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Storia delle mostre: ipotesi per un canone della pratica neoistituzionalista

3.2. La mostra collettiva verso la multitudo

Gli anni Novanta vedono svilupparsi una crescente insofferenza alle modalità tradizionali di progettazione della mostra collettiva, spesso piegata alla logica della grande esposizione tematica in cui i singoli lavori, più che mostrare la ricerca dell’autore, rischiano di diventare illustrazione della tesi curatoriale, tassello di un mosaico più ampio e non sempre rispettoso della riflessione critica dei singoli partecipanti. La condizione di stagnazione, inoltre, rischiava spesso di aggravarsi per la pavidità delle tesi supportate dai curatori, che, probabilmente schiacciati dai ritmi frenetici dell’industria culturale, sembravano non riuscire a farsi carico e a dar voce alle energie che animavano le ricerche degli artisti.

La pratica neoistituzionalista si muove proprio a partire da questo disagio441 e aspira alla creazione di progetti espositivi che riflettano nella propria struttura i temi affrontati, in una formula che la Lind definisce “critica istituzionale costruttiva”442.

La tendenza è particolarmente esemplificata in What if: Art on the Verge of Architecture and Design (a cura di Maria Lind, presso il Moderna Museet du Stoccolma, maggio - settembre 2000), in cui l’istituzione si proponeva di “creare un contesto in cui il format allestitivo fosse incardinato nelle logiche stesse dell’arte, stabilendo un parallelo, o preferibilmente una condizione riflessiva fra come si sviluppa il progetto, si espone e si allestisce l’arte e ciò che si sviluppa, si espone, si allestisce”443. L’obiettivo venne sviluppato con fermezza e l’ambiente espositivo

“Stavo cercando di vedere il tema della mostra come parallelo a quello del metodo usato dagli artisti, al

441

modo in cui i pezzi funzionano, piuttosto che al tradizionale tema o soggetto. Facendo questo, speravo di essere in grado di ragionare su questioni importanti senza utilizzare le opere d’arte come illustrazioni delle stesse. Le opere dovrebbero invece ‘performare’; dovrebbero ‘fare’ piuttosto che ‘raffigurare’” Cfr. Maria

Lind, “Stopping my process: a statement”, in Stopping the process. Contemporary views on art and

exhibitions, 1998, pp. 231 - 240

Cfr. Lind, “Exchange & Trasform (Arbeitstitel), Notes Along the Way”, in Maria Lind Selected Writings,

442

p. 366

Cfr. Lind, “What if: Art on the Verge of Architecture and Design”, in Maria Lind Selected Writings, pp.

443

orchestrato da Liam Gillick rifletteva la dissoluzione delle discipline dell’arte, dell’architettura e del design in un ambiente aperto e multiprospettico, privo di percorsi di visita predefiniti e di didascalie che assegnassero opere e artisti a una categoria ben delineata.444 [FIG. 14]

Al di là dell’assioma base di aderenza fra contenuto e contenitore e di una libertà nel percorso di visita, non troviamo in What if una pratica che sovverte il format della espositivo: abbiamo una tesi ben delineata, sviluppata e supportata da un gruppo di lavoro transdisciplinare, mediata spazialmente dal “filtro” Gillick, ma la logica della mostra collettiva come coralità di opere d’arte realizzate da diversi artisti rimane la struttura alla base del progetto.

Possiamo osservare una condizione simile nella programmazione del Rooseum, dove “la mostra collettiva venne usata come un format di discussione, in cui le domande erano sollevate e i focus sviluppati all’interno [delle dinamiche] dell’organizzazione sociale e delle loro conseguenze.”445

Da Vi- International Communities (2001) a Creeping Revolution 2 (2003), da Normalization (2005) a Saltuna - the Baltic Sea Experiment (2005)446, le tematiche proposte rispondevano a questo proposito, il dialogo era sviluppato attraverso le differenze proprie delle opere selezionate, il format rispondeva a una logica di dinamismo, ma la categoria di riferimento era comunque quella tradizionale.

In questo caso specifico la situazione si poneva in termini di ambiguità, perché rischiava di assumere

444

mimeticamente le stesse condizioni di piacevolezza estetica e spettacolarizzazione su cui la mostra si interrogava; d’altra parte, la condizione di discussione interna ricade perfettamente nella metodologia della criticality abbracciata da questa pratica curatoriale.

In questo caso specifico, la curatrice rivendica il diritto della critica di accogliere la seduzione della narrazione e l’empatia del decorativo nei suoi strumenti, senza che le strategie concettuali vengano messe in discussione (Ivi, p. 407)

“Group Exhibition”, in There’s gonna be some troubles..”, cit. p. 105

445

Per una documentazione delle mostre, cfr. ivi, pp. 105 - 159

Nella programmazione, la cui qualità comunque non è qui in discussione, fa eccezione un progetto, Baltic Babel (settembre - novembre 2002), che per il suo carattere eterodosso è diventata, meritatamente, la mostra più citata dell’istituzione di Malmö.

Descritta come una mostra collettiva su ampia scala sull'arte e il nuovo assetto sociale del Baltico, si struttura come un mosaico di nove realtà indipendenti di varia natura, provenienti da diverse città della regione dell’Öresund (Copenhagen, Stoccolma, Helsinki, Tallinn, Riga, Vilnius, San Pietroburgo e Varsavia), che portavano avanti la propria attività di ricerca artistica e produzione culturale in uno spirito di rinnovamento politico e sociale, interrogandosi sulla propria condizione, la relazione con il contesto locale in cui operavano, la propria posizione e, in un’ottica più ampia, le dinamiche del mondo globalizzato. L’obbiettivo era quindi creare una mostra collettiva delle diverse produzioni che in quel momento storico animavano il territorio in oggetto e, attraverso la creazione di questo network, tentare un’analisi delle politiche culturali territoriali: non quindi una mostra collettiva di opere prodotte da artisti, ma di spazi gestiti da attivisti culturali.

Il gruppo selezionato447 era estremamente eterogeneo e includeva artist-run-space, festival cinematografici indipendenti, gruppi di analisi urbanistica e agenzie di ricerca di varia natura. Ciascuno aveva a disposizione uno spazio architettonico in cui poter portare avanti e presentare la propria attività, col risultato che la “babele” risultò composta di rassegne video, mercatini dedicati alla musica indie, un bar, una rivista “su supporto architettonico” (la parete del museo), e, ovviamente, mostre e performance.

“Il mix di di organizzazioni includerà vari modelli di pratica. Avranno tutte radici nelle arti visive, nel suo senso più ampio del termine, e porteranno l’energia della differenza e del dialogo nel complesso di una mostra. […] L’antica torre di

Questa la lista dei partecipanti: AVANTO - Helsinki Meida Festival, Copenhagen Free Univeristy,

447

Factory of Found Clothes, Goksal Gallery Foundation, INVOLVED, make it happen, Primitive/art bureau OPEN, Uglycute, Valie Export Society.

Babele venne costruita per raggiungere il cielo e fu il risultato di un’apparente sciagura delle diversità linguistiche dell’uomo. Questa Baltic Babel è piuttosto una proposta orizzontale. È un modo per celebrare le differenze nel cercare di raggiungere un ulteriore livello di comprensione gli uni degli altri - l’ambizione non è di raggiungere il cielo ma piuttosto di incontrarci”448

Il format riprendeva l’esperienza della sezione Project1:Pause della 4a edizione della Biennale di Gwangju (2002)449, curata dallo stesso Esche insieme a Hou Hanrou, in cui erano state invitate venticinque realtà indipendenti fra collettivi e artist-run-space, con la possibilità di curare la propria partecipazione all’evento. Attraverso la collaborazione con un gruppo di architetti, lo spazio era stato frazionato in strutture simili a dei padiglioni, assumendo l’aspetto di una caotica città temporanea, dove ogni elemento costituiva una nucleo a sé stante, in una conformazione che, se vogliamo, ricorda quella standard delle grandi Esposizioni Universali. [FIG. 15]

Attraverso questa cessione di autorialità curatoriale - espressa anche nell’anarchia spaziale - la mostra, da rassegna quale ci si aspetta da un progetto come quello di una Biennale, diventava una sorta di laboratorio, un network di esperienze globali riunite in un unico spazio, per confrontarsi e promuovere le proprie attività, ciascuno padrone della formalizzazione del proprio ambiente.

Baltic Babel si costituisce come una trasposizione del medesimo format in un contesto museale e, in questo passaggio, il Rooseum ufficializza la propria volontà di proporsi come luogo di snodo per le dinamiche culturali dell’intera area del mar Baltico, al di là dell’esperienza temporalmente circoscritta del progetto.

C. Esche, “Baltic Babel”, in There’s gonna be some troubles.., cit. p. 127

448

Cfr. Hou Hanru, “Event City and Pandora’s Box:Curatorial Notes on the 2002 Gwangju Biennale” in

449

Yishu 1, no. 2, Giugno 2002, p. 91; Jonathan Napack “Alternative Visions,” in Art in America, 90, n. 11,

Ma che tipo di rapporto si viene a creare con le realtà coinvolte? Quali riflessioni e quali conclusioni si possono trarre dall’ospitalità istituzionale agli attivismi indipendenti?

Rebecca Gordon Nesbitt450 ritiene che progetti di questo tipo abbiano un carattere di forte ambiguità e rischino di essere totalmente sbilanciati a favore dell’istituzione, “colpevole” di assorbire le energie451 delle piccole realtà al pari di una multinazionale, nascondendo, con la retorica dell’ospitalità e della valorizzazione, un’ azione di patronato e di marketing:

“Uno dei più grandi rischi del commercio globale è l’impatto che questo può avere sulle comunità locali. Le grandi società di comunicazione comprano in blocco le piccole emittenti televisive locali, con il risultato di controllare la programmazione lanciando prodotti grossolani, mentre i fast food cercano di rimpiazzare la cucina locale ampliandosi, così che i ristoranti locali cercano di imitare il cibo importato per raggiungerne la popolarità. Perciò, quando un’istituzione artistica inizia a comportarsi in questo modo, dobbiamo essere vigili, affinché la cultura locale e i fondi per le piccole iniziative non vengano meno” 452

Nell’esprimere la sua preoccupazione, include, oltre alle esperienze di Baltic Babel e Gwangju (per le quali si dimostra più benevola), quelle di Live-Life, a cura di H. U. Obrist (Musée d’Art Moderne de la Ville, Parigi 1996), Democracy, mostra di fine anno del Royal College di Londra, supervisionata da Matthew Higgs (2000) e Century City (Tate Modern, 2001).

In realtà queste ultime si differenziano da quelle di Esche per un principio sostanziale: si tratta di mostre che raccolgono sì le testimonianze e l’eredità degli spazi

Cfr. Ead, “Harnessing the means of production”, in New Institutionalism. Vesrksted #1, pp. 59 - 87.

450

“Se le istituzioni non si rinnovano, diventano secche e si sgretolano. Le istituzioni necessitano sempre

451

di carne fresca”, Dave Burrows, “Carrer Opportunities, the ones that never knock”, in Variant, v.2, n. 5,

Primavera 1998, pp. 20-22; cit. ivi, p. 72

Ivi, cit. p. 61

indipendenti ma filtrandole attraverso lo strumento della curatela, non lasciando agli indipendenti alcun spazio di costruzione dell’identità personale attraverso la narrazione; in questo senso, non differiscono dal metodo di lavoro della mostra tematica.

Nel momento in cui agli spazi invitati viene lasciata la libertà dell’autodeterminazione, il rapporto si riequilibra: da una parte l’istituzione, rendendo manifesto il suo potere, legittima ulteriormente il suo ruolo sul territorio, dall’altra permette alle piccole realtà di sfruttare la sua autorevolezza per aprire nuovi canali di comunicazione. La dinamica è consapevolmente spiegata da Jacob Jakobsen, co-fondatore della Copenhagen Free University, che così giustifica la sua adesione a Baltic Babel:

“Penso che la nostra partecipazione al Rooseum fosse utile in termini di c o m u n i c a z i o n e . N o i a b b i a m o r e a l i z z a t o u n a s e r i e d i “ m e d i a products” (diapositive, un pezzo audio, alcuni poster eccetera), che possono adattarsi a qualsiasi contesto, in relazione alla comunicazione e alla diffusione delle nostre idee e metodi. Ci piacerebbe verificare se i media products ci danno la possibilità di viaggiare e le piattaforme artistiche sono utili in questo senso. Certamente ci sono posti in cui non andremmo, ma la nostra esperienza al Rooseum con ‘Baltic Babel’ è stata positiva”453

L’apertura del format della mostra collettiva agli spazi indipendenti rappresenta la concretizzazione dell’auspicata concezione dell’istituzione come “community center”, esplicata in una apertura alla moltitudo454. Come sottolinea Jonas Ekeberg, progetti di questo tipo rappresentano l’anima del Nuovo Istituzionalismo più vicina all’attitudine attivista degli anni Novanta, sviluppata proprio da Esche e Manuel Borja-Villel:

ivi., cit. p. 78

453

“La moltitudine è una molteplicità, un insieme di individualità, un complesso di relazioni, che non è

454

omogenea e identica al suo interno e mantiene un rapporto indistinto e inclusivo con chi ne sta fuori. Il popolo invece tende all’identità e all’omogeneità interne pur affermando la propria differenza da chi ne sta fuori ed escludendolo. Mentre la moltitudine è un insieme di rapporti non conclusi e da realizzare, il popolo è una sintesi realizzata pronta per la sovranità. Nel popolo sono presenti una sola volontà e un solo agire indipendente da e spesso in conflitto con le molteplici volontà e i molteplici agire della moltitudine” Cfr.

Michael Hardt e Antonio Negri, Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004, cit. p. 130.

“Pur costruendo [la propria pratica] sulle stesse idee sperimentali di Maria Lind, Esche vi ha aggiunto una dimensione cruciale di critica diretta anti-capitalista. Anche se non lo dice apertamente, questa coincide con l’ascesa dei vari movimenti sociali e no-global del finire del secolo, e, inoltre, con l’ideologia dello stesso movimento descritta nel seminale volume ‘Impero’ di Antonio Negri e Michael Hardt, pubblicato nel 2000” 455

Che la pratica di Esche e Borja-Villel sia animata da quello che Ekeberg definisce un “impulso attivista” è una lettura totalmente condivisibile. Questo riscontro non deve, tuttavia, portarci a estrapolare le pratiche qui indagate dal loro contesto, quello del sistema dell’arte. Il rischio è sempre quello di interpretare la curatela e la ricerca artistica oltre i confini del regime dell’Aisthesis delineato da Rancière, e ricadere così nelle insidiose condizioni della svolta etica che tanto ne hanno vincolato la lettura negli ultimi decenni. Saremmo tentati, insomma, di proporre una lettura positiva di Baltic Babel per il semplice intento inclusivo, e di perderci, di conseguenza, l’interessante ambiguità che dà spessore oltre la retorica.

L’entusiasmo rivoluzionario e di apertura costituisce infatti solo un aspetto della riflessione che il progetto mette in campo. La possibilità di autodeterminazione e auto- narrazione, con cui è stato ristabilito (almeno temporaneamente) il precario equilibrio fra istituzione e spazi indipendenti, infatti, passa attraverso le strategie della promozione di sé e dei propri prodotti: la società dei consumi rimane la cornice di riferimento. Il progetto va quindi letto nelle più ampie dinamiche dell’industria culturale: la rivendicazione di una propria libertà espressiva, del proprio diritto di

Cfr. Id, “Institutional Experiments Between Aesthetics and Activism”, in S. Hebert e A. Szefer Karlsen

455

(a cura di), Self-Organised, Open Edition, Londra, 2013, pp. 50 - 61, cit. p.56

Cfr. M. Hardt, A., Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, 2003; A. Negri, Arte e

esistere come realtà periferiche, passa attraverso l’esposizione delle “merci” che si hanno da offrire.456

Seppure animato da uno spirito antagonista, Baltic Babel utilizza gli stessi strumenti comunicativi del potere - nello specifico il giogo della economia della reputazione - come l’organizzazione spaziale in isole autonome auto-promozionali attesta, ricordando lo spartito del “complesso espositivo”; al di là degli intenti, l’effettività delle azioni della moltitudo è limitata alla consapevolezza delle dinamiche a cui si deve sottostare per forgiare la propria identità individuale e tentare così di sfuggire alla massificazione.

Sull’ambiguità che caratterizza le economie della produzione culturale indipendente cfr. Rebecca

456