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Vicedirettore Caritas diocesana di Lamezia Terme

Autopresentazione

Mi chiamo Giacomo Panizza, faccio il prete e ho co-nosciuto la Caritas nel 1974 quando, per i miei studi in Se-minario, stavo preparando una tesi sulla Catechesi alle persone con disabilità intellettiva. Raccoglievo interviste passando da alcuni santuari e strutture ad hoc, tra cui la comunità di Capodarco di Fermo nelle Marche in cui sta-vano iniziando il servizio civile due obiettori di coscienza al servizio militare. Erano i primi 2 dei tanti arrivati in se-guito a Capodarco e dappertutto in Italia, e la Caritas ita-liana era collegata sullo stesso argomento ritenendolo educativo per i giovani.

Tenete presente che la Caritas, con il Presidente don Giovanni Nervo, stava elaborando la tematica che da lì a poco prenderà il nome di “volontariato” e conseguente-mente di “terzo settore”. Un casuale intreccio, che mi ha aperto uno scenario ricco di temi attraenti. Sono nato nel 1947, a quei tempi il servizio militare durava 15 mesi e fine naja io e un amico abbiamo dato indietro il congedo con scritto di non chiamarci più perché non veniamo più.

Con Caritas ci siamo capiti.

I temi dell’obiezione di coscienza al servizio militare, il lancio del volontariato volto ad aprire la soggettualità di un “terzo settore” accanto ai settori dello stato e del mer-cato, e lo sperimentare “buone pratiche” di lavoro sociale contro l’emarginazione, hanno generato in me una sinto-nia con don Giovanni Nervo, che è accresciuta quando è stato incaricato dalla Cei di gestire una parte importante della preparazione, nel 1975, al Convegno nazionale della chiesa Italiana, sul tema Evangelizzazione e Promozione Umana, da celebrare l’anno seguente. A Capodarco, ve-dendomi addentrato in questi rapporti e che mi trovavo bene mi hanno proposto di seguire io queste cose, e l’ho fatto. Insomma, concordavamo che la teologia non è un’altra cosa dai saperi che impari anche dallo stare con la gente incasinata, insieme a coloro che sono pieni di problemi, anche quando non hanno ragione.

Io venivo da un’esperienza di metalmeccanico in fab-brica, dove nel lavoro e negli scontri degli anni 60 con i

carabinieri, con i crumiri, con gli studenti che stavano là a occupare con noi, capivo che avevamo tutti un po’ di ra-gioni e confusioni. Cioè che c’era un intreccio di compli-cazioni per cui per cambiare le cose dovevamo fare acca-dere cose nuove oltre che capire. E lì a Capodarco, ve-dendo persone rassegnate in carrozzina e altre contesta-tarie e altre ancora sofferenti da dolori fisici o esistenziali, capivo che era importante legare con tutti per poter libe-rarsi insieme da quelle condizioni.

Poi, con più libertà, avremmo potuto questionare su tante altre cose. Don Giovanni non era come adesso che c’è il direttore, lui aveva il ruolo di Presidente della Caritas Italiana e aveva diversi spazi di autonomia di scelte. Con lui ho girato più parti d’Italia per fare i pre-Convegni nelle diocesi, spiegare il tema, prendere appunti per scrivere dei documenti da dare per la traccia iniziale del Convegno Nazionale di Evangelizzazione e Promozione Umana. Un pezzo scritto nella comunità di Capodarco è entrato nel documento finale. Ho incontrato così la Caritas, dove in-travedevo una chiesa di vangelo e umanità entrambi spi-rituali e concreti per tutti, anche per le persone che fati-cano a orientarsi e a tirare avanti.

Rispetto a quegli anni, hai detto che la tua sintonia con la Caritas è legata al fatto che percepivi una distanza tra quello che stava succedendo e che era successo nel Paese e la dimensione ecclesiale e la dimensione cristiana, cioè c’era bisogno di riconnettere dei pezzi: è così?

Sì, perché abbiamo fatto delle esperienze belle, per dire, come inventare quello che oggi chiamiamo volonta-riato. Oggi il Terzo settore è formato da tante modalità associative, come le cooperative sociali, le Aps, le imprese sociali e così via … eppure la popolazione in generale e perfino i giornalisti denominano ancora il tutto col ter-mine “volontariato”. Sbagliano, confondono le cose fa-cendo danni, perché l’evoluzione verso il terzo settore, è nato col volontariato promosso dalla Caritas iniziando dalla chiesa, apre anche ai temi del welfare, delle politi-che sociali.

Ho partecipato ai vari incontri programmatici in Cari-tas a Roma, a Napoli, a Sacrofano, a Firenze, Milano. Ab-biamo cominciato un gruppo di “esperti” non nel senso accademico, ma invitando persone del giro della chiesa con le quali abbiamo concordato fin dall’inizio: “non fac-ciamo un volontariato solo come cattolici, ma operiamo in modo che gli italiani capiscano che fare volontariato vuol dire applicare la solidarietà politica, economica e so-ciale scritta nella Costituzione”. Questo era molto impor-tante, e ti dirò che dietro questo eravamo una ventina di persone; c’era don Giovanni, c’era Luciano Tavazza, c’era due assistenti sociali di Milano, c’era chi lavorava al Mini-stero dell’Interno e chi a quello dell’Istruzione, c’era l’ac-cademico Achille Ardigò e nomi che ho citato altrove, io ero il più giovane; eravamo pochi, però c’era il papa già d’accordo su questa operazione laica, umana e non reli-giosa.

Paolo VI aveva previsto di chiudere la POA in Vati-cano come anche le Opere diocesane Assistenza in giro per l’Italia, perciò si “doveva” far nascere le Caritas in ogni diocesi, e possibilmente nelle parrocchie o zone gestibili.

La scommessa era di aggiungere alle cose di chiesa, cioè ai sacramenti e ai catechismi, la trascurata dimensione della carità. C’era la ferma intenzione di umanizzare certe strutture socio assistenziali gestite dalla chiesa molte delle quali, anche per la mentalità del tempo, erano Fon-dazioni e Enti morali gestori di istituti di ricovero totale.

Parlavamo di deistituzionalizzazione, come in paral-lelo il linguaggio di Basaglia, anche se noi ci eravamo arri-vati da un altro giro, “visitando gli ammalati” e vedendoli segregati dalla chiesa stessa. Dialogavamo inoltre con psi-chiatria democratica e altri, leggevamo Goffman e i “mae-stri” notissimi in quegli anni 70. Sapevamo che i primi ne-mici li avremmo incontrati dentro la Chiesa, resistenti a prefigurare e avviare cambiamenti. Perciò, quando parla-vamo di chiudere o dimensionare gli istituti, quando pro-ponevamo l’affido famigliare e le varie alternative ai rico-veri totali, come dell’assistenza familiare e domiciliare, venivamo attaccati da “monsignori” conservatori di me-gastrutture ottocentesche.

Ho vissuto il passaggio in cui la Caritas andava sosti-tuendo l’Oda nelle diocesi in seguito alla chiusura della Poa facendo incontri in varie diocesi e regioni. In questi giri mi impadronivo dell’organizzazione multilivello della Caritas, dal nazionale alla parrocchia attraverso i gradini intermedi e la dimensione internazionale. Non dico le dif-ficoltà di far chiudere gli istituti quando, non di rado, ac-cadeva che il delegato regionale Caritas era proprietario o gestore di quelle strutture! Per dire, anche in Calabria ce n’erano che avevano istituti con bambini e bambine rinchiusi, e mi assalivano. Così altri, come a Serra d’Aiello.

Però io ero direttore della Caritas diocesana di Nica-stro (il vecchio nome di Lamezia Terme), ero appoggiato dal vescovo Palatucci e da don Italo Calabrò che era il di-rettore della Caritas diocesana di Reggio Calabria e Bova, e quando veniva don Giovanni Nervo si zittivano tutti. La chiesa di cui parli tu era scomponibile in due aree: una con persone e gruppi che concepivano gli interventi della Ca-ritas come azioni di beneficienza, e l’altra da persone e gruppi in accordo coi testi di don Giovanni il quale parlava di giustizia, di diritti e doveri, di welfare, parlava della grande dignità umana dei poveri perché grandi li vede Dio...

Io ci vedevo dentro la carità secondo la Caritas, una straordinaria spiritualità. Don Giovanni la metteva anche in politica, mettendo in gioco la sottaciuta dottrina sociale della Chiesa citando spesso una frase del capitolo 8 del documento sull’Apostolato dei Laici del Concilio Vaticano II che stabilisce: “non avvenga che si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia”. Insomma, una bella sfida per i cristiani in politica di sempre.

Proprio rispetto a questi due passaggi, in qualche modo tu sei testimone diretto: sei partito nel ’74, la Caritas è nata nel ’71, perciò hai vissuto questi quasi 50 anni di espe-rienza con la Caritas, al fianco della Caritas, con Capo-darco dentro la vita ecclesiale…

In Calabria abbiamo cominciato la comunità Pro-getto Sud nel ’76 e non c’era la Caritas ma l’Oda che di-stribuiva pacchi del Vaticano su fondi Usa. Il vescovo Fer-dinando Palatucci mi ha accolto, mi ha messo a celebrare le messe in Cattedrale con lui per proteggermi da tante situazioni retrograde su questo tema della giustizia, situa-zioni di mentalità di fuori e di dentro la chiesa stessa. Poi, in accordo con il direttore dell’Oda (che accompagnavo agli incontri a Roma a sentire don Giovanni) nel ’78 ha ac-cettato di far la trasformazione in Caritas diocesana.

Il vescovo gli aveva spiegato che io andavo protetto e l’anziano direttore ha capito di più quando il vescovo ha prestato alla Comunità Progetto Sud alcuni vani del semi-nario come spazi di lavoro insieme alle persone con disa-bilità per poter sbarcare il lunario. Dandoci in uso gratuito il pianoterra del seminario minorile vuoto e chiuso da anni, alcuni preti hanno protestato contro la profana-zione, e il direttore Oda, e vicario episcopale, ci ha difeso.

In seguito ad alcuni incontri romani, si è persuaso che fosse ora di fare la Caritas a Lamezia Terme e nel 1978 il suo ruolo è passato a me, così ho diretto per primo la Ca-ritas diocesana di Lamezia Terme.

Per quanti anni hai fatto il direttore a Lamezia Terme?

Dal 1978 ad oggi ho sempre fatto il direttore o il con-direttore, oppure, come adesso sono vicedirettore. Ci sono stati anche dei religiosi, tutti di passaggio, le loro congregazioni dispongono tempi loro e non quelli della popolazione locale…

In sostanza, se abbiamo capito bene, sei impegnato con la Caritas da prima di diventare prete?

Sì. Due anni e mezzo prima. Ero nel gruppo “voca-zioni adulte”.

L’eredità del Concilio

Hai già toccato alcune cose come il Concilio, l’inserimento della dimensione della carità come componente della vita ecclesiale e come una componente forte, quindi non assi-stenziale ma ecclesiologica e anche il volontariato come impegno per il cambiamento e volontariato politico, come si diceva allora.

Sì, volontariato politico pur senza fare un partito. E la Caritas non è un gruppo caritativo di volontariato ma un ufficio ecclesiale - non i muri ma le persone e i compiti - finalizzato ad aiutare la chiesa intera, la diocesi, la parroc-chia, i movimenti ecclesiali e così via, a darsi da fare a te-stimoniare la carità perché nessuno può sostituire nes-suno a vivere la carità, come a respirare. Sappiamo che è carità dare un bicchiere d’acqua a chi ha sete come rega-lare qualcosa di tuo o dare la vita per gli altri. Puoi aiutare le persone a loro volta a donare e donarsi, o fare che la chiesa si doni alla storia e all’umanità. Tutto è carità, dove corrispondi alla crescita in umanità. Non solo in cristia-nità.

Lo stile Dame della carità o altro, assistenzialistica, va superato. La carità ci supera sempre, non esistono azioni prefissate da ripetere. Fai carità a tu per tu, come fai ca-rità anche senza vedere nessuno, o quando cambi qual-cosa oggi che servirà domani qui o altrove. La carità è di-retta ma anche indidi-retta, “di sponda”. Sì, non è assisten-zialismo, è emozione, economia, cultura e anche politica.

La Caritas porta avanti queste cose perché chi pensa di essere chiesa comprenda che Dio ama i cristiani insieme all’intera umanità. Parola di Gesù!

Mentre parli viene in mente che uno dei capisaldi del Ma-gistero di papa Francesco è l’idea della chiesa in uscita, ma in realtà tu stai dicendo la stessa cosa…

La chiesa inventata da Gesù è tutta in uscita. È inviata dappertutto…

Chiaro, una chiesa in uscita che va incontro alle persone, alle storie, alle contraddizioni, a chi è più in difficoltà. Tu stai raccontando un modo che c’è stato in questi anni, al-lora e poi è continuato, probabilmente, cambiando, modi-ficandosi, adeguandosi ai tempi, di vivere una dimensione di chiesa in uscita. C’è una dimensione ecclesiologica in tutto questo?

Sì, si tratta di far diventare chiesa il vangelo vissuto, e rifletterci sopra è ecclesiologia. Hai presente la parabola del buon samaritano? Gesù è quel samaritano che aiuta un uomo qualsiasi malmenato da briganti e lasciato mezzo morto sulla strada, e Gesù è anche quell’uomo sof-ferente aiutato da un senza Dio. Chi salva chi? La Caritas sperimenta tanti modi di essere e fare chiesa. Viene invi-tata a capire che stile di chiesa va realizzando incarnan-dosi corrispondendo ai tempi e luoghi storici.

Pensiamo a una Caritas in Lombardia, per parlare alla mia origine, la quale opera con certi numeri e certa qua-lità di servizi, e a una Caritas situata in Calabria, dove sto adesso, con meno servizi eccetera: entrambe scommet-teranno differentemente il da farsi. Per essere entrambe chiesa in uscita “devono” dotarsi di differenti progetti pa-storali e svolgere attività differenti. Ognuna con la re-sponsabilità di dare luogo a una chiesa locale non ripeti-tiva ma in uscita, cioè originale.

La Caritas e i grandi temi. La questione della legalità Un pezzo dell’impegno della Caritas di quegli anni fu, come tu peraltro accennavi, legato al tema dell’educa-zione alla pace, dell’obiedell’educa-zione di coscienza e del welfare.

Puoi commentare questo e aggiungere anche la lotta per la legalità?

L’obiezione di coscienza al servizio militare s’era pen-sata come esperienza di educazione alla pace e alla non-violenza e a donare un tempo di servizio alla Patria, alla gente, cominciando dagli ultimi, perché la patria si di-fende ai confini ma anche dentro, didi-fendendo italiani op-pressi da altri italiani o perfino abbandonati dallo stato.

Un tema prioritario della Caritas inoltre è stato quello del welfare da sostenere in modo che sia efficace in tutte le regioni, senza fermare la sussidiarietà che ognuno può agire verso i bisogni del prossimo. È quella cittadinanza che non vuole mettere i cerotti alle dimenticanze dello stato o sanare i danni di politiche sbagliate, ingiuste quando democraticamente si mettono in minoranza i po-veri e i loro diritti: avremmo ospedali, scuole, lavoro e ser-vizi sociali d’oro, e anche al Sud, se i governi avvicendati nei decenni avessero deciso diversamente tante cose; in-vece, come poi è accaduto, specialmente per le possibilità

occupazionali, lo stato non s’è impegnato e ha perfino frapposto ostacoli. Questo anche perché una parte della chiesa ufficiale ostacolava che lo stato potesse mettere a regime l’assistenza facendola funzionare dappertutto.

In Caritas si vedeva chiaramente questo, bisogna dirlo; cioè, quando si ideava e lanciava il volontariato pen-sando in nuce a un futuro ampio terzo settore; l’affido fa-miliare in sé ma anche in alternativa alla istituzionalizza-zione di bambini e adolescenti; i vari servizi di prossimità, ecc.: sentivamo che un conflitto si sarebbe acceso anche dentro la chiesa e non solo nel privato gestore di cliniche e ospedali, Rsa, ecc. C’era, ieri più di oggi, chi pensava che se avesse abbandonato le strutture di assistenza ai poveri, la chiesa si sarebbe ridotta con poco o più nulla da dire.

Il comandamento di Gesù: “che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” veniva equivocato in servizi di beneficenza! Ma è la carità da non far finire mai, non i no-stri ricoveri. Così i diritti umani e il tema del welfare erano sostenuti dalla Caritas, perché tra noi cristiani c’era anche chi diceva che la Chiesa deve portare avanti gli ospedali, gli orfanotrofi, strutture con 1000 ricoverati… Erano mo-dalità con le quali i “nostri” istituti raccoglievano voti, con un partito d’allora ritenuto potere e cultura cristiana, con una croce stampata sullo scudo, ma proprio una cosa in-degna, possibile che si vedeva in pochi?

Veniva sottovalutata l’ingiustizia mimetizzata in ipo-crita beneficenza. Il tema del welfare è legato alla visione di una società giusta e giustizia è la parola più ripetuta nella Bibbia. C’è dietro la Bibbia, non una teoria architet-tata, ma un aspetto teologico, biblico e anche spirituale.

Immagina una persona che pensa solo a sé stessa e a un’altra persona che invece pensa per sé e per gli altri e fa con gli altri: che differenza di spessore umano che c’è!

che differenza cristiana c’è!

Quando si parla di welfare ci sono sempre precisa-zioni da fare. Un conto è anche quando una decisione pe-sante viene presa da una sola persona (mi viene in mente quando don Giovanni Nervo appena rientrato da una mis-sione convocò tutti i direttori delle Caritas diocesane a Roma dove, trattenendo la concitazione, ci raccontò che tre giorni prima stava nell’oceano su una nave militare ita-liana dalla quale si intravvedevano delle zattere dei boat people in difficoltà, che il comandante telefonò a An-dreotti, ministro degli Esteri, il quale ordinò di lasciarli là).

Il welfare è più dei servizi sociali che comprende: è un sistema di società, la cifra di un’umanità che si prende cura di sé. La Caritas perché sta attenta ai poveri? Per fare che cosa? Se l’umanità con le sue istituzioni, o tra vicini, si scollega dagli altri, la chiesa non può stare zitta perché la nostra religione ci vieta simili omissioni, come anche il no-stro essere “umani”. Ricordo quando don Giovanni guidò

mezza dozzina di noi direttori diocesani Caritas a parlare con lo stesso Andreotti divenuto Presidente del Consiglio.

Ci ha accolti cordialmente seppur ci fossimo presentati sotto la sigla “I poveri mandano a dire…”, ci ha dato pure ragione… ma non ha dato avvio a sostenere la lotta alla povertà estrema in Italia.

Sto facendo esempi legati al periodo in cui la Caritas aveva una semi-autonomia nella chiesa, avendo il Presi-dente. In seguito la presidenza Caritas fu affidata a un ve-scovo della Cei, e di scelte così “forti” se ne sono viste meno pur se si sono fatte molte più cose sia nelle diocesi che in Italia e nelle zone di miseria del mondo. Ha aiutato le Chiese dell’Est a prepararsi a entrare in Europa prima che si decidessero i loro stati.

Anche se i nostri cristiani non se ne sono nemmeno accorti, è stato fondamentale costituire la Caritas. Ha fatto esprimere la chiesa con eventi innovativi evangelici.

Tra questi, l’affidare i poveri non tanto alla beneficenza ma al valore del welfare come segno di civiltà umana e non solo cristiana. Non si poteva più parlare di carità in presenza di un welfare della mutua.

Il motto più continuativo assume tre pilastri di eccle-siologia quali l’annuncio della Parola, la preghiera, e la ca-rità. Dà rilievo alla testimonianza della carità come virtù che viene da Dio e non come paragrafo della morale cat-tolica. L’assenza di una sola componente di questa triade è spia di una Chiesa incompleta. La carità sprona ad amare, ad assistere non truffando con l’assistenzialismo.

Infatti è importante analizzare i temi della povertà quanto scegliere concretamente di accogliere i poveri… e perché lo stato - anche volendo - non potrà mai riuscire a fare tutto ciò di cui abbisognano le persone.

E, intanto che lo stato capisca, noi non possiamo ab-bandonare quell’uomo che è stato malmenato e abban-donato sulle strade che scendono da Gerusalemme a Ge-rico. Spesso nemmeno puoi stare alla finestra ad aspet-tare le istituzioni. Dunque qualcuno fa, volontariamente.

Il tema welfare era fondamentale, perché è qualità umana di uno stato, è la cittadinanza di una collettività fraterna e democratica. Il welfare allarga i diritti e anche i

Il tema welfare era fondamentale, perché è qualità umana di uno stato, è la cittadinanza di una collettività fraterna e democratica. Il welfare allarga i diritti e anche i