambito applicativo circoscritto è ispirata al principio costituzionale di protezione del minore (art. 31 II comma Cost) e dalle convenzioni internazionali da cui discende l’interesse di contenere i casi in cui si debba intervenire con una limitazione della libertà personale di un soggetto minorenne.

I criteri per l’accertamento della pericolosità sociale del minore sono desumibili dallo stesso art. 37 II comma DPR 448/1988.

In primo luogo occorre che il minore si sia reso responsabile di un delitto: il Giudice procederà a valutarne la pericolosità sociale, nell’accezione ristretta sopra richiamata, considerando le modalità e le circostanze del fatto, la personalità dell’autore ( anche in tal caso, viene in considerazione la relazione ex art. 9 DPR 448/1988 già descritta nei principi generali del processo penale minorile), nonché la gravità del fatto e le condizioni morali e materiali in cui il minore è vissuto.

Il giudizio di pericolosità deve essere attuale, cioè riferibile al momento in cui il giudice ordina l’applicazione della misura di sicurezza. Per questo motivo, si riconosce rilevanza anche ai comportamenti successivi alla consumazione del reato.

Le misure di sicurezza applicabili ai minorenni sono il riformatorio giudiziario, nelle forme del collocamento in comunità, e la libertà vigilata, applicata nelle forme delle prescrizioni o della permanenza in casa, vale a dire nella forma delle misura cautelari sopra esaminate.

Il riformatorio giudiziario può essere applicato solo nei casi in cui il reato consenta l’applicazione della custodia cautelare in carcere.

Si pongono indubbiamente problemi concreti applicativi in quanto la comunità è tipicamente una comunità aperta di tipo educativo. Qualora il minore sia stato giudicato pericoloso socialmente, è evidente che è necessario un collocamento in una comunità di tipo più strutturato e in grado di fornire le terapie anche farmacologiche qualora necessarie.

Perplessità vengono in rilievo per quanto concerne la misura di sicurezza applicata secondo le forme della permanenza in casa soprattutto in quei casi in cui l’ambiente domestico e le difficoltà relazionali con la famiglia di origine hanno costituito un importante fattore determinante sia la devianza del minore sia le problematiche psicopatologiche confluite in comportamenti di dipendenza patologica.

In caso di trasgressione alla esecuzione delle misure di sicurezza del riformatorio giudiziario si applica l’art. 214 cp, norma pensata e prevista per gli adulti, secondo la quale, in caso di inosservanza, ridecorre il periodo minimo di durata della misura stessa, vale a dire un anno. Qualora sia violata la misura della libertà vigilata, può applicarsi la misura più grave del

riformatorio giudiziario, ma solo se il reato per il quale è stata applicata lo consente, altrimenti non sono previste reazioni dell’ordinamento.

Le misure di sicurezza possono essere applicate anche ai minori di quattordici anni, non imputabili e non processabili per presunzione assoluta, purché dichiarati socialmente pericolosi. In concreto, le applicazioni di tale previsione sono assai remote e suscitano ulteriori e maggiori perplessità trattandosi, come detto, di un sistema pensato per gli adulti che porta con sé un indubbio carattere coercitivo e, nel caso di soggetti infraquattordicenni dichiarati socialmente pericolosi, le contraddizioni e le forzature con la finalità educativa sono nettamente prevalenti.

Competente per l’esecuzione delle misure di sicurezza è il magistrato di sorveglianza per i minorenni del luogo dove la misura deve essere eseguita.

Con riguardo alla competenza del magistrato di sorveglianza rilevano sia l’art. 24 disp. att. (come modificato dall’art. 5 comma 1 DL n. 92/2014, conv. con modif. nella Legge 117/2014, il quale dispone che le misure di sicurezza si eseguono secondo la disciplina prevista per i minorenni anche quando costoro abbiano compiuto il diciottesimo anno di età, ma non il venticinquesimo – sempre che non ricorrano ragioni di sicurezza valutate dal giudice – prima dell’inizio o nel corso dell’esecuzione), sia l’art. 3 comma 2 DPR 448/1988, secondo il quale la competenza del magistrato di sorveglianza per i minorenni nei confronti di dell’infradiciottenne autore di reato cessa al compimento del venticinquesimo anno di età.(5-10).

Magistrato di Sorveglianza

Il Magistrato di Sorveglianza (MdS) ha competenza esclusiva su determinati provvedimenti che non richiedono conferma da parte del Tribunale. In particolare, si evidenziano i permessi premio ex art. 30 ter Ordinamento Penitenziario (O.P). n. 354/75, l’espiazione pena presso il domicilio ai sensi della legge n. 199/10 e l’approvazione di provvedimenti di ammissione all’art. 21 O.P. n. 354/75.

In presenza di soggetti che presentino necessità terapeutiche, tali istituti, specie i permessi premio e il lavoro all’esterno possono essere utilizzati anche come basi per potere avviare terapie idonee al di fuori del circuito carcerario in vista della concessione delle misure alternative. In tali casi, le istanze provengono dall’IPM e sono accompagnate dalla relazione dell’equipe socio-educativa e dal parere del direttore dell’IPM medesimo. Spesso sono preventivamente concordati in occasione delle riunioni periodiche del magistrato di sorveglianza in IPM e preceduti dai colloqui con i detenuti. È necessario il parere del PM e sono decisi con decreto in tempo utile per la fruizione del permesso.

Di norma, il primo permesso è di dodici ore e si svolge nelle forme degli arresti domiciliari. Successivamente, in caso positivo, potranno essere via via aumentate le ore con inserimento di eventuali prescrizioni (ad esempio, di prendere contatti conoscitivi con comunità anche di tipo