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La retrospettiva laboratoriale: D ISPOSITIV W ORKSHOP 6 R IKRIT T IRAVANIJA

Storia delle mostre: ipotesi per un canone della pratica neoistituzionalista

1.3. La retrospettiva laboratoriale: D ISPOSITIV W ORKSHOP 6 R IKRIT T IRAVANIJA

(Kunstverein Monaco, Ottobre 2004)436

Progettare una retrospettiva di una ricerca relazionale rappresenta una sfida per un curatore: abbiamo già visto come la soluzione canonica dell’esposizione della documentazione video-fotografica sia assolutamente limitante nella restituzione delle situazioni create dall’artista, non solo in termini qualitativi ma talvolta anche quantitativi, se l’artista non si è preoccupato (o si è del tutto opposto) al documentare l’azione.437 Tiravanija ricade esattamente in queste condizioni: incurante di registrare quanto orchestra, dichiara di non interessarsi alla documentazione fotografica dei suoi lavori perché l’immagine non è rispondente al lavoro in sé e il suo auspicio è, piuttosto, che il ricordo delle sue performance venga perpetuato nella mente (e nei racconti) delle persone che l’hanno vissuta.

Il progetto al Kunstverein lavorava proprio sul compromesso fra due posizioni antitetiche: quella (rigida, almeno nella teoria) dell’artista determinato a non cedere alle pressioni del mercato, che necessita la circolazione degli oggetti, e quella del curatore interessato a creare momenti espositivi per il proprio pubblico anche per le ricerche che non corrispondono ai canoni tradizionali.

Maria Lind ha posto al centro del progetto l’opera Untitled, 1994 (presentata alla Galerie Schipper & Krome di Colonia), una situazione ambientata in un bar in cui un monitor trasmette il film di Michael Fassbender Angst essen Seele auf (1973) ed è possibile consumare bevande. La mostra consisteva nel processo di ricostruzione di questo scenario da parte dello stesso Tiravanija e di un gruppo di studenti provenienti da diverse città, curatori e altri intellettuali e, ovviamente, dall’esperienza che si

Il progetto è l’ultimo appuntamento del programma Dispositiv Workshop, aperto dal Kunstverein nel

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2003, in cui si richiedeva agli artisti invitati (oltre al Tiravanija, Oda Projesi, Annika Eriksson, Katya Sander e Ruth Kaasserer) di realizzare lavori con parte della comunità locale. Questo è stato però l’unico appuntamento ad assumere la veste retrospettiva.

Cfr. Intervista all’artista a cura di Felicia Herrschaft (http://www.fehe.org/index.php?id=659)

andava a creare in questo processo. Così durante i lavori di carpenteria si mangiava e si beveva (la Lind sottolinea come la condivisione gastronomica rispondesse innanzitutto alle necessità fisiologiche - ed economiche - prima che alle logiche estetico-speculative438) e si conversava, grazie ai contributi di curatori che avevano già lavorato con l’artista e ne conoscevano il lavoro, o esperti in altri settori (come il regista e storico del cinema Robert Fisher, invitato per parlare del film di Fassbender). L’intento non era tanto riflettere sul lavoro di Tiravanija in sé, quanto “ragionare su come fosse possibile attivarlo nuovamente”439.

In questo modo si creava il campo per ragionare su due obiettivi istituzionali. Il primo, più strettamente curatoriale, è l’indagine sulla reiterazione delle mostre performative ai fini di una loro storicizzazione, senza venir meno al carattere immanente e al rifiuto per ogni forma stabile e precostituita che costituiscono l’identità caratterizzante certe tipologie di lavori. Il secondo, riguardava il rapporto con il pubblico che, abbiamo visto nel capitolo precedente, rappresenta uno dei nodi irrisolti delle performance relazionali. In questo caso, la curatrice risolve la questione coinvolgendo il pubblico nella sensibilità relazionale propria di Untitled, e così offrire la possibilità di una comprensione più approfondita, attraverso l’esperienza, di quali fossero le riflessioni alla base; Maria Lind sta permettendo al gruppo del workshop di vivere quel momento che solitamente, nei lavori dell’artista è riservato agli addetti ai lavori. La scelta accoglie quindi una logica inclusiva, seppur circoscritta a un gruppo selezionato e privilegiato (studenti di accademie e scuole d’arte) e non può rappresentare, per questioni prettamente pratiche, una soluzione su scala più ampia. Ha comunque il merito di centrare il nodo della riflessione (l’impossibilità di rispondere all’obiettivo con una mostra retrospettiva di stampo tradizionale) e di porsi come esempio, isolato ma

“Il cucinare fa parte del lavoro di Rikrit ma la decisione di cucinare durante il workshop non era

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motivata da questo ma più da questo: dovevamo mangiare qualcosa quando eravamo insieme, non avevamo un grande budget ed era anche carino farlo insieme alla kunstverein”. Cfr. Ibidem

Ibidem

felice, perché responsabilmente calibrato sulla consapevolezza dei limiti del proprio operare.

Infine, è necessario riflettere sul riconoscimento del valore dell’operazione da parte dell’artista stesso. Va infatti constatato che l’esperienza non è riportata in nessuna delle pagine ufficiali delle gallerie440 che rappresentano l’artista, né come mostra monografica (categoria nella quale potrebbe tranquillamente essere inscritta) né sotto altre voci. Possiamo trarne alcune riflessioni: la prima è che l’artista non abbia ritenuto che il format rispondesse alle sue esigenze espositive (d’altronde, non lo replicò in altre occasioni), fatto che evidenzierebbe come operazioni di questo tipo si aprano a esiti molteplici e, laddove riescano a far avanzare le riflessioni in una direzione, come quella del rapporto con il pubblico, non si esclude che possano avere risultati limitati, o quasi nulli, su altri fronti.

La seconda riguarda il ruolo assegnato a queste pratiche nelle strategie comunicative del sistema dell’arte, o quanto meno del suo aspetto più strettamente commerciale: l’artista e/o i suoi galleristi non hanno evidentemente ritenuto che l’esperienza fosse un momento cruciale tale da meritare la selezione nell’elenco ufficiale delle mostre personali.

Al di là di queste riflessioni, l’esclusione del progetto dalle biografie ufficiali è una conferma del fatto che Dispositive workshop indubbiamente sfugge alle categorizzazioni comunemente adottate. Il rischio che ne deriva è che progetti non incasellabili nella struttura delle tipologie di mostre precostituita fatichino a uscire fuori dai confini delle riflessioni metodologiche che li animano o, peggio, finiscano dimenticati, citati di sfuggita in qualche intervista e mai indagati nelle proprie potenzialità in prospettiva storica.

Si fa riferimento alle gallerie Pilar Corrias (http://www.pilarcorrias.com/artists/rirkrit-tiravanija/); West

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Den Hag (http://westdenhaag.nl/artists/Rirkrit_Tiravanija/3/); Lyla Gallery (http://lylagallery.com/artist/ rirkrit-tiravanija/)