Autopresentazione
Rambaldi: la mia storia Caritas va dal ’76 al 2004. Nel
’76 nel Friuli terremotato sono stato volontario, poi ho fatto il servizio civile, subito collegato con Caritas, in par-ticolare con la Caritas diocesana di Udine, quindi un’espe-rienza in una Caritas diocesana di dimensione media, prima in fase di piena emergenza, poi in versione “quasi normale” dopo un quinquennio dal sisma.
In quegli anni ho conosciuto Caritas Italiana e, du-rante gli incontri di coordinamento dei gemellaggi, mol-tissime altre Caritas diocesane. Poi l’83 l’ho fatto a Roma in Caritas Italiana, avviando l’Ufficio progetti con il Mini-stero degli Affari esteri; in quell’anno ho conosciuto Cari-tas Internationalis e altre CariCari-tas nazionali. Ritorno nella diocesi di origine (Milano) come vicedirettore della Cari-tas Ambrosiana, dall’84 al ’97. A seguire dal 1997 al 2004 di nuovo a Roma in Caritas Italiana, quale vicedirettore sostanzialmente con incarico sull’internazionale. Ovvia-mente molti i rapporti con Caritas diocesane, Caritas Eu-ropa e Caritas Internationalis.
Beccegato: la mia storia in Caritas è: ‘90/’91 obiet-tore di coscienza a Milano, poi dal ’94 al ’95 sono stato messo a disposizione, da Caritas Ambrosiana, al Centro di coordinamento nazionale Caritas in Piemonte dopo l’allu-vione del novembre ’94, quindi, ho fatto un anno di emer-genze nazionali, poi dal ’95 al ’99, avendo come capo Ro-berto, in Caritas Ambrosiana nell’area Mondialità e poi nel ’99 a Roma ininterrottamente fino ad oggi; all’inizio
facevo parte dell’area internazionale, poi sono diventato responsabile di un ufficio che era delle attività traversali e l’ufficio Asia dell’area internazionale, e poi nel 2002 re-sponsabile dell’area internazionale sempre di Caritas Ita-liana, ininterrottamente fino ad oggi. Da 7 anni sono an-che vicedirettore e poi vari interim qua e là e varie rap-presentanze, anche in Caritas Europa e Caritas Internatio-nalis. Questi sono i ruoli principali che ho ricoperto.
Da queste informazioni che ci avete fornito facciamo tre rilanci: il primo sull’importanza delle emergenze sia nella fase istituente della Caritas che negli anni successivi; un secondo rilancio sul servizio civile, cosa ha rappresentato il coinvolgimento di Caritas Italiana rispetto all’obiezione di coscienza prima ed al servizio civile nuovo dopo; e poi se ci raccontate qualcosa sull’ esperienza in Caritas Inter-nationalis.
R.: per quanto concerne il primo “rilancio”: le emer-genze hanno avuto un peso specifico assolutamente im-portante. Lo Statuto, allora nuovo o quasi nuovo, che Paolo VI consegnò a Caritas Italiana prevedeva un man-dato (eccezionale rispetto agli altri bisogni) di intervento sostanzialmente diretto in ambito “emergenze”. Pur-troppo, non sono mancate le occasioni, per esempio Friuli
’76 e Irpinia ’80, ma vorrei citare anche l’accoglienza dei profughi vietnamiti.
È stato importante
• perché la Caritas è “decollata” come organismo noto all’opinione pubblica,
• per la concretezza del servizio reso;
• perché la Caritas (anche nella parte statutaria apparentemente più operativa e meno pedago-gica) ha vissuto questo mandato con ampio ri-svolto promozionale; ne è prova il fatto che tutte queste emergenze (come sempre accaduto salvo eccezioni) per la Caritas sono durate nel lungo termine. La frase che tante volte ci siamo sentiti dire: “tutti se ne vanno, ma voi restate”
se non addirittura “gli altri se ne vanno, voi arri-vate per fermarvi con noi”, è una chiave di let-tura significativa.
Un altro elemento da ricordare è che si è attivata la solidarietà di tante Caritas diocesane e soprattutto delle stesse Chiese locali, che sono state invitate a dar fondo alle proprie risorse umane, alla disponibilità di spazi, di generi di soccorso reperibili in loco.
Quando si fa memoria dell’accoglienza di migliaia di profughi vietnamiti, s’intende ricordare quanti scappa-vano da un paese vittima di una guerra lunghissima. Per l’accoglienza si stilò, nel ’77/’78, una sorta di decalogo che a distanza di 40 anni, secondo me, mantiene pressoché intatta la sua validità. Allora si diceva: attenzione, sono comunque persone, hanno storie diverse, non conoscono la lingua, vengono catapultate qui, bisogna accogliere, ma non cadere nell’assistenzialismo, valorizziamo ciò che sanno fare, ricongiungimenti familiari e così via, tutte cose che negli ultimi 10/20 anni le realtà più avvedute danno per acquisite.
Queste sono, secondo me, alcune delle principali chiavi di lettura del primo punto.
Mi è venuto spontaneo non citare la raccolta dei soldi: è un segno? Intendo: è importante, coi soldi sono stati costruiti i Centri sociali, sono state fatte tante belle cose, però, sicuramente, il valore aggiunto di quella fase storica fu la mobilitazione delle persone, il volontariato organizzato e distribuito sui territori, i famosi gemellaggi, la polivalenza nell’uso dei Centri sociali e così via: tutte esperienze che ancora oggi mantengono la loro validità, ovviamente adattate in contesti diversi, ma che allora fu-rono, tanto faticosamente quanto gioiosamente, speri-mentate nella concretezza giorno dopo giorno.
B.: io dico che tutte le emergenze nazionali e inter-nazionali, mi pare che abbiano fatto fare una sorta di salto in avanti a Caritas Italiana; credo che siano state, nella tragedia degli eventi, un grande scossone, un grande passo in avanti. A partire dal Friuli, che per me è stato il grande momento di coordinamento che ha dato concretezza al lavoro sul terreno, in tutte le emergenze
successive si è colto che tale ruolo di coordinamento non ha la pretesa di essere una regia ma un servizio per evi-tare sovrapposizioni e per favorire sinergie. Sintetica-mente direi che le grandi emergenze nazionali e interna-zionali, mi sembra che abbiano sempre insegnato tanto, pur nella loro drammaticità.
Rispetto alle parole chiave che usava Roberto si po-trebbe dire tantissimo sui gemellaggi, che è una parola importantissima che, in qualche modo, ha dato grande protagonismo alle Caritas diocesane. Certo è un po’ un ossimoro accostare i gemellaggi e il coordinamento, per-ché i gemellaggi rischiano di essere l’istituzionalizzazione dell’anarchia, però il ruolo di coordinamento di Caritas Italiana è stato positivo anche perché ha dato possibilità di decentramento, di valorizzazione di questi gemellaggi…
poi c’è sempre una tensione, non è mai un equilibrio sta-bile, però in questa tensione c’è tanto di buono.
L’altra parola che ha usato cioè il volontariato, certa-mente, si esercita tantissimo volontariato in queste circo-stanze che può essere, in alcuni casi, spontaneo e in altri organizzato, però, anche lì nonostante tutte le difficoltà e le peculiarità diventa una grandissima ricchezza, una grandissima bellezza, molto apprezzato dalle persone che subiscono il disagio. Un’altra cosa strana è vivere questi disastri quando il colpito sei tu, lì è meno facile. Noi siamo molto abituati ad aiutare, è più difficile organizzare l’es-sere aiutati.
Quando sono andato in Piemonte è stato doveroso diventare parte della comunità piemontese e cercare di coordinare dal posto le cose. Si è trattato di dare il giusto spazio “ai vecchi” del posto che ti dicono dove ci stanno le povertà vere, senza cedere allo stress perché si viene inondati di solidarietà. Occorre darsi dei criteri nel distbuire gli aiuti, concedendo spazi anche a sé stessi per ri-posarsi, perché, altrimenti si rischia di essere travolti.
Ecco, questo equilibrio è molto difficile e insegna tanto ed è un equilibrio, anche questo, mai veramente raggiunto.
Ci sono lezioni imparate sia per “coloro che aiutano”, sia “per coloro che sono aiutati”, sul posto; il fatto di va-lorizzare tutto questo volontariato che è anche un volon-tariato, comunque, di apporto dall’esterno che guarda all’uomo nella sua interezza, anima e corpo. Il sostegno spirituale è importante, alcune volte i sacerdoti dicono:
“io cosa posso fare di fronte al lutto o alle domande di senso?”, invece, quanto è importante il supporto spiri-tuale o psicologico di un sacerdote o di un volontariato
“saggio”, non solo operativo, non solo che spala il fango, ma uno che sta lì con le persone. Mi ricordo i famosi deu-midificatori: ci si metteva nelle case delle persone con questi cosi che sparavano aria calda sui muri per togliere le muffe, ecc. e si chiacchierava con le persone ore e ore
e il nostro scopo era stare con le persone, fargli buttar fuori il dolore, tutta la sofferenza, quindi un volontariato veramente molto umano, molto caldo, molto semplice e non solo quello che dà l’aiuto concreto e basta.
Ci sono tante cose belle che vengono fuori nelle emergenze, insegnano tanto, anche a organizzarsi bene nei vari ruoli che devono essere tenuti presenti, quindi, l’organizzazione. Poi ci sono le motivazioni e le compe-tenze, servono tutte e due, servono le motivazioni, lo stile, la delicatezza del rapporto con l’altro, ma anche le competenze, l’efficienza e l’efficacia
R.: rispetto al secondo punto, propongo riflessioni sugli anni 70/80, quindi una fase storica in cui dapprima l’obiezione di coscienza non era riconosciuta, poi le prime leggi hanno permesso l’avvio degli obiettori in ser-vizio civile.
Ricordiamo la scelta coraggiosa dei nostri cosiddetti
“padri fondatori”, perché allora il pensiero dominante non supportava o addirittura non conosceva l’obiezione di coscienza; la si riteneva contro la tradizione, il dovere della difesa della Patria ecc.
Il coraggio di proporre con decisione e fermezza que-sta scelta, promuovendola anche in consessi ecclesiali ex-tra-Caritas, quali il Convegno Ecclesiale nazionale “Evan-gelizzazione e Promozione Umana” del 1975, che la rico-nobbe come opzione “preferenziale”.
Fu un passaggio importante; all’inizio solo i più at-tenti al tema della pace, poi alcune Caritas diocesane, prima in maniera un po’ tiepida, poi con fermezza e deci-sone, hanno proposto ai giovani di valutare questa op-zione nella libertà di coscienza.
Da lì è nato un insieme di risposte che ha toccato le migliaia di unità per tanto tempo e Caritas Italiana è stato l’ente con più posti accreditati. Nelle Caritas diocesane e nei vari Centri operativi, diverse centinaia di giovani hanno optato per questa scelta, travasando sui servizi ter-ritoriali innanzitutto un servizio opportuno, utile e impor-tante, ma anche un pensiero, un modo di vivere la propria disponibilità alla costruzione di un mondo di pace.
Non vorrei limitare la riflessione sull’obiezione e il servizio civile agli aspetti operativi, di cui non nego l’im-portanza, né sui numeri, anch’essi assolutamente signifi-cativi, ma ricordo la valenza culturale nella società e pro-positiva nella chiesa.
In alcune diocesi è stato anche faticoso “convincere”
le Caritas a optare per questa scelta, che poi ha avuto al-cuni limiti che non vanno né negati né nascosti. Una pro-posta di servizio civile e obiezione di coscienza seria e ben
fatta, era accompagnata da un rigoroso percorso forma-tivo che, adesso, è o dovrebbe essere la chiave distintiva del servizio civile, ancor di più, proprio su tutti i temi:
pace, nonviolenza, giustizia, partecipazione, attenzione ai valori, convivenza nella società, costruzione di una so-cietà diversa più giusta e più equilibrata. Sono temi dav-vero importanti, che hanno costruito cultura. Ricordo che molti obiettori hanno fatto scelte di vita significative nei contesti più diversi in Italia o nel mondo, nella politica o nel sociale, nella chiesa o nella cooperazione o in altri am-biti ancora: davvero un’iniezione di cambiamento
B.: su questo non ho molto da aggiungere, c’è il va-lore pedagogico dell’esperienza che vale sempre, la carità segna e trasforma prima di tutto chi la fa e questo non è scontato, perché deve essere, comunque, preparata, ci deve essere formazione e non si devono buttare le per-sone a fare della carità in modo scomposto, perché può essere anche controproducente, può rafforzare dei pre-giudizi.
Però dentro un progetto, effettivamente, penso siano stati tanti anni in cui abbiano dato l’opportunità di pensare ad alcuni valori, in particolar modo, partendo dal tema dell’obiezione di coscienza, quindi, la nonviolenza e, quindi, la pace e tutti i temi collegati. L’unica cosa è che, col nuovo servizio civile, questa cosa rischia di essere meno presente, meno evidente, forse prevale la dimen-sione del servizio e meno quella dell’obiezione di co-scienza, per cui, anche nella formazione che facciamo adesso e, comunque, quando s’incontrano questi giovani, a parte che son cambiate le generazioni, quindi, effettiva-mente, sono molto diversi da noi, però, al di là di quello, forse come limite o, quantomeno, come sfida aperta ab-biamo quella di tenere alta la dimensione dell’obiezione di coscienza perché rischia di sfumare.
R.: terzo punto. Una premessa da porre è per Caritas che non stiamo parlando di una piramide: parrocchia, fo-rania o vicaria, diocesi, delegazione regionale, nazionale, Europa, mondo. C’è un senso in questa piramide, ma qualsiasi operatore Caritas serio deve sempre tener pre-sente che, dal punto di vista ecclesiologico, stiamo par-lando di livelli che hanno dei mandati e delle storie ben diversi.
In Italia le Caritas nelle diocesi sono state volute, fon-date e avviate con un chiaro mandato di promozione, sup-porto, accompagnamento, coordinamento, studio e for-mazione.
A livello, invece, europeo e internazionale il mandato è diverso, nel senso che le storie di questi due livelli, a loro volta, sono molto eterogeni nella genesi e nello sviluppo.
Sono due contesti in cui ho sempre creduto e conti-nuo a credere; ovviamente, ancora una volta ci sono li-miti e fatiche dati dalle distanze, dalle differenze, da una serie di altre cose, però la Chiesa universale, anche at-traverso Caritas, è riuscita, ormai da tempo, a darsi dei luoghi di incontro, confronto, promozione di iniziative comuni, condivisione, aiuto reciproco, accompagna-mento su temi importanti, quali la cosiddetta “pedago-gia degli ultimi”, la prevalenza dell’opzione per i poveri, il ruolo della carità nel percorso ecclesiale e così via. Non è poco, stiamo parlando di numeri importanti, di mem-bri della Federazione espressione delle rispettive Confe-renze episcopali nazionali.
Anche in questo caso non vanno negate le tante fati-che e soprattutto le differenze: basti pensare alla dimen-sione che ha la Caritas in Germania, enorme per come è impostata e per la propria storia rispetto alle nuove Cari-tas dei paesi dell’est europeo.
La tipicità di Caritas Italiana è stata che ha tentato di vivere le coerenze della prevalente funzione pedagogica anche in questo scenario; è stato faticoso, perché alcuni colleghi erano e sono eccellenti operatori umanitari, or-ganizzatori di grandissimi progetti, budget, accessi ai fondi europei, però con limitata sensibilità pastorale.
L’accompagnamento delle Caritas sorelle dei paesi più poveri è stato certamente una particolarità di Caritas Ita-liana, che ha dato un’attenzione prioritaria all’accompa-gnamento, alla presenza concreta ma discreta “a fianco”
della chiesa sorella, da accostare in punta di piedi e cer-cando di capire umilmente la situazione e le prospettive.
B.: io partirei dal nostro Statuto, quindi, la novità di Caritas Italiana nel ’71, il fatto che ci sia un’attenzione in-ternazionale nello Statuto, che noi, poi, sinteticamente, abbiamo tradotto in tre dimensioni: una dimensione di una carità aperta al mondo che, a volte, chiamiamo mon-dialità; una carità che sa cogliere le interconnessioni dei fenomeni, che va alle cause dei fenomeni; le responsabi-lità nostre, anche, sulle povertà che stanno dall’altro capo del mondo.
Quindi, la prima dimensione è quella dell’educazione alla mondialità; la seconda è la tutela dei diritti, sempre nello Statuto passa una logica di studi, ricerche, di lobby, advocacy a livello internazionale, che abbiamo tradotto con tutta una serie di ricerche che andavano a documen-tare ingiustizie, diseguaglianze e anche denunce fatte in
coordinamento con Caritas Europa o Caritas Internazio-nale che hanno anche degli uffici di rappresentanza presso l’Ue, l’Onu e così via; la terza dimensione che è quella della solidarietà internazionale, che vale nell’emer-genza, ma vale anche nello sviluppo.
Noi abbiamo sempre avuto, addirittura, pare, prima ancora che nascesse Caritas Italiana, i microprogetti di sviluppo e dentro lì ci stanno, appunto, tutti i rapporti, an-che con le cosiddette chiese sorelle, e quel tema, fortis-simo, dell’accompagnamento delle chiese sorelle dove non è che siamo noi ad accompagnare loro, ma è un con-tinuo scambio nell’imparare gli uni dagli altri. Questo, più o meno, è lo Statuto, che di fatto si è esercitato nei primi anni e poi in alcuni momenti particolari, soprattutto, quando ci sono state delle grandi emergenze a livello in-ternazionale e, anche lì, che hanno portato con sé dei ge-mellaggi anche all’estero, ecco, dentro lì c’è stata quella che Roberto diceva la dimensione pedagogica, anche nel fare questo.
Si potrebbe dire tanto in proposito, ma cito solo un aneddoto: andando all’estero una volta ero in Myanmar e il direttore della Caritas del posto mi ha fatto questa do-manda: “quali sono le vostre priorità?” perché al di là delle risorse economiche, che sono sempre importanti, c’è an-che questa cosa qua, molte Caritas, molte realtà del mondo, vanno all’estero avendo già definito a priori quelle che sono le proprie priorità, uno dice: “io intervengo nel settore agricolo”… “io intervengo nel settore sanitario”…
“io intervengo con queste modalità”… e, quindi, portando con sé quello che Roberto diceva prima e cioè un approccio che “impone” o quantomeno predefinisce a priori certe li-nee… io mi ricordo la faccia di quest’uomo quando gli ho detto: “non abbiamo priorità, le nostre priorità sono le vo-stre priorità, dimmi tu quello che è priorità qui e noi faremo di tutto per venirti incontro”.
Questo atteggiamento che è ecclesiale, di ascolto che ce l’abbiamo nel Dna, però è qualcosa in cui veramente cre-diamo profondamente, ancora oggi, e cerchiamo, in qual-che modo, di tenere ben presente, perché il rischio, invece, verso cui essere trascinati è quello, appunto, dell’effi-cienza, dell’efficacia, pensare alle priorità, alla rendiconta-zione, la cosiddetta Caritas “formato excel”.
Nell’intervento all’estero è necessario questo conti-nuo dialogo con le chiese locali per micro-progetti, ma-cro-progetti, sviluppo, emergenza, per la continuità nel lavoro che abbiamo giorno e notte con tutti gli angoli del mondo che ci portano ad avere contatti e che è bellissimo.
Ora, vorrei introdurre una cosa a cui ho accennato prima, cioè il concetto di tensione: è un equilibrio che è conti-nuamente in tensione. In Caritas abbiamo delle continue tensioni, che sono positive perché se sei trascinato solo
da una dimensione diventi settoriale, diventi parziale. La Caritas è un qualcosa di rotondo, un lavoro a 360°, soprat-tutto per come è concepita Caritas in Italia, una prima tensione è fra nazionale e internazionale, io penso che ci sia sempre questa cosa, la positività sta nel fatto che ci siano entrambe e tutte e due trascinino un po’ il tutto.
Pensate alle quattro tensioni di Evangelii Gaudium: il tempo è superiore allo spazio, ma ci sono tutte e due e tirano; la realtà è superiore all’idea, uno deve avere un’idea, ma il papa dice che la realtà sia superiore all’idea, quindi, quando c’è questa tensione fatti trascinare più dalla realtà che dall’idea; il tutto è superiore alla parte;
l’unità è superiore al conflitto. Ecco queste quattro ten-sioni noi ce le abbiamo dentro al nostro lavoro. Faccio un esempio, c’è da fare il Convegno nazionale, c’è da sce-gliere i relatori, io ogni volta devo battermi per averne al-meno uno che non sia italiano, uno che esprima quell’umiltà del dire che noi dobbiamo imparare qualcosa che venga dal di fuori dei nostri confini, quel minimo di umiltà, a volte siamo riusciti ad infilare dentro solo una testimonianza, perché una relazione era troppo e ancora oggi far capire che tutta la teologia, la pastorale, la socio-logia non si esaurisce in Italia è difficile, è una tensione costante, cioè noi non andiamo solo ad aiutarli, ma an-diamo anche a imparare.
l’unità è superiore al conflitto. Ecco queste quattro ten-sioni noi ce le abbiamo dentro al nostro lavoro. Faccio un esempio, c’è da fare il Convegno nazionale, c’è da sce-gliere i relatori, io ogni volta devo battermi per averne al-meno uno che non sia italiano, uno che esprima quell’umiltà del dire che noi dobbiamo imparare qualcosa che venga dal di fuori dei nostri confini, quel minimo di umiltà, a volte siamo riusciti ad infilare dentro solo una testimonianza, perché una relazione era troppo e ancora oggi far capire che tutta la teologia, la pastorale, la socio-logia non si esaurisce in Italia è difficile, è una tensione costante, cioè noi non andiamo solo ad aiutarli, ma an-diamo anche a imparare.