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L A SERIE L IVING A RCHIVES (Van Abbe Museum, Eindhoven 2005/2009)

Storia delle mostre: ipotesi per un canone della pratica neoistituzionalista

3.3. La mostra archivistica: memoria collettiva e multi-autorialità

3.3.2. L A SERIE L IVING A RCHIVES (Van Abbe Museum, Eindhoven 2005/2009)

Se Telling Histories si relazionava con l’archivio per indagare principalmente la qualità della mediazione con il pubblico, alla base del programma espositivo Living Archive è la volontà di promuovere la totale trasparenza.

In quanto istituzione pubblica municipale, la legislazione olandese prevede che venga conservata documentazione di tutte le attività compiute all’interno dell’istituzione stessa. Ne consegue che oggi il Van Abbe gode di un archivio ricchissimo, che permette la puntuale ricostruzione non solo delle acquisizioni che hanno portato alla formazione della collezione, della quantità dei finanziamenti pubblici di cui ha beneficiato, ma anche di tutti i progetti sviluppati e, persino, di quelli che per varie ragioni non son stati portati a compimento, per un totale di circa cinquemila e cinquecento faldoni, in larga parte fruibili liberamente online, che copre un arco temporale che va dal 1936 ad oggi.

Cfr. gli atti del convegno L. Gillick, M. Lind (a cura ), Curating with Light Luggage, Revolver Books,

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Si tratta di un patrimonio inestimabile che oltre a dare puntuali informazioni sui contenuti delle attività sostenute, ci permette di leggere in trasparenza l’evoluzione della politica istituzionale. L’archiviazione è sostanzialmente un’azione soggettiva: fatti salvi gli obblighi normativi, il funzionario archivia ciò che ritiene importante. Ne consegue che su un arco temporale così vasto, un archivio possa avere periodi di catalogazione standard, durante i quali l’archivista si è limitato alla catalogazione d’ufficio (come sotto la direzione di Edy de Wilde), e altri di più puntiglioso approfondimento, che denotano una maggiore libertà di azione ed entusiasmo del funzionario: per esempio, sotto la direzione di Jean Leering, negli anni Settanta, l’archivista è arrivato a conservare appunti riservati alla guardiania o disegni del direttore stesso. Come evidenzia l’attuale referente per l’archivio Diana Franssen, documenti di questo tipo ci danno indizi su quanto, in quel periodo, il lavoro dei diversi dipartimenti della struttura dovesse essere democratico - vista la comunicazione informale - e sistemico, e ci permettono di tracciare una linea del susseguirsi delle diverse ideologie all’interno dell’archivio.475 Quelli che possono sembrare aneddoti di poco conto all’interno di una concezione rigida del lavoro d’archivio, possono essere informazioni preziose sul lungo periodo, evidenziando come la griglia del setaccio di chi colleziona i dati possa portare, se troppo stretta, a una perdita di memoria, non per negligenza ma per semplice adempimento burocratico.

Quando Esche assunse il ruolo direttivo nel 2004, il primo passo fu l’unione del dipartimento archivistico con quello curatoriale: l’archivio entrava così a far parte a pieno titolo della collezione.

L’azione rispondeva innanzitutto a una posizione critica anti-capitalistica ben precisa da parte del direttore:

“On the Van Abbemuseum Archives: a Conversation between Charles Esche, Diana Franssen and Nick

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“La distinzione è arbitraria e basata sulla logica del mercato: ciò che viene acquisito con il denaro è collezione, ciò che non viene acquisito con il denaro è archivio. Così la distinzione si basa davvero su un’errata consapevolezza di come funziona l’arte, perché gli artisti non necessariamente fanno queste distinzioni. Una volta che si saranno unite le due cose, si ignoreranno le distinzioni economiche fra quanto acquistato e semplicemente quanto prodotto dal processo di creazione delle mostre. Ecco che quindi, improvvisamente, tutto questo discutere su cosa sia collezione e cosa archivio, autonomo o dipendente, diventa irrilevante. È il materiale a essere interessante, e la storia che racconta che diventa il modo dominante con cui noi lo guardiamo.”476

Non si trattava di una dichiarazione fine a se stessa, rispondente al solo posizionamento curatoriale. L’accorpamento dei due fondi risolveva il problema sul dove collocare il cosiddetto “archivio grigio”, la sezione ambigua dei lavori non finiti, delle prove d’artista, dei progetti intermedi per i singoli lavori o per gli allestimenti delle mostre che son stati scartati lungo il processo creativo.477 Al contempo, rispondeva a una logica di mediazione con il pubblico ben precisa: in questo modo l’archivio “diventava soggetto di mostre e investigazioni, non solo per gli storici dell’arte e le persone interessate alla storia del museo, ma anche per il pubblico generico. E per noi

Ivi, p. 24

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Sul dilemma intorno alla tipologia auratica di questo tipo di produzioni, si è espresso Boris Groys:

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“L’esposizione della documentazione artistica avviene di solito in forma d’installazione. […] Collocare la

documentazione in un’installazione come atto di inclusione in un particolare spazio, non è un’azione neutra che mostra qualcosa, ma un’azione che raggiunge sul piano spaziale quello che il racconto raggiunge sul piano temporale: l’inclusione nella vita” e ancora “La documentazione artistica, che per definizione consiste di immagini e testi riproducibili, acquisisce tramite l’installazione l’aura dell’originale, del vivente, dello storico.”

cfr. Id, “Art in the Age of Politics: From Artwork to Art Documentation” in Art Power, MIT Press, Cambridge MA, 2008 - trad. it, Postmedia Books, Milano 2012, cit. p. 72 e p. 75

[curatori], significava essere liberi di pensare a come la storia del museo veniva raccontata pubblicamente.478

Il primo progetto elaborato dal nuovo team curatoriale transdisciplinare fu proprio Living Archives, un ciclo di otto appuntamenti sviluppatosi nell’arco di quattro anni, che volgeva l’attenzione alla storia del museo alle sue politiche di acquisizione e allestitive.479 Nei propositi si distanziava quindi da Telling Histories del kunstverein di Monaco, evitando il coinvolgimento di artisti nella mediazione. La piena autorialità rimaneva quindi curatoriale, per quanto ampliata agli esperti archivisti. Inoltre gli archivi presi a oggetto di analisi non erano solo quelli chiusi, relativi alle mostre, ma anche i frammenti relativi a singoli lavori o a porzioni della collezione.

Il programma ebbe il merito di valorizzare esperienze passate - in particolare le mostre leggendarie The Street. A Form of Living Together (1972) e Imagination into power (1980), [FIG. 18] nelle cui esperienze il museo dedicò spazio alle esperienze indipendenti e agli spazi alternativi che animavano la produzione culturale di Eindhoven - e di fornire momenti di approfondimento per le opere della collezione, accompagnandole con ampi corredi documentativi, volti a evidenziare come il discorso sull’autonomia dell’arte esista esclusivamente nei termini di una riflessione teorico- critica (come in Mixed Messages e Stars and Stripes [FIG. 19] entrambe del 2008). La costruzione degli approfondimenti attraverso le carte potrebbe far pensare a un’esposizione estremamente noiosa, ad esclusivo interesse dei cultori e poco

Ivi, cit. p. 15

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L’unione dei due dipartimenti, come abbiamo già visto, era già stata auspicata da Bart De Baere (cfr. Id., “The integrated museum”, in Stopping the Process, p. 108 - 126).

Attuata sia dal Van Abbe, con Charles Esche, sia al Reina Sofia di Madrid, con Manuel Borja-Villel, segnerà una nuova via di ricerca sull’esposizione della collezione museale, come vedremo nel capitolo successivo.

Il programma consisteva in: “The Street. A form of living together” e “People’s Park” (ottobre 2005 -

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aprile 2006), “Meanwhile..behind the scenes” (maggio 2006 - febbraio 2007), “Wo stehst du mit deiner kunst, kollege?” (febbraio - settembre 2008); “Imagination into pover” (settembre 2007 - marzo 2008); “Mixed messages” (aprile - settembre 2008), “Stars & Stripes forever” (ottobre 2008 - aprile 2009) “Civilian Virtue, Artistic Sense and Community Spirit” (aprile -novembre 2009).

C f r. S i t o u ffi c i a l e d e l m u s e o : h t t p : / / v a n a b b e m u s e u m . n l / e n / p r o g r a m m e / d e t a i l / ? tx_vabdisplay_pi1%5Bptype%5D=18&tx_vabdisplay_pi1%5Bproject%5D=544

appetibile per un pubblico generico. In realtà, fra le minuziose carte non annoveravano solo schede di prestito o di stato di conservazione delle opere d’arte ma una lunga serie di aneddoti succosi che andavano a solleticare proprio il fruitore che all’arte era poco avvezzo, spogliando le relazioni umane del mondo dell’arte di ogni appannaggio auratico. Animate discussioni fra artisti e curatori, compromessi vinti attraverso passaggi di denaro, braccio di ferro fra direttori e amministrazioni comunali: la comunità artistica era messa a nudo e il mestiere dell’artista e del curatore svelato in tutta la sua banale quotidianità. Soprattutto il museo veniva restituito alla vita, aperto agli appetiti e alle curiosità del pubblico, e non si faceva né tempio né forum - per usare la concezione di Carol Duncan480 - ma macchina narratrice.

Nonostante questa piccola rivoluzione, solo in pochi appuntamenti si riuscì a dar seguito alla volontà sperimentale sul format che si era prefissato inizialmente.

Fra tutti il più interessante in questo senso fu indubbiamente Meanwhile… behind the scenes (maggio 2006 - febbraio 2007)481[FIG. 20]. La mostra si focalizzava su un arco

temporale di settant’anni, dal 1936 al 2006, e per ogni anno venne proposto un oggetto simbolo - opere, documenti, fotografie o oggetti feticcio - della storia del museo. Alla timeline istituzionale si aggiungeva una seconda rispondente alla disciplina storico-artistica e una terza più ampia che tracciava il contesto storico, collegando la micro-storia del Van Abbe alla macro-storia geopolitica. Così facendo, la narrazione estremamente puntuale dell’archivio del museo diventava l’elemento per accendere l’attenzione su una narrazione più ampia non solo sulla produzione dell’arte coeva, ma anche su una visione globale.

Progetti di questo tipo dimostrano come gli intenti riflessivi di critica istituzionale possano avere un respiro assai più ampio dell’autoreferenzialità e rispondere,

Cfr. Cameron, “The Museum, a Temple or the Forum” in Curator, XIV, 1, 1971, p. 11-24.

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In realtà il format espositivo raccoglieva l’eredità dell’allestimento della mostra “Timeline: A Chronicle

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of U.S. Intervention in Central and Latin America, AIDS Timeline”, realizzata dal collettivo Group Material nel 1986. Cfr. Claire Grace, “Counter-Time: Group Material’s Chronicle of US Intervention in Central and South America”, in Afterall, n. 26, primavera 2011 (versione online); e Ead, Group Material, AIDS Timeline, 1989 - inserto “The artist as curator, n. 4, in Mousse, n. 45, 2015