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ejxeurei'n hmå : L’ed pr legge ejxeu'ren th;n Ad una più attenta

Trascrizione diplomatica Trascrizione letteraria çmatwn˚˙aitå matwn˚ k˚aitåoi yeu-

10. ejxeurei'n hmå : L’ed pr legge ejxeu'ren th;n Ad una più attenta

osservazione al microscopio, è stato però possibile vedere che dopo

epsilon, la prima lettera che segue è iota. Questa lettera presenta un tratto

obliquo, probabilmente involontario, che la lega alla lettera seguente e che è stato frainteso per un ny. Lo iota è sicuramente seguito da un ny, pertanto la sequenza exeurein sembra sicura, mentre non si legge nessun tau prima di eta. L’ultima lettera prima della lacuna, che a prima vista

potebbe sembrare un ny, è in realtà un my (cfr. e.g. il my al r. 24): infatti, la metà destra della curva centrale della lettera è quasi del tutto scomparsa a causa della estrema precarietà dell’inchiostro che in più punti è venuto via forse perché non ha aderito bene contro le fibre del verso.

Per quanto riguarda l’uso del verbo ejxeuriv‡kw, scopro, qui all’infinito

aoristo attivo, cfr. e.g.: Demosth. 22 (In Androtionem) 19,5 dei' provfa‡in piqanh;n ejxeurei'n pro;‡ uJma'‡, bisogna trovare un pretesto convincente per voi, e

Demosth. 54 (In Cononem) 37,8 ajll∆ hJmei'‡ oujc oiJoiv te genoivmeq a]n pavnta‡ ejxeurei'n tou;‡ hjdikhmevnou‡, ma noi non possiamo trovare tutti quelli che subiscano ingiustizia, che sembrano presentare un lessico analogo a quello

che ritroviamo in questa orazione.

11. ou\n kai; fuv‡ei t˚˙˙å : L’ed. pr. legge eta invece di ny, nell’interlinea

superiore. In nota poi l’ed. pr. interpreta questo eta come una correzione di

ou. Questa lettura mi sembra poco probabile, anche perché solitamente la

correzione, o la variante, non si trova dopo la lettera corretta, ma sopra la lettera che va a sostituire (cfr. III.1.2. Correzioni e integrazioni). Quando si tratta di una correzione, inoltre, si possono anche trovare i due punti, uno sopra e uno sotto la lettera, che segnalano che si tratta di un errore (cfr. Barbis Lupi 1997). Da un’attenta analisi effettuata anche al microscopio, mi sembra che la lettura corretta della lettera, scritta in modulo ridotto

nell’interlinea superiore, sia ny e non eta. Inoltre la lettera non si trova sopra lo hypsilon, bensì dopo, e quindi non deve essere cosiderata una correzione, ma un’integrazione: si deve leggere oun e non ou.

Dopo fuv‡ei il papiro si interrompe, ma sul limite di frattura si vedono

chiaramente alcune tracce della parte superiore delle lettere di questo rigo. In particolare, immediatamente dopo iota, sembra di vedere l’asta orizzontale di un tau con al centro una piccola parte dell’asta verticale. Seguono poi altre tracce di lettere: la prima, sul limite superiore di frattura presenta una curva discendente da destra a sinistra; la seconda ha invece due tracce, una in alto e una sul limite inferiore di frattura, che farebbero pensare ad una lettera che si sviluppa in altezza; della terza non rimane che un puntino su una fibra.

12. ˙on pro‡labwå : prima di omicron ci sono alcune tracce di una lettera

non chiaramente visibile a causa della perdita di alcune fibre verticali. Da quello che rimane sembra di poter affermare che la lettera ha un’asta verticale e forse una traccia orizzontale di inchiostro in alto a sinistra, tutti elementi che farebbero propendere per un tau.

˙on pro‡labw;ån ed. pr., ed in nota si ipotizza che la finale -on sia il residuo

del sostantivo accusativo retto dal participio. Niente esclude che si possa invece pensare a un forma del congiuntivo aoristo del verbo. Per l’uso di questo verbo, molto comune non solo tra gli oratori, cfr. e.g., Aeschn. 1 (In

Timarchum) 64,5 hjgavph‡en ei[ ti mh; pro‡lavboi kaino;n kakovn, sarebbe stato ben contento se non avesse subito una nuova disgrazia.

13. ˙˙ç k˚a˚i; divka‡ kaloå : ç˙˙i divka‡ kal˙å ed. pr. Il riposizionamento,

avvenuto durante il restauro, delle fibre che risultavano piegate lungo i limiti sinistro e destro di frattura, ha consentito di chiarire la lettura delle lettere iniziali e finali di questa parte del frammento. In questo punto la parte conservata del papiro si restringe e a sinistra del kappa, di cui si vedono poche tracce, sono andate perdute circa due lettere.

Per quanto riguarda la sequenza, se si pensa che kalo- faccia parte di una

processi, all’accusativo plurale e senza articolo, abbia la funzione di

complemento predicativo dell’oggetto: chiamano processi i/le ... ecc. Come già affermato dall’ed. pr. non è facile trovare i due termini accostati, anche se le attestazioni che si possono trovare non sono prive di interesse: cfr.

e.g. Eur. Supplici 608 divka divkan d∆ ejkavle‡e, giustizia chiamò giustizia; Plato Euthyphro 2 a ou[toi dh; ∆Aqhnai'oiv ge, w\ Eujquvfrwn, divkhn aujth;n kalou'‡in ajlla; grafhvn, gli Ateniesi, o Eutifrone, non lo chiamano processo pubblico, ma causa privata.

Oltre però a questa soluzione si può anche ipotizzare che il verbo introdotto da kalo- sia un participio medio-passivo riferito a divka‡: divka‡ kaloumevna‡, cause chiamate in giudizio. Questa ipotesi potrebbe essere

confermata dal fatto che il verbo kalevw ha nei contesti giudiziari il

significato tecnico di citare, chiamare in giudizio, istruire ed è usato prevalentemente al momento di istruire un processo: cfr. e.g.: Demosth. 37 (In Pantaenetum) 42,4 to; mevllein kalei'‡qai th;n divkhn, il fatto che la causa stava per essere istruita. Cfr. a questo proposito anche Harrison 1971 p. 85.

14. ˙˙˙˙çkakouvrghmå : ç kakourgh˙å ed. pr., mentre in nota si ammette sia

la possibilità di lettura kakouvrghm˚åa, sia la possibilità che si tratti di una

forma verbale di kakourgevw. Grazie alla lettura al microscopio del passo è

possibile affermare con sicurezza che l’ultima lettera leggibile a destra sia

my, del quale rimane soltanto la prima asta verticale.

Se pensiamo al sostantivo kakouvrghma, cattiva azione, frode, esso non è

molto attestato: infatti lo troviamo una volta in [Aristot.] (Ath. Rsp.) 66, una volta in Plutarch. (Publ.) 19 3,4 e due volte in Plato Respublica 344b,5 e 426e,7, mentre tutte le restanti attestazioni provengono dagli oratori. In particolare il termine ricorre una volta in Aeschn. 3 (In Ctesiphontem) 94,11; due volte in Antifonte: Antipho. 2 (Tetralogia 1) 3.2,9 e 5 (De caede Herodis) 10,2; sei volte in Demostene: 18 (De corona) 32,1; 21 (In Meidiam) 130,7; 24 (In Timocratem) 86,3; 32 (In Zenothemidem) 16,6; 34 (In Phormionem) 29,4; 35 (In Lacritum) 22,7; e una volta in Isocrate: 19 (Antidosis) 90,4.

Se invece si pensa a una forma verbale di kakourgevw, si potrebbe forse

ipotizzare di integrare una forma del perfetto: e.g. kekakourghmevno‡,

attestato in Demosth. 23 (In Aristocratem) 2,6 eij me;n ga;r h\n ajkouv‡a‡in eujqu;‡ eijdevnai ta; kekakourghmevna, se infatti era possibile per voi che ascoltavate conoscere le malvagità compiute.

Forse è interessante ricordare in questa sede che più che il sostantivo

kakouvrghma, è kakou'rgo‡ ad avere un significato giuridico preciso. Infatti,

il termine ha la valenza tecnica di criminale comune riferito a determinate categorie di persone: klevptai, ladri, lwpoduvtai, ladri di vesti, ajndrapodi‡taiv, ladri di schiavi, toicwruvcoi, scassinatori, ballantiotovmoi, cacciatori di eredità

(cfr. Harrison 1971, p. 223). Contro questi kakou'rgoi potevano essere

adottate alcune specifiche procedure, quali, in particolare la ajpagwghv (cfr.

Harrison 1971, pp. 222-229). Questa procedura consisteva nel trascinare davanti al magistrato competente un individuo colto in flagrante delicto. Se questa persona apparteneva alla categoria dei kakou'rgoi, allora la

questione era di competenza degli Undici, magistrati speciali, chiamati anche ejpimelhtai; tw'n kakouvrgwn, se invece era un uomo esiliato per

omicidio o per tradimento competeva ai Thesmotheti (cfr. Harrison 1971, pp. 12-17 e 222). Nel caso di PSI inv. 3001v non è possibile, per la lacunosità del testo, potersi pronunciare con maggior chiarezza in merito. Quanto detto per il termnie kakou'rgo‡ non è detto che possa valere anche

nel nostro contesto. Infatti, secondo la terminologia tecnica giuridica, le azioni che identificano il kakou'rgo‡ non sono trattate in quanto “azioni

criminali”, ma piuttosto sembrano che l’accento sia posto sulla persona che le compie (cfr. Arist. Ath. Pol. 52.1). Dice giustamente Harrison (1971, p. 224): «as tough it was not so much the quality of the act which was relevant as the kind of man who did it». Se dunque è difficile, data la mancanza di elementi, attribuire a kakouvrghma un valore tecnico che di per

sé non ha, è comunque possibile pensare che l’uso di questo termine rievocasse nell’uditorio quella particolare serie di crimini compiuti da quella particolare categoria di malfattori. Anche questo elemento, quindi, unito al qhrivon del r. 6, contribuisce ad avvalorare l’ipotesi che il testo di

PSI inv. 3001v sia un’invettiva in cuilo scopo principale è quello di svilire l’avversario, facendolo apparire come un misero criminale di professione.