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Dettaglio delle prestazioni erogate dai Centri Salute Mentale (%)

5.2.8 Il ruolo dell’economia sociale no profit

In una situazione caratterizzata da diffuse sofferenze economico-strutturali (deficit, tagli orizzontali, precariato, povertà, disabilità) è facilmente comprensibile come il quadro istituzionale (Stato, Regioni, Enti locali) debba essere supportato anche da individui e strutture (volontariato e terzo settore) che coprano le “carenze politico-amministrative” con un’attività di solidarietà sociale, gratuita o a basso costo. Il volontariato è rivolto verso le “grandi solitudini”: gli anziani, gli ammalati, i portatori di handicap, i giovani estranei alla società.

“L’Economia sociale è parte dell’economia di mercato eco-sociale e del mercato unico europeo e sottolinea la sua elevata capacità di resistenza alle crisi e la solidità dei suoi modelli commerciali; sottolinea che le imprese sociali cercano spesso di rispondere a necessità sociali che non sono tenute presenti – o lo sono soltanto in modo inadeguato – dagli operatori economici e dallo Stato; sottolinea che i posti di lavoro

nel settore dell’economia sociale avranno tendenza ad essere mantenuti a livello locale” (Parlamento Europeo, Risoluzione del 20 novembre 2012)”. L’Economia sociale in Europa ha come obiettivo principale non quello di generare utili per i suoi proprietari o azionisti, ma di avere un impatto sociale, destinando i propri utili principalmente alla realizzazione di obiettivi sociali. Questo settore comprende le associazioni, il volontariato, le cooperative e le imprese sociali, le mutue, le fondazioni (tutte no profit organization). L’economia sociale è, quindi, guidata da “imprenditori sociali” in modo responsabile, trasparente e innovativo, con il coinvolgimento dei dipendenti, degli utenti e degli attori interessati alle sue attività economiche. Nel 2010, questo settore registrava oltre 14 milioni di posti di lavoro nei 27 stati UE, il 6,53% del totale, con un aumento nel biennio 2009-10 (rispetto ai dati del 2002-3) del 26,3% (CESE-CIRIEC 2012)

Secondo l’U.E., l’economia sociale è, perciò, un fattore importante per la ripresa europea e la sua azione deve essere misurata anche economicamente.

Nel nostro Paese, l’ultima rilevazione completa, che fotografa la situazione del non profit, è stata effettuata dall’Istat nel 1999, mentre il nuovo censimento del non profit è attualmente in corso e i risultati sono previsti per la fine del 2014. Essa indicava un universo di circa 230.000 associazioni censite, che muovono risorse per 38 milioni di euro, grazie all’apporto di 4 milioni di persone, di cui oltre 3 milioni di volontari (CNEL-Istat 2008). Il formidabile rapporto costi-benefici che il volontariato comporta è certificato dall’Istat attraverso l’indicatore sociale VIVA (Volunteer Investment and Value Audit), che misura la redditività e il ritorno economico per l’impiego di personale volontario: a ogni euro speso per i volontari corrisponde un ritorno economico pari a 12 euro. L’universo non profit ha continuato a espandersi negli ultimi anni, attraversando con risultati positivi gli anni più duri della crisi, come due dati sintetici possono testimoniare: al 31 dicembre 2008, le cooperative sociali attive risultano oltre le 14 mila (erano appena 327 nel 1992), e hanno continuato a incrementare i posti del lavoro anche nei primi anni di crisi, uno dei rari segnali di crescita nel panorama economico italiano. Infine, la lista pre-censuaria (settembre 2012) redatta dall’Istat per il Censimento delle Istituzioni non profit, attualmente in corso, conta più di 474.000 organizzazioni, un dato più che raddoppiato nell’ultimo decennio, anche se non ancora confermato.

Il volontariato è una “forza sociale di cambiamento” (a Napoli, nel 1976, si è riunita la prima assemblea di 140 gruppi) a disposizione della comunità – soprattutto delle componenti più deboli – gratuitamente. La Costituzione (art.3,c.2, artt.13-21), la legge quadro sul volontariato (266/1991) e le norme successive (es: art.45 della legge 833/78; la sentenza n° 75/92 della Corte Costituzionale) hanno identificato il volontariato come modello di cittadinanza e come forza sociale in grado di: essere solidale con “gli ultimi”; essere vicina ai più poveri (13% della popolazione; 8,5 milioni in Italia); educare la gente a una serie di valori come solidarietà, gratuità dell’azione, formazione; fare lobby verso la politica, per aiutare “i deboli” a uscire dalla povertà e dalla dipendenza.

I volontari sono espressione della “communitas”; per loro c’è la doverosità del dono, associata alla gratuità del dovere. Il volontariato esprime un modo d’essere delle persone nei rapporti sociali (individualismo versus collettività); è lievito per il cambiamento; è riduzione degli “spazi vuoti, lasciati da Stato e parastato”, occupati, ora, dalla azione libera e gratuita di chi vuole “includere gli esclusi”132.

L’azione del volontariato e del terzo settore sono e saranno fondamentali per favorire la ripresa. La Commissione e il Parlamento europeo hanno indicato una possibile proposta, vagliando un pacchetto di misure e di provvedimenti per le imprese sociali e per la lotta contro la povertà.

132

In tempi di spending review e di debiti sovrani gli attuali sistemi di welfare state tutelano sempre meno le classi più deboli, che pur avrebbero dovuto supportare, ma recenti studi sulle prestazioni di assistenza sociale dimostrano, ad esempio, che il complesso fisco- welfare italiano è una matassa confusa e incoerente che assiste anche chi non avrebbe bisogno e si dimentica di chi è veramente povero. Il modello di crescita coniugata con la solidarietà resta però un tratto importante e irrinunciabile della nostra identità che l’Europa ha faticosamente guadagnato in secoli di civilizzazione. La domanda scottante è come mantenerne i fondamenti di fronte a cambiamenti strutturali che vanno dalla globalizzazione, alla crisi economica, alla cessione di sovranità nazionale a favore dell’Unione Europea, all’invecchiamento della popolazione, alla maggiore fragilità del sistema famiglia.

In questa dimensione vanno introdotti alcuni concetti: esiste un progresso tecnologico e un progresso

sociale, con un suo capitale (il capitale sociale) relazionale e valoriale (solidarietà, fiducia, cooperazione,

universalità, sussidiarietà). In questa dimensione, la persona deve essere vista come “motore per risolvere i bisogni133” e la sussidiarietà come metodo, in cui la persona (libera e creativa) e i corpi sociali intermedi agiscono per ottenere “il cambiamento”.

Per le ACLI, oggi, il welfare italiano è “insufficiente, inefficiente, inefficace, iniquo” e necessita di un nuovo assetto e non di una cura palliativa. In assenza di una riforma, la non-autosufficienza esploderà, la dispersione scolastica aumenterà, la povertà farà danni. Oggi si è ridotta la coesione sociale, perché il sistema non valorizza le persone, non tutela i più deboli e non combatte la povertà assoluta. Il welfare, oggi, “non è una conquista scontata”, così come “sussidiarietà” non significa necessariamente minor peso dello Stato nel sociale133.

Il welfare non ridistribuisce reddito ma è motore di sviluppo. In questa visione, la sussidiarietà

diviene una prospettiva, che lega economia e sociale. Qualcuno ha definito l’attuale welfare come un “ welfare universalistico a protezione variabile”134, fatto di ticket per tamponare i costi del sistema. La sussidiarietà circolare non è più sufficiente, in tempi di crisi: essa deve aprirsi a nuovi attori e a nuovi servizi, perché sono cambiati i bisogni e le domande della gente, ossia della società civile, sintesi di azioni e di libertà individuali. La solidarietà sociale esemplifica la tendenza a ridurre l’interferenza dello Stato, a favore della società.

Si tende a fare una distinzione tra imprese “sociali no profit” (cooperative sociali e simili) e “imprese profit” (con aspetti sociali): entrambe producono beni e servizi, in una economia/mercato sociale.

Il welfare può anche essere considerato come il “nodo cruciale dell’occidente”135, un nodo

esemplificabile in quattro aspetti, con peso diverso a seconda che si attribuisca un ruolo fondamentale o marginale alla sussidiarietà.

Essi sono:

a. il nodo etico, ossia l’assenza di gerarchia tra le istituzioni. Il welfare non ha padroni/enti dominanti, neppure lo Stato: è il prodotto di responsabilità (“vocazioni”) molteplici;

b. il rapporto tra politica e welfare. Il welfare è stata un’espressione democratica, fino ad oggi. Ma la crisi democratica ed economica ha provocato anche la crisi del welfare, tradizionalmente inteso. Fiscalità 133 in ibidem A.Olivero,2012 134 in ibidem, (G.Fiorentini 135 in ibidem, J. Dotti, 2012

generale e mutue non bastano più, occorrono nuove forme di democrazia (nuova governance dei beni comuni) e nuovo welfare;

c. il rapporto tra welfare ed economia. Se manca la crescita del PIL, non deve mancare il welfare, che non può essere considerato solo spesa ( welfare state) o solo rapporto tra utente e prestazione. I malati non sono solo un costo, ma anche un ricavo, sociale ed etico;

d. un nuovo rinascimento per un “nuovo individuo”, che riprende a relazionarsi con il suo ambito territoriale e con i suoi vicini.

La sussidiarietà è un principio liberante. Il welfare deve essere di tutti; il benessere deve essere frutto di una politica sociale diffusa136. Il benessere deve diventare un bene comune: non si tratta di una funzione specializzata ma di una funzione universale. I diritti sociali sono la declinazione dell’art.3, c.2 della Costituzione, che stabilisce che “è compito della Repubblica la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Detto principio, letto in senso positivo, significa che va favorito lo sviluppo della persona e che la tutela personale non può essere limitata - in caso di malattia- al mero diritto alla salute (art.32, attraverso il SSN), ma deve essere estesa alla prevenzione e agli stili di vita.

Il welfare attuale presenta grossi limiti, perché - troppo spesso - è di tipo risarcitorio (dai ricchi ai poveri) e basato sulla passività delle persone, mentre l’art.3, c.2, della Costituzione punta sugli aspetti positivi, sulla valorizzazione dell’individuo.

Come uscire da questa logica? Il benessere interessa l’intera comunità e non il singolo individuo. Il benessere di tutti significa sviluppo per tutti, sviluppo della comunità. Significa trasformare il cittadino da “cliente” a “sodale”: Significa potenziare i legami sociali in ambito territoriale (vita di quartiere e di Comune), valorizzando gli Enti locali e dando ai Comuni il ruolo di “Enti dedicati al benessere della comunità138

Il processo deve partire dal basso: è una questione di democrazia, perché i cittadini debbono essere gli attori principali del “nuovo benessere”. “Non si tratta di mera teoria, perché – in Italia – esistono molteplici esperienze (Trentino, Lombardia etc) che testimoniano la volontà concreta di bloccare lo statalismo (fonte di “disequità”, ad esempio, nella sanità, nella scuola, negli enti locali) e di dare un chiaro ruolo all’impresa sociale, alle mutue (da far rinascere ) e ai Comuni139”.

La crisi economica in atto significa crisi delle imprese tradizionali e occasione per “le imprese sociali con un tetto di redditività”, ossia delle imprese nate per mantenere un lavoro alle persone. La crisi economica significa flexsecurity, ossia sussidiarietà come vicinanza a chi esprime un bisogno. In definitiva, molteplici attori stanno cercando di diffondere il benessere sociale, con iniziative che partono dalle realtà locali e non da Roma .