Per motivi organizzativi sono stati inseriti e accorpati un primo testo scritto da Maria Teresa Tavassi e poi la trascrizione della successiva intervista
La prima riflessione riguarda la conclusione del tuo scritto, la tua riconoscenza nei confronti di mons. Nervo e mons.
Pasini. Abbiamo visto che queste figure hanno lasciato un segno profondo, sia per la Caritas che per la chiesa, ma anche nelle persone che hanno potuto lavorare con loro e che, quindi, hanno avuto modo di conoscerle. Ci piace-rebbe che tu ci dicessi quello che tu ritieni più importante rispetto a Nervo e a Pasini.
La seconda domanda riguarda un passaggio che ritorna sulla parte iniziale del tuo testo, quando racconti che, en-tusiasta del Concilio, sei stata chiamata in Caritas per fare una ricerca e poi hai continuato almeno per una quindi-cina d’anni nell’impegno e nel lavoro. E tu hai seguito an-che l’anno di volontariato sociale. Insomma, tutta una se-rie di eventi che ci sono stati. Siccome tu sei tra le poche donne che intervistiamo, perché non ce ne sono molte, anzi forse sei l’unica, ti chiediamo se puoi approfondire la dimensione femminile dentro l’esperienza della Caritas.
Dentro la tua esperienza, dentro quegli anni, dentro quanto è successo, le tante giovani che oggi sono signore, che magari sono anche nonne, che hanno passato la loro esperienza di formazione con te, con voi, in quegli anni, questa è una componente molto importante che merita di essere presa e sottolineata.
La terza cosa riguarda la dimensione spirituale. Non c’è dubbio che tu hai vissuto professionalmente, come scelta anche di cittadina e come credente, questa dimensione d’impegno. Ma crediamo che tu c’abbia messo anche un tuo cammino spirituale e crediamo che questa sia una cosa importante da condividere.
La prima domanda che mi fate è sulle persone di Nervo e di Pasini. Ho avuto modo di conoscerli molto bene, nel senso che quando sono entrata in Caritas vamo in poche persone. Sono entrata nel ‘75/’76, era-vamo un gruppo molto piccolo, per cui le cose si facevano
sempre insieme, dalla visita ai luoghi del terremoto, agli incontri che facevamo per la Consulta per la Ricerca delle opere assistenziali e caritative, tutto si faceva insieme. In una dimensione molto piccola perché eravamo 4/5 per-sone e questo m’ha aiutato a conoscerli meglio, nella loro semplicità, nella loro povertà e anche nel loro amore per la chiesa e per i poveri.
Credo che questo senso di giustizia che loro avevano me l’hanno trasmesso in modo veramente molto forte e questo mi ha colpito molto, perché mi è piaciuto questo loro modo di essere e per me sono stati, veramente, dei testimoni. Abbiamo fatto tante cose insieme, special-mente nel primo periodo con don Giovanni. Ricordo il la-voro che abbiamo fatto nel Friuli, quello è stato un lala-voro importantissimo, perché eravamo a contatto con queste persone, nelle tende, nelle piccole Parrocchie visitate, an-che nei luoghi più terremotati.
Mi ricordo delle serate insieme con un sacerdote di Laglesie San Leopoldo, in cui si mangiavano pecorino e fave, e con quest’uomo che sotto le macerie, in un luogo pericoloso, continuava a rimanere lì e Nervo e io che sta-vamo ad ascoltarlo, perché erano dei momenti molto belli, ricchi di questa presenza di questo sacerdote anziano.
Altra esperienza che ho fatto con don Giovanni è quella dell’accoglienza dei profughi del sud-est asiatico, perché in alcune zone ci siamo anche incontrati, nei campi profughi della Malesia, della Tailandia per riflettere per scambiarci le opinioni, non ero trattata come una persona appena arrivata, di second’ordine, ma ero trattata come una di loro. Questo mi faceva molto piacere perché mi ha aiutato ad entrare in Caritas e a capire tutta una dimen-sione diversa dell’essere chiesa.
Questo si collega molto col discorso del Concilio, io ho vissuto il primo periodo in una fase di ricerca, sono ar-rivata molto tardi in Caritas, avevo 40 anni, ma ero in una grande ricerca. Non riuscivo a trovare una strada che mi permettesse di vivere la chiesa come la sentivo attraverso il Concilio, per cui aver conosciuto la Caritas che mi pro-poneva gli stessi valori, le stesse idee, l’idea di una chiesa popolo di Dio che camminava insieme, in cui ogni persona aveva i suoi diritti comprese le donne, anche questo è un aspetto che mi ha molto colpito sempre: le donne. Io ero una delle poche donne che lavorava in Caritas Italiana, ero sempre ascoltata come una di loro. Il Concilio ci ha dato tantissimo.
Mi hanno chiamata proprio in un periodo quasi con-ciliare, post concon-ciliare, a svolgere una ricerca sulle Opere caritative assistenziali della chiesa o collegate con la chiesa, anche le opere nuove, i servizi nuovi che nasce-vano e ho accettato questa loro proposta con riserva per-ché volevo essere sicura di farlo con entusiasmo e di farlo bene, poi ad un certo punto, dopo un po' di mesi, ho ac-cettato con gioia, sempre con preoccupazione perché pensavo di non essere all’altezza di un lavoro del genere però poi, poco per volta, ho capito che anche se uno non è all’altezza ci deve diventare, non può vivere tutta la vita a cercare di essere all’altezza per non arrivarci mai.
Il Concilio mi ha dato moltissimo, io avevo parteci-pato a momenti di contestazione giovanile, in quanto in quegli anni frequentavo la scuola di perfezionamento in sociologia e ricerca sociale, avevo partecipato a tutti que-sti movimenti ed ero impegnata nel volontariato, in di-verse forme di volontariato, ero stata nella Comunità di Capodarco, ero stata in diverse esperienze per conoscere queste realtà, quindi, l’idea di conoscerle, anche attra-verso questa ricerca che facevo con la Caritas, mi ha fatto molto piacere.
Uno dei punti fondamentali nel lavoro con la Caritas era che si cercava d’andare a conoscere le persone, quindi anche del volontariato. Non era possibile fare questa ri-cerca di servizi nuovi a tavolino, a tavolino facevo la rifles-sione e mi confrontavo con gli altri, però tutto il resto na-sceva dal mio andare a parlare con le persone, non solo gli operatori, ma anche le persone accolte in questi servizi e questo mi sembrava bello, perché significava mettere allo stesso livello l’operatore e la persona che viveva con fatica, che faceva più fatica ad andare avanti, che non aveva molta voce o addirittura non ne aveva per niente.
Anche questa per me è stata una gioia, dare voce a chi non ne aveva, direi che questo è un aspetto che mi ha
veramente colpito. Un’altra cosa che ho attinto dal Con-cilio e cercavo di vivere è la ricerca di Dio, ma non soltanto nella preghiera e nei rapporti con Dio, ma anche negli av-venimenti, nel terremoto e questo me lo ha insegnato, anche, monsignor Battisti, il quale in una sua relazione aveva parlato del terremoto e del fatto che Dio non viene nel terremoto, ma in una brezza leggera, che stimola la vita.
Poi la ricerca di Dio, anche nelle persone, io pensavo che se noi dimentichiamo le persone, non le ascoltiamo, ci manca un aspetto importante della nostra vita, perché i va-lori li cogliamo dalle persone. Nell’ascolto cresciamo, nell’ascolto di chiunque, questo è un insegnamento che mi è rimasto anche adesso che lavoro in un’associazione di vo-lontariato che abbiamo creato vent’anni fa con le donne immigrate, rifugiate, vittime di tratta, vittime di tortura ecc., anche con loro continuo ad imparare moltissimo.
L’ascolto per me è importante. È accoglienza che, forse, io ho cercato di vivere al femminile, questo me lo diceva anche don Giovanni, diceva che era importante non tanto ascoltare le persone potenti, ma i piccoli, le persone più emarginate e, quindi, quest’ascolto, quest’accoglienza mi sono sembrate delle caratteristiche che io come donna dovevo vivere nel mio lavoro, quindi, nel mio servizio che facevo in Caritas Italiana e nella chiesa ed è quello che mi rimane ancora impresso come dimensione dell’accoglienza, dell’ascolto.
Per quanto riguarda la dimensione spirituale è molto legata con il discorso del Concilio. Il Concilio mi ha fatto capire una cosa che già provavo in me e cioè che dovevo cercare Dio non soltanto nella preghiera, ma nella storia, negli avvenimenti e nelle persone. In tutta la giornata non è che io ho dei momenti che separo la mia vita dal mo-mento spirituale, ma cerco di vivere ogni momo-mento come tale.
Due anni fa ho deciso d’andare ad Auschwitz, che era un’esperienza pesante e l’ho fatta e sono riuscita ad uscirne e anche a ricevere qualcosa. Lo desideravo da tutta la vita, questo è stato per me un percorso spirituale.
Ecco in Caritas Italiana io ho capito che a quarant’anni po-tevo vivere una dimensione diversa della vita, anche una dimensione spirituale della vita, infatti mi sono consa-crata, l’ho vissuto molto tardi, però sempre in questo modo per cui non esisteva una dimensione separata tra vita e fede, per me era un unicum.
La Caritas mi ha aiutato a vivere in questo modo, quindi io ringrazio la Caritas che mi ha aiutato nella mia formazione spirituale e nel mio percorso spirituale. Nervo
e Pasini, principalmente, ma poi tanti altri che ho incon-trato nei campi della Malesia e della Tailandia, i bambini che ho conosciuto anche lì, le famiglie italiane che veni-vano a presentare la loro disponibilità di alloggio e di la-voro per accogliere questi profughi, in tutto questo io ho ricevuto moltissimo.
A quarant’anni per me c’è stata la svolta. Quando nel
’76 nel convegno di Evangelizzazione e Promozione umana si parlò di un anno da proporre anche alle ragazze, siccome l’obiezione di coscienza era proposto agli uomini col servizio civile alternativo, così s’era proposto di fare una cosa simile per le ragazze e in quest’impegno mi ci son buttata con molto entusiasmo e ho trovato rispon-denza in varie ragazze. Anche qui, ho cercato di viverlo gi-rando per le diocesi, andando a conoscere questi piccoli gruppi e ho imparato da loro, anche, la sobrietà. Le ra-gazze giovani che per un anno lasciavano tutto, perché vi-vevano insieme, lasciavano la famiglia, gli studi e tutto per vivere insieme un’esperienza diversa, a servizio degli altri, dei poveri, anche questo m’è sembrato una cosa impor-tante.
E vivendo con loro, due, cinque, sette giorni questa esperienza così forte, ho cercato di seguirla per alcuni anni e poi ho pensato che era giusto lasciarla a sé stessa con altre persone perché, poi, era bene che qualcuno più giovane continuasse, non ero più adatta. Avevo già rice-vuto molto e avevo dato quello che potevo, quindi ho pensato di andare in altri luoghi. Una cosa che è stata, per me, bellissima nell’esperienza della Caritas è stata l’acco-glienza dei profughi. L’esperienza più bella che ho vissuto.
Attraverso il tuo lavoro sei entrata in contatto con tante congregazioni Religiose. Questa ricerca che stiamo svol-gendo, oltre ad essere un lavoro con particolare interesse sul contributo della Caritas al welfare, è una ricerca sul contributo del welfare religioso cattolico al welfare ita-liano. Se ci potessi dire anche qualcosa sul tuo rapporto con le congregazioni Religiose, in particolare quelle fem-minili, e sull’apporto che tu hai visto che queste congrega-zioni danno al welfare italiano, sarebbe una cosa bella.
Il lavoro con le congregazioni religiose l’ho comin-ciato perché volevamo trovare i cambiamenti nelle con-gregazioni. Poi questo rapporto l’ho vissuto molto nel pe-riodo del terremoto del Friuli, perché allora monsignor Nervo fece un appello alle congregazioni religiose perché potessero mettere a disposizione, non tanto la congrega-zione, ma principalmente una o due persone che potes-sero vivere insieme ad altre religiose, di altre congrega-zioni, nelle tende, nei luoghi di assembramento delle per-sone terremotate e questa era una cosa fuori dal comune,
perché chiedeva a delle congregazioni di uscire dalla co-munità e di entrare in un’altra dimensione, di entrare in una dimensione dove c’erano molti più pericoli se la vo-gliamo vedere in questo modo, dove stavano, magari, in una tenda insieme a tante persone: uomini, donne, bam-bini perché era questa la realtà, oppure nelle roulotte.
Le congregazioni religiose risposero con molto entu-siasmo, forse un po' timorose all’inizio, ma poi, man mano che si andava avanti con l’esperienza, ne coglievano la ric-chezza perché queste persone acquisivano un modo di conoscere la realtà e la gente che era diversa dallo star chiusi in una struttura, perché anche quelle che lavora-vano nella scuola o in altri servizi con le persone anziane ecc. erano sempre loro e le persone anziane, invece qui anche l’essere insieme in una realtà intercongregazionale e stare insieme a persone laiche le aiutava ad un senso di maggiore ascolto.
Credo che questo abbia dato molto alla società ita-liana, perché la società italiana da quest’esperienza co-glieva anche una novità, novità relativa anche a servizi che potevano essere molto più piccoli, molto più all’altezza dei bisogni umani, questo era il periodo delle prime espe-rienze delle case famiglia ecc. e, quindi, anche questo es-sere insieme alla gente poteva aiutare a cambiare, a riflet-tere.
Quando le persone ritornavano nella congregazione loro non erano più le stesse e chiedevano, anche, che l’Istituto cambiasse. Ma anche la società era cambiata, perché loro erano stati a contatto con i servizi sociali del territorio, perché si lavorava in sinergia, quindi, anche i servizi sociali del territorio avevano capito che potevano collaborare molto di più con piccole congregazioni e pic-cole comunità, che i loro servizi potevano essere anche domiciliari.
Ecco, che tutto poteva cambiare in base a quest’esperienza che avevano fatto. Quello che si diceva sempre con Nervo e Pasini era la Pedagogia dei fatti, la quale insegna molto di più dello studio teorico. Lo studio teorico aiuta a riflettere su quello che la Pedagogia dei Fatti porta avanti, poi è chiaro che ci vogliano tutte e due le cose. Quindi, il metodo della Caritas è quello di fare tutto concretamente e poi di riflettere, di ripensare per-ché anche questo aiuta.
La ricerca che avevamo fatto era sui servizi socio-ca-ritativi di tipo tradizionale, però poi avevamo fatto un’ul-tima parte di questo lavoro dedicato ad una indagine, pi-lota forse, sui servizi di tipo innovativo: dai gruppi di vo-lontariato, alle piccole comunità religiose, al lavoro in luo-ghi di emergenza, ecco queste piccole realtà.
Torniamo su questa dimensione della vita religiosa. Hai detto che ha contribuito a quanto voi avete rilevato dal punto di vista delle indagini e hai evidenziato un atteggia-mento di grande capacità e di grande volontà di Nervo, tua e di tutto il gruppo dal punto di vista del capire come accompagnare le varie componenti della chiesa a fare i conti coi tempi nuovi. Cioè, l’invito alle suore di andare a stare per qualche tempo nelle tende dei terremotati svela una sua coerenza nello stile Caritas di affrontare le emer-genze. Ma qui sembra che ci fosse quest’intelligenza nell’accompagnare la chiesa in un cammino di rinnova-mento. È corretto? E poi dicci qualcosa di più se te la senti e se vuoi.
Secondo me, è corretto perché era quello che il Con-cilio ci dava. Il ConCon-cilio ci dava questi spunti, si parlava dei segni dei tempi e per Nervo, Pasini e per tutti gli operatori della Caritas era fondamentale cercare di vedere delle piccole luci che, poi, potevano andare avanti e accompa-gnare in quella direzione.
Questo per me era fondamentale, soltanto accorger-sene, il lavoro più difficile era il capirlo, coglierlo. E poi ca-pire come muoversi con piccoli passi, in modo da non tur-bare troppo. Anche qui, non turtur-bare, ma scuotere perché non ci sono stati momenti facili per la Caritas. Accompa-gnare il cambiamento, in certi momenti, è molto difficile perché vuol dire fare dei passi un pochino più grandi, però bisogna avere la pazienza. Ecco, una delle caratteristiche di Nervo è che aveva la pazienza di aspettare, mettersi un po' indietro per spingere verso questo cambiamento.
Il Concilio ci ha portato a questo, se la chiesa era po-polo di Dio in cammino non poteva essere soltanto la ge-rarchia o soltanto alcuni che decidevano per altri, biso-gnava che si ascoltasse anche la gente. Questo lo si faceva attraverso gli avvenimenti, ecco perché dico che il terre-moto, l’accoglienza dei profughi, l’anno di volontariato sociale erano degli spunti che ci venivano dalla società, però bisognava: coglierli, portarli avanti e costruire un percorso, perché altrimenti non andavano avanti da soli.
Nervo è andato, perfino, nel progetto del Governo per l’accoglienza dei profughi nelle navi e ha proposto alla chiesa di fare dei passi avanti per lavorare in questo senso.
Viene in mente il ruolo di legittimazione delle esperienze ecclesiali marginali, molto periferiche, ad esempio il Cnca, e sorge la domanda se lo spazio di cittadinanza nella chiesa per molte di queste realtà sia stato garantito pro-prio dalla Caritas. Molte realtà erano marginali, vivevano la dimensione ecclesiale, vivevano la preghiera, l’Eucare-stia, l’accoglienza ecc., ma nessuno gli andava a chiedere
al Prete o ai cristiani che cosa avessero da dire per la chiesa locale, mentre la Caritas ha creato questo spazio di accoglienza e, quindi, di valorizzazione di queste dimen-sioni ecclesiali.
Sì, certo. Anche gli incontri che facevamo come vo-lontariato, lì si comprendeva tutti. Mi ricordo il convegno di Napoli o gli altri convegni che sono stati fatti sul volon-tariato hanno accolto tante realtà, piccole e grandi e di-verse. Molte erano portate avanti da un sacerdote, però erano laiche. Il gruppo Abele per esempio, un’esperienza di quel genere è meravigliosa, va avanti da anni, sta fa-cendo servizi molto belli. Presentare e portare avanti que-ste esperienze per la Caritas è stato un lavoro paziente e continuo.
È la valorizzazione della chiesa in uscita ed è quello su cui insiste papa Francesco: lo sporcarsi le mani col mondo, non avere l’obiettivo di essere perfetti, ma di essere nel mondo.
Pasini era molto in sintonia con papa Francesco.
Quella telefonata che papa Francesco gli fece prima di morire l’aveva commosso tanto. Gli aveva riconosciuto un suo ruolo nella chiesa mentre, invece, in tanti momenti poteva sembrare che nella chiesa non si capisse.
Papa Francesco. Tu che hai vissuto dal Concilio ad oggi (ci hai detto che eri una cristiana in ricerca a partire dal Con-cilio, quindi puoi raccontarci la parabola della chiesa ita-liana in questi anni dal tuo punto di vista), come vedi oggi papa Francesco? E che rapporto c’è? Siccome a giugno la Caritas andrà ad udienza con papa Francesco, tu cosa di-resti a papa Francesco?
Gli direi che la sua chiesa in uscita è quella che ho sempre sperato e che ho sempre vissuto, per cui mi trovo in sintonia con lui. Anche nei suoi documenti, sto leg-gendo adesso “Fratelli Tutti”, io gli direi proprio questo che condivido tanto i suoi documenti, condivido il suo modo di proporsi come chiesa in uscita e di non stancarsi
Gli direi che la sua chiesa in uscita è quella che ho sempre sperato e che ho sempre vissuto, per cui mi trovo in sintonia con lui. Anche nei suoi documenti, sto leg-gendo adesso “Fratelli Tutti”, io gli direi proprio questo che condivido tanto i suoi documenti, condivido il suo modo di proporsi come chiesa in uscita e di non stancarsi