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Alla luce della ricostruzione offerta, possiamo svolgere alcune considerazioni sulla concreta efficacia delle decisioni della Corte, riprendendo l’idea di efficacia sostanziale329 delle decisioni che opera fuori dall’universo processuale, andando a produrre effetti nel complessivo sistema costituzionale. In particolare come abbiamo avuto modo di accennare in precedenza, l'effettivo seguito delle sentenze del giudice costituzionale discende direttamente dal comportamento degli altri poteri. Ed è proprio il rispetto degli altri organi a definire il ruolo che la stessa Corte assume nella forma di Governo330.

Prima di affrontare direttamente il tema del ruolo che la Corte attualmente ricopre nel nostro ordinamento, ci sembra utile rimarcare i rapporti e gli esiti sorti sulle basi delle decisioni esaminate, in riferimento ai diversi poteri dello Stato.

Se in un primo momento, la storia delle attività della Corte aveva lasciato intendere che il terreno sul quale si sarebbe costruito e sviluppato il rapporto tra Parlamento e giudici costituzionali sarebbe stato quello del giudizio di costituzionalità delle leggi, dagli anni ’90 il rapporto tra i due poteri si è ridisegnato anche alla luce della copiosa giurisprudenza sui conflitti di attribuzione relativi all’ambito di operatività dell’articolo 68 e, in misura più ridotta, dell’articolo 96 Cost.

Non è un caso che la dottrina abbia prestato in generale maggiore attenzione al tema dell’insindacabilità e delle vicende connesse, invece che a quello della responsabilità ministeriale. Le decisioni sul primo tema sono infatti molto più numerose e muovono dalla già citata sentenza numero n. 1150 del 1988 per poi evolversi in direttrici diverse

329 Cfr Capitolo I, in questo senso anche Perini M., Il seguito e l’efficacia delle decisioni costituzionali,

op. cit., 263.

330 .ià all’inizio degli anni ’60 Sandulli scriveva: “L’esperienza dimostra il peso che – anche attraverso

la presa che simili fattori esercitano sulla coscienza popolare (la quale rappresenta la vera forza dei reggimenti politici) – il rispetto, la dignità e il prestigio, che la “posizione” e le forme che la testimoniano conferiscono agli istituti costituzionali, sono in grado di porre al servizio della vitalità e dell’efficienza di questi” Cfr. Sandulli A. M., Sulla posizione della Corte costituzionale nel sistema degli organi

138 quali quelle della pregiudizialità parlamentare e del nesso funzionale. Sono moltissimi i lavori331 volti a ricostruire e a dare una lettura di questo “filone” giurisprudenziale che ha inciso sull’interpretazione delle guarentigie riservate ai componenti delle due Camere, enfatizzando molto spesso il ruolo centrale del Parlamento, anche a discapito dei poteri e delle funzioni dell’autorità giudiziaria.

Tuttavia in questa sede, volutamente rinviando alle opere diffusamente richiamate sulla giurisprudenza dell’art. 68 Cost., vogliamo riferirci alle decisioni che hanno coinvolto le Camere in difesa delle attribuzioni tipiche dell’attività ministeriale. In questo ambito, possiamo evidenziare come in una prima fase il rapporto tra Parlamento e Corte costituzionale sia stato improntato in una ottica interlocutoria: le Camere, davanti ai dubbi sull’interpretazione delle nuove norme introdotte a seguito della riforma dell’articolo 96 Cost., si rivolgevano al giudice costituzionale per capire effettivamente quale fossero i confini delle competenze332 come delineati dalla legge cost. n. 1 del 1989 e dalla l. 219 del 1989.

Emergeva quindi, a priori, il riconoscimento del ruolo della Corte come unico soggetto idoneo a distribuire correttamente le attribuzioni. Sempre sfruttando il novello ambito di applicazione delle norme citate, le Camere hanno poi fatto tesoro delle decisioni della Corte, interpretando però “a modo loro” il riconoscimento di “un’autonoma valutazione”, e seppur non fosse previsto da alcuna norma, hanno cominciato a pronunciarsi sulla ministerialità dei reati a prescindere dalla richiesta del Tribunale dei ministri. Questa prassi è stata poi censurata espressamente dalla Corte. Dal canto suo,

331 Tra la sconfinata dottrina sul tema si segnala Grisolia M. C., Immunità parlamentari e Costituzione.

La riforma del primo comma dell’art. 68 Cost., Padova, 2000; nonché i seguenti articoli a carattere

generale: D'Aloia A., Immunità e Costituzione. Considerazioni su un difficile equilibrio, in Dir. pubbl., 2011, n. 3, 963; Cerreto R., La sindacabilità del diritto parlamentare non scritto, in www.osservatoriosullefonti.it, 2012, n. 2; Romboli R., Immunità parlamentare e conflitto tra poteri, in

Il foro italiano, 2011, n. 9, pt. 1, 2209-2221; Id, Lo scudo dell’immunità parlamentare nel conflitto tra magistratura e potere politico, in Pizzorusso A., Ripepe E., Romboli R. (a cura di), Diritto e potere

nell’Italia di oggi, Torino, 2004, 241; Danesi A., La Corte costituzionale e i conflitti in materia di insindacabilità parlamentare e consiliare ex art. 68, c. 1 e art. 122, c. 4, Cost., in www.federalismi.it,

2011, n. 20; Giupponi T.F., La Corte dei conflitti, al crocevia tra giustizia e politica, in Percorsi

costituzionali, 2010, n. 2-3, 79; Rinaldi E., Riflessioni sulla ragionevole applicazione dell'insindacabilità parlamentare, in Dir. soc., 2012, n. 2, 251.

332 La Giunta, in riferimento al caso Matteoli, aveva precisato di ricorrere allo strumento del conflitto

d'attribuzioni per lamentare la lesione delle proprie prerogative, dovuta non all'illegittimo comportamento di un altro potere, bensì determinata dalla illegittimità costituzionale dell'articolo 2, comma 1, della legge n. 219 del 1989 e soprattutto “senza esprimere giudizio alcuno sul merito delle accuse mosse all'ex ministro Matteoli né sulla «ministerialità» del fatto ascrittogli” v. supra Capitolo II par. 2.1.

139 il Parlamento, o meglio, le giunte (e non solo) si sono adeguate alla decisione del giudice costituzionale, tanto da registrare una “pausa” nei conflitti sollevati in relazione all’applicazione dell’art. 96 Cost.

L’ultimo conflitto sorto, il c.d. caso Tremonti, è nato perché è stata proposta dalla Giunta del Senato una lettura del tutto nuova del suo potere di deliberazione, seppur contrastante con il principio più volte affermato dalla Corte - e dalle stesse delibere parlamentari - che sia di esclusiva competenza del Tribunale dei ministri la valutazione sulla ministerialità o meno del reato. Pur discostandosi nei fatti da tale principio, la Giunta si è sforzata, almeno in apparenza, di dimostrare la propria adesione alle regole delineate dalla giurisprudenza della Corte.

Questo sforzo dimostra la percezione di un effetto vincolante delle decisioni della Corte, perché la Giunta non si è limitata a fornire la propria interpretazione del fatto, ma si è preoccupata comunque di collocarla all’interno dei margini della procedura individuata dal giudice costituzionale.

Il rapporto della Corte con il Parlamento si muove anche sul profilo della legislazione. Le vicende costituzionali relative al segreto di Stato, hanno evidenziato come il legislatore abbia prestato attenzione alle sentenze della Consulta, riproducendo i principi ivi affermati nei testi delle leggi che si sono susseguite a regolare la materia. L’evoluzione della disciplina del segreto di Stato è sostanzialmente figlia degli interventi della Corte nei conflitti di attribuzione tra autorità giudiziaria e Presidente del Consiglio. Quale maggiore riconoscimento, da parte del Parlamento, della trasposizione del bilanciamento effettuato dal giudice costituzionale in una legge? Da ultimo, la mai interrotta prassi delle mozioni di sfiducia individuale, presentate dai parlamentari dal 1996 in poi, è un esempio lampante dell’effettivo seguito della sentenza n. 7 del 1996. Da questa pronuncia in poi nessuno ha più contestato l’esistenza del citato atto di indirizzo.

In riferimento al potere esecutivo si può evidenziare come l’atteggiamento dei ministri, in relazione alla procedura per l’accertamento dei reati ministeriali, si sia ridimensionato a seguito delle sentenze della Corte, in particolare non si è più verificato dopo la sent. n. 29 del 2014 che un ministro abbia sottoposto di propria iniziativa la questione sulla ministerialità del reato alla Camera di appartenenza,

140 La giurisprudenza sulla responsabilità ministeriale ha fornito inoltre indicazioni specifiche anche per il potere giudiziario: ha individuato nel dettaglio, la procedura per l’accertamento dei reati ministeriali, estendendo, ad esempio, l’onere di comunicazione alle Camere anche nel caso di archiviazione asistematica. La Corte ha esaltato in particolare il ruolo e le funzioni del Pubblico Ministero all’interno di tali procedure e ha arginato il ricorso al principio di leale collaborazione in riferimento alle regole dell’agire giudiziario.

Ancora sul fronte del potere giudiziario vogliamo qui ricordare, in quanto esempio emblematico dell’osservanza del contenuto delle decisioni della Corte, l’applicazione da parte del giudice dell’interpretazione contenuta nella sent. n. 106 del 2009, dell’articolo 41 della legge n. 124 del 2007. In particolare, il giudice ricorrente nel caso Pollari333 (deciso con la sent. n. 40 del 2012) aveva dato per scontata la portata generale del summenzionato articolo che determinava la possibilità di estendere all’imputato l’obbligo di non riferire su fatti coperti dal segreto di Stato, prescritto dall’articolo 202 c.p.p. Questa estensione soggettiva della portata della norma era stata accennata dalla Corte in un inciso della motivazione della sent. n. 106 del 2009, senza peraltro supportare l’interpretazione “additiva” con alcuna argomentazione; la giustificazione di questa interpretazione è arrivata solo con la sent. n. 40 del 2012, senza che per altro la questione fosse stata posta dalle parti. Colpisce, ad ogni modo, l’incondizionata adesione del giudice a questa interpretazione.

Sempre la giurisprudenza sul segreto di Stato ci ha permesso di evidenziare l’atteggiamento tenuto dalla Corte, a fronte del mancato recepimento da parte di un potere delle indicazioni contenute in una propria decisione. Infatti nelle richiamate sentenze – n. 110 del 1998 e seguenti334 - l’autorità procedente aveva aggirato il divieto di utilizzazione degli atti segretati come delineato dalla Corte e quest’ultima si era limitata a ribadire quanto affermato nella sentenza capostipite, censurando di volta in volta il comportamento dell’autorità giudiziaria che si era mossa fuori dai confini tracciati e quindi in violazione della giurisprudenza costituzionale.

333 Sul punto v. supra Capitolo II, par. 2.2 e 2.3. 334 Cfr. Capitolo II, par. 2.

141 Questo atteggiamento della Corte è stato salutato335 come una chiara affermazione del suo ruolo: alla fine degli anni ‘90, il giudice costituzionale appare completamente consapevole della sua funzione e pretende che le sue decisioni abbiano seguito. Interviene quindi per dare effettività alle sue pronunce, più che per censurare l’invasione di competenza336. In particolare nella terza e ultima pronuncia (sent. n. 487 del 2000) ha evidenziato la definitività dell’accertamento contenuto nelle precedenti sentenze e ha ricordato che ai sensi dell’art. 137, ultimo comma, Cost., le decisioni della Corte non possono essere soggette a qualsiasi forma “diretta o impropria” di impugnazione e pertanto, il giudice avrebbe dovuto tenerne conto, rilevando d’ufficio l’inutilizzabilità degli atti337. La mancata ottemperanza da parte del giudice ha determinato un comportamento difforme da quello statuito nella decisione della Corte. Quest’ultima si è pronunciata quindi per assicurare il rispetto delle sue precedenti decisioni sottolineando la definitività dell’accertamento in esse contenuto.

335 Cfr Giupponi T.F., La Corte costituzionale giudice e “parte” in tema di segreto di stato? Le sentt.

nn. 110 e 410 del 1998, op. cit., cfr. Capitolo II par. 2.

336 Cfr. Perini M., Il seguito e l’efficacia delle sentenze, op. cit.. L’A. ha osservato come in questa

vicenda a partire dalla sentenza n. 110 del 1998 si sia formato un giudicato costituzionale che vincola sia le parti intervenute che qualsiasi altro soggetto coinvolto dall’esercizio della relativa competenza. Il giudicato verte, a suo avviso, sulla competenza in concreto ma comunque è in grado di produrre effetti pro futuro e nei confronti di soggetti terzi. Quindi la Corte, con le sentenze successive, si sarebbe limitata ad integrare il giudicato formatosi in relazione alla decisione capostipite tenendo conto delle sopravvenienze. La mancata ottemperanza è assimilata dall’A. all’elusione del giudicato.

Cfr. Mazziotti di Celso M., Il procedimento e la decisione sui conflitti di attribuzione, in Studi in

memoria di Carlo Esposito, Padova, 1973, 1863. L’A. osservava che la mancata ottemperanza da parte

di un potere dello Stato a una sentenza della Corte poteva configurarsi come atto lesivo delle attribuzioni della stessa.

337 Ritenuti “in modo irretrattabile” inutilizzabili dalle precedenti sentenze nn. 110 e 410 del 1998,

Corte cost. sent. n. 487 del 2000, cons. dir. par. 7. Inoltre la Corte sbarra la strada al giudice anche rispetto a future questioni di legittimità dell’art. 256 c.p.p., ritenendo che l’apposizione del segreto e l’inutilizzabilità già dichiarata non lascino il campo a valutazioni in relazione all’identificazione di atti utilizzabili o meno ai sensi del citato articolo “né quindi per dubitare della sua legittimità costituzionale”. Tale monito è particolarmente significativo perché segue all’ord. n. 344 del 2000 con la quale il giudice costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 256 c.p.p. sollevata dal .IP di Bologna nell’ambito della medesima vicenda processuale. Nella decisione la Corte ha richiamato la sentenza 410 del 1998 con cui è stata definita in

modo inoppugnabile la controversia in merito all’inutilizzabilità degli atti sui quali era stato opposto

segreto. Si legge infatti nell’ordinanza “che, in particolare, con la sentenza n. 410 del 1998, questa Corte ha già inoppugnabilmente definito la controversia in merito all'utilizzabilità degli stessi atti, sui quali è stato opposto e confermato il segreto di Stato, cui fa riferimento il giudice a quo statuendo in via definitiva sulla non spettanza al pubblico ministero del potere di utilizzarli ed annullando la richiesta di rinvio a giudizio basata sugli stessi; che, derivando inequivocabilmente, e in via definitiva, la sanzione dell'inutilizzabilità degli atti di cui si tratta, non già dall'art. 256 cod. proc. pen., bensì dalle due citate sentenze della Corte costituzionale, sottratte dall'art. 137, ultimo comma, della Costituzione, a qualsiasi forma, anche indiretta o impropria, di impugnazione, il giudice a quo avrebbe dovuto rilevarla d'ufficio a norma dell'art. 191, comma 2, cod. proc. pen. (…)“.

142 La Corte si aspetta, infatti, l’osservanza delle sue decisioni da parte degli altri poteri coinvolti in un conflitto di attribuzione. Quando ciò non accade, abbiamo visto che ha conferito valore vincolante alla sua precedente statuizione, la quale è stata utilizzata come parametro, unito al principio di correttezza, per censurare il comportamento del potere “inadempiente”.

Gli esempi così rapidamente richiamati testimoniano come l’accertamento sulla competenza effettuato nelle decisioni in tema di conflitti di attribuzione tra poteri abbia effetti che trascendono il caso deciso. Infatti, pur trattandosi dell’accertamento di una competenza in concreto, non potendo prescindere da una valutazione del reale comportamento delle parti, ovvero dal come gli organi costituzionali si siano atteggiati e rapportati rispetto a una determinata funzione338, l’efficacia della decisione condiziona il comportamento futuro degli organi, anche quando non siano stati direttamente coinvolti nella controversia, andando a modificare o a introdurre nuove regole inerenti all’organizzazione costituzionale dei poteri.

Questa efficacia è reale solo quando è condivisa dagli altri poteri: il comportamento degli altri organi garantisce effettività alle statuizioni della Corte. Da un lato infatti il giudice costituzionale si aspetta un atteggiamento conforme, dall’altro gli stessi poteri, riconoscendo il ruolo della Corte e l’efficacia vincolante delle sue decisioni si comportano in osservanza di queste ultime.

Altre volte è, invece, la Corte a recepire i comportamenti degli altri poteri nelle sue decisioni. Infatti il suo giudizio nei conflitti non può mai prescindere da tali comportamenti, proprio per la sua concretezza, come si diceva prima: è solo scendendo nell’esame dell’atteggiamento osservato dalle parti che può valutare se vi sia stata una invasione dell’altrui competenza o meno. La Corte, come abbiamo visto, in alcuni casi si è limitata a registrare quello che è stato il comportamento dei poteri in campo, avallando le pretese di una delle due parti e costruendo poi una motivazione a sostegno di quella determinata ripartizione delle competenze. In altri casi, quando riscontrava l’esistenza di una prassi costante, o come tale percepita dagli stessi organi che la ponevano in essere, si è profusa in una valutazione sulla conformità a Costituzione o meno della stessa.

338 Ci riferiamo ovviamente ai casi di conflitti da interferenza o menomazione per i motivi illustrati nel

143 Nel caso delle delibere di ministerialità, che le Camere avevano cominciato ad adottare per inibire l’attività del potere giudiziario, su istanza dello stesso ministro, la Corte ha evidenziato come tale prassi muovesse al di fuori dello schema da essa delineato in relazione all’accertamento dei reati ministeriali. In questo modo, da un lato ha censurato la nascente prassi parlamentare, dall’altro ha ribadito l’efficacia delle sue precedenti statuizioni, riconoscendo valore vincolante alla ricostruzione giurisprudenziale del meccanismo che origina dall’art. 96 Cost.

Nel caso della mozione di sfiducia individuale la Corte ha giudicato la prassi di tali atti di indirizzo in armonia con la Costituzione: ha valutato la configurabilità dell’istituto nella cornice costituzionale vigente e, alla luce degli altri elementi, (prassi e regolamento della Camera) ha riconosciuto l’esistenza di una consuetudine costituzionale.

Rileva sotto il profilo in esame, l’osservazione che sono gli stessi poteri, con la prospettazione dei ricorsi a stabilire l’oggetto del conflitto e a guidare la stessa decisione della Corte, partecipando “istituzionalmente” all’attuazione dell’art 134 Cost339.

Infatti la volontà degli altri poteri dello Stato di accedere a questa competenza del giudice costituzionale, e la consequenziale accettazione della giustiziabilità del conflitto sono espressione della lealtà istituzionale, su cui poggia l’efficacia stessa delle decisioni.

Le decisioni della Corte, dopotutto, non sono altro che il frutto del comportamento di un potere dello Stato. Nell’equilibrio dei poteri, e nel rispetto del principio di correttezza e lealtà, il contenuto delle decisioni della Corte viene riconosciuto e messo in pratica dagli attori istituzionali che insieme ad essa operano a livello costituzionale. A questo punto non si può che dare ragione a quella parte della dottrina che, con lungimiranza340, aveva evidenziato l’efficacia ultra partes delle decisioni della Corte,

339 In questi termini cfr. Florenzano, L’oggetto del giudizio sui conflitti, op cit. 78; anche Grassi S., Il

giudizio costituzionale sui conflitti di attribuzione, op. cit., 378, osservava che l’esecuzione della

sentenza “non può non svolgersi sul filo della correttezza istituzionale”. L’A. aveva correttamente ipotizzato che la mancata esecuzione della decisione della Corte avrebbe avuto come unica soluzione la riproposizione del conflitto nei confronti degli atti che eludono tale pronuncia.

340 In quanto molti di questi operavano “in vitro” cioè prima dell’effettivo funzionamento dei questa

144 collegandola al ruolo della stessa, inteso in stretto rapporto con gli altri attori istituzionali.

Già Mazziotti di Celso341, all’inizio degli anni ’70, aveva evidenziato che l’esecuzione delle decisioni della Corte è affidata in primo luogo allo spontaneo ossequio di tutte le autorità e dei cittadini verso il supremo organo di garanzia della Costituzione. In particolare, precisando che l’esecuzione deve essere posta in essere direttamente dal potere cui spetta, ha evidenziato gli strumenti approntati dall’ordinamento idonei a costringere il potere in causa ad ottemperare alle decisioni della Corte: un primo meccanismo, ad esempio, è “implicito” nella stessa complessità dei rapporti che intercorrono tra i poteri, per la quale è difficile che uno di essi possa esercitare le proprie attribuzioni senza la collaborazione degli altri, dopotutto vi sarà sempre un potere interessato all’esecuzione.

Più in generale, l’accettazione - e il riconoscimento della legittimazione – della Corte deriverebbe dalla condivisione dell’operato della stessa da parte della collettività. Quindi non vale il solo principio della supremazia della Costituzione, ma sul piano sostanziale, la legittimazione di un organo di giustizia costituzionale dovrebbe cercarsi nella storia e nella cultura giuridica di un paese, nell’autorevolezza stessa dei precedenti, nella trasparenza degli argomenti addotti nelle pronunce, i quali dovrebbero trovare una concordanza con i principi universalmente riconosciuti e i comportamenti posti in essere dalla stessa collettività342.

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