• Non ci sono risultati.

RUOLO DEL LABORATORIO A SUPPORTO DELLA DIAGNOSI CLINICA

Marcello Chiarotti (a,b), Rosanna Mancinelli (c), Sandro Libianchi (a, d), Rosanna Maria Fidente (c), Luca Palleschi (c), Rosa Draisci (c)

(a) Coordinamento Nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane, Roma

(b) già Dipartimento di Sanità Pubblica, Medicina Legale - Tossicologia Forense, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma

(c) Centro Nazionale sostanze chimiche, prodotti cosmetici e protezione del consumatore, Istituto Superiore di Sanità, Roma

(d)Unità Operativa "Salute penitenziaria", III Casa Circondariale, Complesso Polipenitenziario di

Rebibbia - ASL Roma 2, Roma

Introduzione

La diagnosi di uso, attuale o pregresso, di sostanze psicotrope è un atto medico che spesso si estende all’identificazione e alla valutazione e caratterizzazione di una condizione di dipendenza farmacologica. Patologia complessa che riconosce diversi livelli di gravità nell’uso compulsivo di droghe, talvolta interrotto da fasi più o meno prolungate di astinenza.

L’iter diagnostico si avvale di diversi accertamenti specialistici, tra i quali gli esami chimico tossicologici e biochimici che ne costituiscono indubbiamente elementi essenziali.

Al laboratorio viene richiesto di documentare la presenza di sostanze e dei loro metaboliti nei liquidi biologici e nei tessuti tramite l’identificazione diretta e il dosaggio. Nel caso dell’alcol etilico, sono effettuate inoltre analisi indirette, cioè orientate alla ricerca di marker correlabili ad un comportamento d’abuso, ad esempio mediante la caratterizzazione delle isoforme carboidrato carenti della transferrina (Carbohydrate-Deficient Transferrin, CDT).

La scelta del campione biologico da analizzare è dettata alla necessità di verificare assunzioni di droghe in tempi più o meno recenti e anche molto lontani rispetto al momento dell’accertamento diagnostico. Sangue, saliva, urina, matrici cheratiniche (peli corporei e capelli) costituiscono, come è noto, campioni biologici che offrono un ampio ventaglio di opportunità allo scopo di documentare assunzioni attuali o pregresse. Il loro impiego deve essere quindi coerente con le finalità dell’approccio diagnostico.

Il ruolo del laboratorio è quello di offrire elementi sicuri di valutazione, tramite affidabili processi di analisi chimico tossicologica e biochimica, che sappiano garantire adeguata sensibilità e specificità. L’obiettivo dovrebbe essere raggiunto tramite l’impiego di procedure analitiche in grado di fornire risposte analitiche certe ed esenti, per quanto possibile, da dubbi interpretativi. L’orientamento attuale è quello di prediligere l’identificazione di analiti che diano informazioni univoche in merito alla avvenuta assunzione di sostanze, offrendo in tal modo dati analitici inequivocabili sui quali possa basarsi la successiva valutazione clinica. I risultati di laboratorio, caratterizzati quindi da certezza analitica, debbono infine essere trasmessi al clinico in modo chiaro, fruibile e non suscettibile di considerazioni fuorvianti.

Di seguito vengono indicate le potenzialità analitiche del laboratorio, sottolineando i più attuali aspetti dell’approccio metodologico e le scelte analitiche che consentono di raggiungere elevati livelli di affidabilità diagnostica così come le procedure che possono assicurare la migliore qualità dell’intero processo analitico.

Sussistono infatti possibilità di miglioramento di cui, nonostante il livello di efficienza raggiunto, si avverte l’esigenza a causa di alcune criticità dalle quali possono scaturire perplessità nella interpretazione dei dati di laboratorio.

Metodologia analitica in ausilio della specificità e sensibilità diagnostiche

È importante premettere che, in occasione della richiesta di esami chimico tossicologici, è sempre utile indicare esattamente la finalità diagnostica per la quale tali accertamenti si rendono necessari. Infatti il laboratorio, anche con riferimento a specifici dettati normativi, orienterà le indagini su precisi campioni biologici e nei confronti di specifici analiti.

Con riferimento alla metodologia analitica da impiegare, la sfida è quella di coniugare la massima sensibilità e specificità analitiche con la migliore sensibilità e specificità diagnostiche. Questi termini specificità e sensibilità aggettivati rispettivamente con “analitica” e “diagnostica” sono talvolta confusi, considerati erroneamente equivalenti e a volte viene fatto loro riferimento in modo del tutto improprio. A tale proposito è bene ricordare che con sensibilità analitica si intende la minima quantità di analita rilevabile. Con il termine specificità analitica viene fatto riferimento alla capacità di identificare l’analita senza subire interferenze. Mentre la sensibilità diagnostica indica la capacità che l’analita prescelto possa esprimere od essere correlato direttamente alla assunzione della sostanza. Infine la specificità diagnostica è indicativa del rischio di incorre in risposte cosiddette falsamente positive.

La scelta di tecniche analitiche pur raffinate e affidabili, se condotte su campioni biologici non idonei all’accertamento vanificherà il risultato delle analisi (come ad esempio nel caso della verifica della attualità dell’uso qualora l’esame si avvalga della sola analisi tossicologica dell’urina o peggio dei capelli). Analogamente il ricorso al rilievo di analiti non sufficientemente specifici renderà vano l’impiego di un campione biologico, anche se considerato di scelta (come può avvenire nel caso della identificazione di sostanze d’abuso che sono presenti sulla matrice cheratinica a causa di inquinamento da sovraesposizione). L’impiego di un metodo poco o per nulla sensibile nei confronti di un determinato analita renderà infine nullo qualsiasi accertamento, su qualsiasi matrice, fornendo costantemente un risultato di negatività, determinando quindi l’impossibilità di esprimere diagnosi.

La diagnosi di farmacodipendenza in ambiente penitenziario, con i suoi delicati aspetti connessi al ricorso di misure alternative con possibilità di trattamento e cura maggiormente efficaci, richiede di fatto prevalentemente accertamenti di laboratorio basati sull’esame chimico tossicologico delle matrici cheratiniche (capelli e peli corporei). L’analisi di questo campione biologico offre la possibilità, quantomeno teorica, di documentare condizioni di occasionalità delle assunzioni ovvero della loro significativa ripetizione in tempi anche molto antecedenti il momento dell’accertamento.

Questa tipologia di analisi tossicologica ha riconosciuto molti progressi dopo le prime timide applicazioni in ambito medico legale, alla fine degli anni ‘80, raggiungendo attualmente elevati livelli di affidabilità. Le perplessità e le difficoltà interpretative, in un primo momento prevalentemente connesse alle procedure di estrazione degli analiti dalla matrice cheratinica, sono state quasi del tutto superate e attualmente le metodiche utilizzate sono in grado di preservare integro il pattern metabolico delle sostanze accumulate negli annessi cutanei in seguito alla effettiva assunzione di droghe, farmaci e alcol. Pattern metabolico che può riflettere una accurata rappresentazione della avvenuta assunzione di sostanze, proprio attraverso la traccia costituita dalla presenza dei loro metaboliti nel campione biologico in esame.

La valutazione quantitativa dei dati di laboratorio consente peraltro di stimare la risposta analitica confrontandola con quanto emerge da studi osservazionali che sono stati condotti su soggetti assuntori di alcune droghe (1).

L’interesse scientifico attuale e prevalente, particolarmente nella analisi tossicologica dei capelli, è dunque quello di individuare analiti in grado di migliorare la specificità diagnostica mediante l’identificazione di specifici metaboliti da affiancare al rilievo della sostanza immodificata (2). L’attenzione a questa problematica è da ricondurre alla necessità di evitare difficoltà valutative dovute ad esempio al possibile inquinamento da sovrapposizione, che può portare a confondere una semplice esposizione passiva alle droghe con una reale assunzione attiva di queste sostanze. Situazione particolarmente evidente nel caso di sostanze che vengono fumate o delle quali sono inalati i vapori (3).

È necessario distinguere infatti, tramite l’identificazione dei metaboliti, l’avvenuta assunzione attiva (e quindi il metabolismo) rispetto alla semplice esposizione passiva alla droga ed è pertanto importante non limitare, se possibile, l’analisi chimica alla sola ricerca della sostanza immodificata, ma estenderla a quella dei prodotti del metabolismo, preferendo tra questi quelli che non possono essere confusi con artefatti di laboratorio, perché prodotti ad esempio nel corso del processo analitico. Questi ultimi sono quelli risultanti dalla cosiddetta fase I del metabolismo e in particolare quelli derivanti dai processi di idrolisi. Ad esempio, nell’ambito delle sostanze d’abuso la cocaina viene metabolizzata (tramite enzimi idrolitici, nel corso della fase metabolica

I) e trasformata in benzoilecgonina. La stessa trasformazione può facilmente avvenire però anche in vitro, durante il procedimento analitico in laboratorio, suscitando quindi dubbi interpretativi

nella valutazione dei risultati di laboratorio.

Altre vie metaboliche, come il metabolismo di fase II (coniugazione con acido glucuronico) oppure ancora di fase I, ma relativamente ai processi ossidativi e di idrossilazione, portano al contrario alla formazione di metaboliti che non possono essere prodotti spontaneamente in vitro e quindi rendono molto più affidabile la loro identificazione a fini diagnostici.

Recenti studi sui metaboliti di fase II (coniugazione con acido glucuronico) testimoniano della possibilità di ricorrere al dosaggio di analiti molto più specifici. La loro identificazione in matrice cheratinica è stata proposta per gli oppioidi (4) e anche per il principio attivo dei derivati della

Cannabis, il tetraidrocannabinolo (5). Analogamente, per i metaboliti di fase I, ma relativi alla

idrossilazione e/o ossidazione, l’attenzione è stata posta alla identificazione e al dosaggio del metabolita acido del tetraidrocannabinolo (6) e del suo idrossi derivato (7). Inoltre, sempre per quanto attiene al metabolismo di fase I (idrossilazione), per la cocaina è stata proposta la ricerca dei derivati idrossilati della cocaina (8) riuscendo a garantire quindi per questa sostanza d’abuso risultati molto più specifici rispetto alla analisi della sola benzoilecgonina.

Il dosaggio di questi analiti comporta l’indubbio vantaggio dell’aumento della sensibilità e della specificità diagnostiche, ottenendosi l’identificazione nei reperti biologici di prodotti del metabolismo esclusivamente riconducibili al metabolismo in vivo della sostanza d’abuso. I risultati analitici non sono quindi influenzabili da possibili fenomeni di contaminazione passiva, artefatti di laboratorio e altro.

La ricerca e il dosaggio dei metaboliti dopo coniugazione con l’acido glucuronico ha consentito anche di utilizzare l’analisi dei capelli per il dosaggio dell’etil glucuronide (EtG), cioè del metabolita di fase II dell’alcol etilico (9, 10) permettendo di documentare direttamente mediante l’analisi della matrice cheratinica l’avvenuto abuso di alcol etilico, tramite il dosaggio di un suo specifico metabolita l’EtG. Ciò permette di ovviare ad alcune problematiche connesse alla dimostrazione indiretta dell’abuso alcolico tramite biomarker, come può avvenire ad esempio effettuando il dosaggio degli esteri etilici degli acidi grassi (Fatty Acid Ethyl Esters, FAEE), per i quali sono stati evidenziati alcuni problemi interpretativi, ancora una volta correlati alla possibile contaminazione passiva (11).

È noto che l’abuso di sostanze riconosce spesso un poli-abuso e recentemente la diffusa reperibilità nel marcato clandestino delle cosiddette Nuove Sostanze Psicotrope (NPS) ha stimolato i ricercatori a verificarne la rilevabilità anche nelle matrici cheratiniche (12), nonché di intraprendere studi per valutare le principali vie metaboliche, peraltro in taluni casi non note (13), al fine di ottimizzare gli strumenti di indagine e migliorare ulteriormente la sensibilità e specificità degli accertamenti.

Da questi pochi esempi si evince come le potenzialità della moderna chimica analitica applicata agli esami tossicologici permetta l’espletamento di accertamenti di laboratorio estremamente validi e affidabili, i cui risultati sono caratterizzati elevata specificità e sensibilità.

È tuttavia da evitare il rischio che tale affidabilità consenta di riversare, mediante una sorta di correlazione univoca, la risposta delle analisi di laboratorio direttamente nell’esito diagnostico finale, omettendo qualsiasi successiva considerazione e valutazione di altri congruenti parametri clinici.

Considerazioni cronologiche con la presunta assoluta certezza di evidenziare periodi di abuso e fasi di astinenza, nonché il riferimento ad una esatta datazione delle assunzioni, richiedono una doverosa prudenza. Alcuni studi hanno dimostrato dei limiti nelle valutazioni cronologiche, testimoniando ad esempio del perdurare della presenza della cocaina nei capelli, per lungo tempo dopo l’interruzione di ripetute assunzioni (14).

L’errato trasferimento diretto del dato di laboratorio nella valutazione di una condizione di alterazione comportamentale, in assenza di una valutazione clinica, oltre a quanto detto per il contesto cronologico, può indurre a considerare il risultato delle analisi (in modo particolare quelle su matrice pilifera) come una precisa indicazione, in funzione delle quantità rilevata, di uno stato tossicodipendenza. Purtroppo ciò talvolta si verifica, addirittura con il riferimento preciso, all’interno della risposta fornita dal laboratorio, a livelli più o meno gravi della patologia. Questo è decisamente da evitare ed esula dal ruolo che il laboratorio può svolgere in questo contesto diagnostico.

Perplessità permangono inoltre nell’equiparare l’esito qualitativo e quantitativo di accertamenti di laboratorio espletati su differenti tipologie di annessi cutanei, cioè ottenute nel caso di prelievi di peli da diversi distretti corporei. È infatti condizione frequente in ambito penitenziario che, nella impossibilità di prelevare per le analisi un campione di capelli della lunghezza di 2-3 cm, vengano utilizzati i peli corporei (ascellari o pubici). In questo caso, sebbene i meccanismi alla base della incorporazione delle sostanze all’interno della matrice cheratinica siano gli sostanzialmente gli stessi (con maggiore consistenza per il trasporto passivo) sussistono evidenti difficoltà interpretative con sovrastima e/o sottostima relativa, dovute anche alla differenza tra le velocità di accrescimento e delle fasi anagen, catagen e talogen (che esprimono le fasi vitali di nascita, crescita e caduta) tra le matrici pilifere.

Infine, constatando la necessità di ricorrere allo sviluppo di metodiche analitiche complesse, spesso basate sull’impiego di tecniche ifenate quali la cromatografia in fase liquida o gassosa abbinata alla spettrometria di massa, oppure la spettrometria di massa tandem, il laboratorio si trova nella condizione di sviluppare proprie metodiche di indagine. È di conseguenza necessario che queste metodiche siano sottoposte ad un processo di validazione prima di essere impiegate in diagnostica. Cioè debbono essere caratterizzati e resi noti i limiti di rilevabilità e di quantificazione, la ripetibilità, la riproducibilità, l’accuratezza e il recupero, nonché, ove possibile, l’incertezza di misura.

Affidabilità e garanzia di qualità dei risultati analitici, accreditamento dei laboratori

Al fine di garantire l’affidabilità dei risultati analitici prodotti a seguito di accertamenti di laboratorio, espletati su matrici biologiche complesse (come gli annessi cutanei, con particolare riferimento ai peli corporei e i capelli) e orientati alla identificazione e al dosaggio di diverse tipologie di analiti, quali ad esempio droghe, farmaci e loro metaboliti, appare evidente come la

performance analitica e la qualità complessiva del laboratorio costituiscano elementi

irrinunciabili per l’ottenimento di parametri diagnostici attendibili, fruibili ed efficaci e che abbiano anche una valenza di prova legale in considerazione del contesto particolare nel quale la diagnosi di uso/misuso/abuso di sostanze viene ad essere richiesta nell’ambito della medicina penitenziaria.

In primo luogo è opportuno ricordare che le fasi che costituiscono la richiesta di accertamento, la consegna del materiale biologico, la sua suddivisione in aliquote, i procedimenti analitici e la trasmissione finale dei risultati analitici, rappresentano processi che dovrebbero essere adeguatamente documentati mediante la cosiddetta “catena di custodia” che consente di definire, tramite traccia fisica od elettronica, di tutti i soggetti che hanno manipolato il campione includendo l’eventuale movimentazione o smaltimento secondo le normative vigenti.

Certamente il riferimento a linee guida di laboratorio nazionali e internazionali (linee guida in tema di analisi tossicologica delle sostanze d’abuso emanate da: Gruppo Tossicologi Forensi Italiani, Istituto Superiore di Sanità, The International Association of Forensic Toxicologists, Society of Hair Testing, ecc.) offre un valido supporto per quanto attiene alle fasi pre-analitiche (raccolta del campione biologico, suddivisione in aliquote, conservazione, catena di custodia), analitiche (metodo di prova adottato e parametri di identificazione e dosaggio quantitativo) e post analitiche (produzione del rapporto di prova e relativa validazione). In tale ambito l’attestazione di conformità a norme internazionali (International Organization for Standardization, ISO) in materia di requisiti per la qualità e competenza dei laboratori di prova e dei laboratori medici, da parte di organizzazioni esterne e indipendenti, assicura una completa garanzia di qualità del dato analitico prodotto dal laboratorio che indubbiamente costituisce l’elemento più caratterizzante dell’intero iter diagnostico.

L’accreditamento dei laboratori di analisi è quindi uno strumento auspicabile al fine di documentare, tramite il riconoscimento formale da parte di una organizzazione esterna, la competenza tecnica e organizzativa nell’eseguire una prestazione specifica, quale appunto è la ricerca chimico tossicologica di sostanze e di marker biochimici di uso/abuso farmacologico, in conformità a quanto indicato da specifici standard internazionalmente riconosciuti.

Questo strumento rafforza di fatto la fiducia delle parti interessate circa la capacità del laboratorio nel rispondere con un elevato livello di affidabilità alle richieste di accertamento.

Nello specifico i modelli organizzativi per l’accreditamento dei cosiddetti “laboratori di prova” oppure dei “laboratori clinici” è costituito rispettivamente dalle norme UNI CEI IEN ISO/IEC 17025:2018 (15) e UNI EN ISO 15189:2013 (16). Tali norme, costituendo lo standard di riferimento per i laboratori che intendono conformarsi ai requisiti specifici applicabili alla loro attività, sono focalizzate al raggiungimento delle aspettative di coloro che fanno richiesta di prove (nel caso specifico analisi chimico tossicologiche) fornendo gli strumenti normativi per monitorare, migliorare o mantenere efficaci i loro servizi. La politica e gli obiettivi dell’organizzazione, i processi, le procedure e le registrazioni sono inoltre gli strumenti operativi per il controllo del sistema di gestione.

Elemento centrale del processo di accreditamento è quindi l’organismo di accreditamento che, essendo indipendente e rappresentativo di tutte le parti interessate, garantisce la competenza dei

laboratori, attraverso verifiche tecniche periodiche, delle prove accreditate. In Italia tale funzione è assolta da Accredia, l’ente unico nazionale di accreditamento designato dal 22 dicembre 2009 dal governo italiano ad attestare la competenza, l’indipendenza e l’imparzialità dei laboratori di prova. Con Accredia, l’Italia si è adeguata al Regolamento comunitario n. 765 del 2008 (17), che fissa le regole sull’esercizio dell’accreditamento in tutti i Paesi dell’Unione Europea. Accredia svolge un’attività di interesse pubblico a garanzia delle istituzioni, delle imprese e dei consumatori. L’Ente è membro dei network comunitari e internazionali di accreditamento (EA,

European co-operation for Accreditation; IAF, International Accreditation Forum; e ILAC, International Laboratory Accreditation Cooperation) ed è firmatario dei relativi accordi di mutuo

riconoscimento, in virtù dei quali le prove di laboratorio e le certificazioni degli organismi accreditati da Accredia sono riconosciute e accettate in Europa e nel mondo. Tale ente, operando secondo la norma UNI CEI EN ISO/IEC 17011:2018 (18), verifica e sorveglia nel tempo la conformità dei laboratori sia alla norma ISO 17025, che specifica i requisiti generali per la competenza ad effettuare prove e/o tarature (incluso il campionamento), utilizzando metodi normalizzati, metodi non normalizzati e metodi sviluppati dai singoli laboratori, sia alla norma di riferimento per il sistema di gestione della qualità dei laboratori medici, la ISO 15189, che specifica in particolare i requisiti riguardanti la qualità e la competenza dei laboratori di analisi cliniche e biomediche. Infatti pur essendo ormai da tempo consolidato il riferimento alla norma UNI EN ISO 9001:2015 (19)nell’ambito sanitario e quindi nei laboratori medici al fine di garantire un adeguato standard organizzativo, la ISO 15189 è prescrive criteri ulteriori rispetto alla ISO 9001, ovvero requisiti di qualità più specifici per il laboratorio.

Sostanzialmente la ISO 15189 può essere considerata analoga alla ISO 17025 nella declinazione per le strutture sanitarie e quindi per i laboratori di analisi cliniche. Entrambe valutano la competenza del personale, dell’organizzazione e l’adeguatezza delle risorse e delle strutture, mentre la più diffusa ISO 9001 non entra nel merito delle competenze della struttura e, coprendo solo parzialmente l’intero processo legato alle attività di un laboratorio, è meno specifica per i processi relativi alle attività di analisi, risultando carente nello sviluppo delle modalità di gestione dei requisiti tecnici. Inoltre l’applicazione della ISO 15189 assicura gli utenti, al pari della ISO 17025, su aspetti rilevanti per il laboratorio quali la precisione, l’affidabilità e la riferibilità dei risultati, la loro incertezza e quindi, più in generale, l’assicurazione della qualità dei risultati analitici.

Da notare inoltre che, per quanto attiene alla presentazione dei risultati delle analisi, la norma 15189 prevede l’indicazione nella “refertazione”, quando appropriato, degli intervalli biologici di riferimento, al fine di favorire una rapida individuazione del superamento di soglie di normalità. Appare evidente che, nel caso di accertamenti mirati alla individuazione di sostanze d’abuso e dei loro metaboliti, tale indicazione non sia appropriata poiché non esistono intervalli biologici di riferimento per la presenza di droghe e/o alcol etilico nei liquidi biologici e nei tessuti di un individuo che non sia esposto a queste sostanze.

Tutto questo riconduce all’importanza di ciò che viene riferito e consegnato al clinico al termine delle analisi, nella “risposta” che il laboratorio produce all’utente. In questo caso, indipendentemente dall’adesione o meno a standard di qualità, è comunque auspicabile che siano chiaramente indicati, la tipologia del campione biologico esaminato, i risultati degli esami in termini qualitativi e quantitativi, con l’indicazione dettagliata di tutte le sostanze identificate i loro metaboliti, le metodiche analitiche che sono state utilizzate, il limite di rilevabilità (Limit Of

Detection, LOD) e il limite di quantificazione (Limit Of Quantification, LOQ). Infatti, trattandosi

di processi analitici attualmente non standardizzati e spesso basati su metodiche sviluppate e validate all’interno dei singoli laboratori, i parametri analitici LOD e LOQ rivestono un ruolo particolarmente rilevante, in quanto possono assumere valori notevolmente differenti tra i laboratori preposti alle analisi chimico tossicologiche.

Una importante indicazione che viene fornita in occasione della comunicazione dell’esito delle