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La retrospettiva-evento: 53 HOUR JOHN CAGE WEEKEND (Rooseum Malmö, 25-27 aprile 2003)

Storia delle mostre: ipotesi per un canone della pratica neoistituzionalista

3.1. Recuperare il ruolo critico della mostra monografica indagando nuove temporalità

3.1.2. La retrospettiva-evento: 53 HOUR JOHN CAGE WEEKEND (Rooseum Malmö, 25-27 aprile 2003)

La mostra, a cura di Lennart Alves, fa parte del più ampio programma “Rooseum Universal Studios”, nato dalla volontà di indagare le possibilità offerte dalle ricerche transdisciplinari performative - in cui convergono arti visive, cinema e suono - e fare dello spazio un luogo di produzione oltre che sede per eventi, così da creare una partecipazione più attiva. La scelta di questa attitudine comportò, ovviamente, la necessità di una maggiore flessibilità negli orari di apertura dell’istituzione, in base ai singoli progetti.

53-Hours, nello specifico, è stato sviluppato in un fine settimana (tecnicamente in 53 ore, da qui il titolo) e vuole essere un tributo a John Cage e alle sue teorie:. Vennero organizzate performance dei suoi testi, la Malmö University Symphony Orchestra eseguì alcuni suoi pezzi, vennero proiettati suoi lavori video; intorno a queste riproposizioni della sua ricerca, si organizzarono concerti di musicisti che ne richiamavano l’eredità, video-proiezioni e seminari di analisi del suo lavoro o di approfondimento di tematiche correlate alla sua biografia, come il Buddismo Zen e la micologia (era un esperto di funghi). [FIG 13]

Siamo davanti a un progetto ibrido, in cui convogliano documentazione video- fotografica di performance, esecuzioni musicali nuove - riproposte come da spartito, reinterpretate e arricchite di nuove prove - e attività discorsive paracuratoriali, ognuna con un apporto specifico e senza costruzioni gerarchiche. Il tutto, viene definito dai curatori e dall’istituzione proponente, come una “mostra”: si tratta quindi di una retrospettiva, dove la non-canonicità strutturale risponde all’eterodossia dell’artista indagato.

Il fatto stesso di dedicare un’esposizione di carattere visuale a una figura che nasce nel campo musicale, ma che viene riconosciuta come padre per esperienze quali

fluxus e sound art, segna la volontà di non ridurre la sua ricerca a una sola disciplina, ma di dare la giusta valorizzazione agli aspetti legati alla rappresentazione, di mise en scène, dei lavori di Cage.

L’operazione non può che sollevare alcune questioni di metodo sulle strategie curatoriali da porre in atto. Nel momento in cui si mettono in mostra i video delle esecuzioni musicali, stiamo proponendo un allargamento del loro statuto di concerto a uno ibrido, avvicinabile a quello, più ampio e senza una connotazione disciplinare specifica, di performance. La volontà di proporre non solo la dimensione sonora del lavoro ma anche la corporeità dell’azione dell’artista durante l’esecuzione - in video quella di Cage, dal vivo quella dei musicisti che ne ripropongono le partiture - richiede quindi alla logica curatoriale una propensione verso il medium performativo. Anziché limitare la presentazione delle esecuzioni di Cage alla forma documentaria - quella tradizionale quando si tratta di performance - proposero una serie di ricostruzioni che da una parte, riportano la questione alla cornice strettamente concertistica, dall’altra aprono a una forma embrionale del fenomeno del reenactment delle performance, in forma più o meno fedele, che proprio in quegli anni stava acquistando una autonomia espositiva. Attraverso queste forme di riproposizione ibride, che riattualizzano l’opera attraverso un nuovo interprete, un nuovo contesto di fruizione e, ovviamente, un nuovo pubblico, si portava nel campo artistico ciò che era ormai consuetudine in altri settori disciplinari, con le cover musicali e i remake cinematografici.434

L’anno precedente a 53-hours si era avvicinata a questa riflessione la curatrice Iwona Blazwick, con il

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progetto A short history of performance (Whitechapel Gallery, Londra 2002). Pochi anni dopo anche gli artisti inizieranno a sperimentare in questa direzione, come dimostrano Seven easy pieces di Marina Abramović (Guggenheim museum di New York, 2005) e le prove digitali del 0100101110101101.org con

Synthetic Performances (2007-2008).

Su una lettura, abbastanza caustica, del fenomeno del reenactment delle performance come modalità per “resuscitare i musei”, cfr. Hal Foster, “In praise of actuality” in Bad News Days, pp. 127 - 140

Risulta tangente a questa tendenza, lo sviluppo del fenomeno dei remake delle installazioni e delle mostre.

Cfr. Reesa Greenberg, “‘Remebembering Exhibitions’: From Point to Line to Web”, in Tate Papers, n. 12 (rivista on-line)

Potremmo parlare di 53-Hours come di una retrospettiva in forma di evento, la cui identità si trova quindi in bilico fra l’intrattenimento e l’approfondimento seminariale, in cui i molteplici canali espressivi della ricerca di Cage vengono compressi temporalmente e al contempo dischiusi su diversi spazi dell’istituzione, in appuntamenti che si accavallavano. Per questa sovrapposizione - oltre al fatto che, sembra banale ricordarlo, difficilmente una persona può conservare forze a capacità di attenzione per partecipare all’intera maratona - l’istituzione perde il controllo sui tempi e le modalità di fruizione del progetto. Nonostante questa consapevolezza, che doveva esser chiara anche agli stessi organizzatori, appare però chiara la volontà di lanciare una sfida alla resistenza, secondo una citazione cara allo stesso Cage - riportata nel catalogo della programmazione istituzionale: “Nel pensiero zen si dice: se qualcosa ti annoia dopo due minuti, provala per quattro. Se ancora ti annoia prova per otto, sedici, trentadue, e poi ancora. Potresti probabilmente scoprire che non è noiosa [ma interessante]”435.

Si affronta la questione della temporalità tradizionale della mostra simile a quella proposta dalla monografica di Christine Borland al kunstverein di Monaco. Se guardiamo a questi progetti considerando l’esperienza del fruitore, è possibile rilevare delle debolezze, inevitabile, dal momento che entrambe costituiscono una vera e propria sfida alle convenzioni di visita: a Monaco ci si è scontrati con il calo dell’attenzione su un periodo prolungato, a Malmö sul calo dell’attenzione in un’esperienza troppo densa e magari estenuante. Ma se ci concentriamo sui metodi espositivi i due progetti costituiscono degli esempi più che felici, per la capacità con cui dimostrano le possibilità del format espositivo monografico al di là dell’impiego

Cfr. “53-hour john cage weekend” in There’s gonna be some trouble>The five year Rooseum Book.

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2001-2006, Rooseum, Malmö, 2007, p. 96-97.

A distanza di poco più di dieci anni dal progetto, l’unica traccia reperibile nei motori di ricerca web è un video sul canale di youtube di Andreas Kurtsson, uno degli artisti partecipanti alle performance parallele (https://www.youtube.com/watch?v=FMbbzpzIR78, nel novembre 2015, solo 27 visualizzazioni). Nessuna recensione, nessun dibattito sui blog. Sorge spontaneo dedurne che il progetto, nonostante e forse proprio a causa del carattere sperimentale, non è riuscito a suscitare una grande attenzione.

tradizionale, costituendo un importante momento di sperimentazione non solo per l’istituzione ma anche per gli artisti, laddove coinvolti.