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T ELLING H ISTORIES : AN A RCHIVE AND THREE CASE STUDIES (Kunstverein Monaco, Ottobre Novembre 2003)

Storia delle mostre: ipotesi per un canone della pratica neoistituzionalista

3.3. La mostra archivistica: memoria collettiva e multi-autorialità

3.3.1. T ELLING H ISTORIES : AN A RCHIVE AND THREE CASE STUDIES (Kunstverein Monaco, Ottobre Novembre 2003)

Il progetto471 è frutto di una curatela condivisa del team curatoriale del kunstverein - Maria Lind, Ana Paula Cohen, Søren Grammel - arricchita del contributo degli artisti Mabe Bethônico e Liam Gillick. La coralità autoriale non costituisce una novità nella programmazione dell’istituzione. Al momento dell’insediamento, infatti, la Lind aveva costituito, oltre al suo gruppo di lavoro, un comitato allargato composto da sedici “sputnik”472, un gruppo di artisti e curatori (i primi assai più numerosi dei secondi) chiamati a interloquire liberamente con l’istituzione ed eventualmente proporre progetti o compartecipare a quelli in agenda.

L’obiettivo di Telling Histories era quello di indagare le modalità con cui una mostra e, in generale, un’istituzione svolge la propria funzione di mediatore culturale. In un’operazione dal carattere dichiaratamente auto-riflessivo, in occasione del centottantesimo anniversario dell’associazione, il gruppo di curatori decise di indagare la memoria del kunstverein - quanto meno quella degli ultimi cinquant’anni -

Cfr. “Telling Histories: Archive / Spatial Situation / Case Studies / Talk Shows / Symposium”, in

471

Selected Maria Lind Writings, pp. 301-324

Il termine voleva restituire la suggestione del carattere nomade dei gruppi di ricerca russi; il gruppo di

472

“compagni di viaggio” includeva Liesbeth Bilk, Jos van der Pol, Katrina Brown, Nathan Coley, Lynne Coocke, Liam Gillick, Ruth Kaaserer, Matts Leiderstam, Deimantas Narkevičious, Juan Maidang Mats Stjernstedt, Apolonija Šuśteršič, Jan Verwoert, Jun Yang, Carey Yung, Dolores Zinny; rimase in attività dal 2002 al 2004, con la funzione di think-tank.

Non tutti collaborarono attivamente: alcuni si dileguarono non convinti della formula (o a causa della scarsa possibilità di azione, vista l’esiguità del budget), altri furono più attivi e portarono un supporto effettivo, in forma di eventi (lecture, video-screening, talk) o di opere (la Šuśteršič disegnò un intervento per l’ingresso dello spazio, la Yung realizzò dei progetti in forma di campagna di marketing, per esempio); vi fu poi chi, come Gillick, fu una presenza costante per l’intero periodo.

La Lind sostiene che l'esperienza degli sputnik abbia fornito uno spunto a Carolyn Christov-Bakargievper la creazione del gruppo dei “the Agent” per dOCUMENTA13 (potremmo aggiungere, anche “the Alliences” della Biennale di Istanbul 2015) e “the Generals” nella mostra “Art in General” a cura di Sofia Hernández e Chong Cuy (cfr. “We want to become an Institution”, Oncurating 21/2014, p.28)

selezionandone tre progetti: Poetry Must Be Made By All! Transform the World! (1970), Dove sta la memoria (Where is memory) di Gerhard Mer (1986) e Eine Gesellschaft des Geschmacks (A society of taste) di Andrea Fraser (1993). I tre progetti avevano rappresentato tre diverse occasioni di confronto - talvolta acceso - con il pubblico; il riproporne la memoria, offriva non solo la possibilità di testarne il potenziale sovversivo a distanza di tempo ma, al contempo, di ricostruire in qualche modo l’evoluzione delle dinamiche di fruizione da parte della comunità, in termini educativi e di opinione pubblica.

Poetry Must Be Made venne realizzata sotto la direzione di Rainer Kallhardt e propose una lettura dell’arte dalle avanguardie al 1968 attraverso il filo rosso della “creatività rivoluzionaria”. Strutturata in cinque parti, aveva una sezione centrale fotografica (duecentotrenta pezzi esposti su pannelli di grandi dimensioni), accompagnata da un’esposizione eterogenea di oggetti, ricostruzioni e cataloghi e una fitta attività paracuratoriale ante-litteram nel “Book Café” (seminari, film, discussioni informali); infine, una grande attenzione era data al pubblico, invitato a lasciare un riscontro, sia in forma di commento sia di contributo libero nella “Fourth Wall”. Il format aperto della mostra fece sì che potesse diventare un punto di riferimento per gli studenti che in quel periodo partecipavano alle grandi proteste sessantottine, che nell’istituzione trovarono accoglienza e un luogo in cui poter sviluppare il dibattito e, allo stesso tempo, arricchire i contenuti del progetto con materiale eterogeneo, composto da reportage fotografici, testi, slogan e qualche dipinto. La partecipazione fu tale da arrivare persino a suscitare preoccupazioni nell’autorità, tanto che si decise prima per la chiusura della sezione “Fourth Wall”, poi dell’intera mostra, con l’immediata reazione dei giornali che parlarono dell’accaduto in termini di censura. Le vicende presentano una forte vicinanza con le modalità curatoriali contemporanee, e le modalità con cui la mostra divenne una piattaforma di discussione sociale rappresentano un esempio di riferimento per il pensiero neo-istituzionalista.

Dove Sta la Memoria fu una mostra estremamente controversa per l’uso che l’artista fece dell’iconografia e dei simboli del totalitarismo nazi-fascista, in una più ampia orchestrazione sui temi della monumentalità e del sublime. L’ambiente creato da Gerhard Merz utilizzava esplicitamente gli stilemi allestitivi della magniloquenza di regime e voleva richiamare l’ipotesi storica che sostiene che la mostra Arte Degenerata del 1937 abbia avuto luogo proprio negli spazi del kunstverein. Si tratta di un lavoro di sofisticato concettualismo che intreccia percezione estetica, questioni etiche irrisolte e ambiguità nel rapporto con le masse, prestando ovviamente il fianco a un grande dibattito di critici e giornalisti, in un momento storico in cui il revisionismo storico costituiva un punto dolente per l’identità tedesca.

Infine, il progetto della Fraser, Eine Gesellschaft des Geshmacks, si inseriva nella sua ricerca sull’artista come elargitore di servizi e mirava ad indagare l’identità dell’istituzione e di chi vi lavorava. Intervistò tutti i membri del direttivo, indagando il loro rapporto con il kunstverein, gusti e opinioni in campo artistico e le dinamiche sociologiche che si andavano instaurando tanto all’interno dello spazio, quanto con la comunità. Le interviste trovarono poi forma artistica in lavori audio, testuali e visuali, fungendo da specchio de-personalizzato del campione di società borghese intervistata; venivano così raccontate le aspirazioni di successo personali, il rapporto fra colleghi e quello più o meno simbiotico con l’istituzione per cui si lavorava come rappresentanti e l’equilibrio fra passione e burocrazia in una professione di questo tipo.

I tre progetti rappresentavano indubbiamente un pretesto eccezionale per indagare la storia e l’identità della kunstverein e del contesto socio-culturale in cui vive.

Ma come trasformare questo prezioso collage di memoria collettiva in una mostra? È in questo passaggio dalla forma archivistica a quella espositiva, che i curatori cedono l’autorialità ai due artisti chiamati a mediare il progetto. I due vennero coinvolti nel rispetto delle rispettive tematiche di indagine: l’intera ricerca della Bethônico è legata

ai sistemi archivistici e alle dinamiche della collezione e, per quanto riguarda Gillick, abbiamo visto come la sua processualità fosse spesso finalizzata alla creazione di scenari per azioni di varia natura. La prima si occupò quindi della selezione dei materiali d’archivio, il secondo di scolpirne il contesto di lettura, curandone gli arredi. In un primo spazio [FIG. 16] troneggiavano tre grandi tavoli rotondi, uno per ogni progetto, in cui poter consultare la documentazione fotografica delle mostre e un piccolo testo di approfondimento; inoltre, si poteva fruire della selezione realizzata dalla Bethônico: un elenco di parole - frammenti di testi critici, schede di prestito, corrispondenza e simili - che miravano a restituire una suggestione di quanto avvenuto, più che una restituzione fedele (come ci si aspetterebbe da un vero archivio). L’intero archivio, era comunque disponibile, ordinatamente catalogato nelle scaffalature predisposte da Gillick. Gli studiosi potevano fare specifica richiesta a fini scientifici per la consultazione; il pubblico poteva comunque consultarlo ma in formato elettronico, grazie a un database, sempre curato dalla Bethônico, e, eventualmente, richiedere la stampa dei documenti considerati interessanti e meritevoli di approfondimento. [FIG. 17] Completavano gli ambienti una parete testuale, con l’elenco delle persone coinvolte nel programma e citazioni dall’archivio, e una lavagna a disposizione per i commenti dei fruitori. Inoltre, ogni giorno veniva appesa lungo le scale una piccola selezione di poster promozionali delle mostre storiche del kunstverein.

Infine, anziché predisporre un catalogo cartaceo, si lavorò a una versione dvd e vhs, con le riprese video di tre talk, organizzato ognuno per ogni mostra oggetto di indagine473

Telling Histories si presenta quindi come un progetto stratificato, che prevede una parte visuale, la mostra, un’attività paracuratoriale che trova una una seconda vita,

Oggi sono fruibili anche sul sito del curatore Grammel (http://soerengrammel.net/hello/Menu/Telling

473

meno effimera, nel catalogo in formato video, e un evento discorsivo parallelo, il convegno “Curating with Light Luggage”474, che si configura come terzo modulo dello stesso programma.

Concentrandoci sul primo modulo quello più strettamente visuale, non è semplice ascrivere la mostra a una categoria espositiva prestabilita. La preponderanza della documentazione storica potrebbe ricondurla alla mostra storico-archivistica, epurandola di una specificità legata alla contemporaneità; d’altra parte il lavoro dei due artisti, fedele a se stesso nonostante il carattere di “fornitura di servizi”, potrebbe avvicinarla a una doppia mostra personale. In questo caso quindi la mostra archivistica viene mediata dal filtro della soggettività dell’artista, che opera sia sulla scelta dei primi documenti da fruire, sia su carattere dell’ambiente in cui fruirli.