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4.1 Il sogno italiano

Nel giro di trent‟anni, a partire dal 1980, la provincia di Brescia assiste ad un aumento esponenziale della popolazione immigrata. Nel 1980 si contavano 902 stranieri con permesso di soggiorno. In Lombardia province come Bergamo (1.518), Varese (2.585), Como (2.741), Pavia (2.662) annoveravano una presenza di migranti maggiore di quella di Brescia, senza contare la metropoli di Milano con 41.973 (Cominelli, 2008). Già dal 1993, però, con 12.112 stranieri residenti nella sua provincia, Brescia diventa la seconda città lombarda per numero di cittadini immigrati dopo i 74.152 del capoluogo regionale (p. 15). Nel 2007 la distanza tra le due città si accorcia ulteriormente con Brescia che annovera 120.845 stranieri residenti contro i 317.536 di Milano (p. 15). Il dato però più significativo è che, sempre nel 2007, a fronte di un‟incidenza della popolazione straniera del 5% sul totale della popolazione nazionale, la Lombardia attrae il 7,6% dei cittadini stranieri e il bresciano il 10,1%. Il doppio, quindi, della media nazionale. Se consideriamo poi il solo comune di Brescia nel 2011 vediamo che il rapporto tra la popolazione totale e quella straniera sale al 18,7% (Sitan, 2012, p. 4), mentre nella provincia nel suo complesso la popolazione straniera di assesta sul 13,6%.

I cittadini d‟origine indiana, a causa della loro “specializzazione” zootecnica, sono distribuiti maggiormente nei comuni agricoli della provincia, tuttavia la loro presenza nel capoluogo sale e dal 2007 si ritrovano tra le 10 nazionalità più rappresentate nel capoluogo (p. 14).

Nel 2011 di cittadini pakistani presenti in Lombardia sono 33.174 e nella sola provincia di Brescia se ne contano 14.140, l‟8,3% del totale degli stranieri lì residenti. Questo numero

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colpisce anche perché nell‟intera Emilia Romagna, la seconda regione d‟Italia per numero di migranti pakistani, non ne risiedono molti di più: 17.053.

Per quanto riguarda i cittadini provenienti dall‟India, anche in questo caso nel 2011 la Lombardia è la prima regione con 46.392. La provincia di Brescia ne raccoglie 15.142 contro i 16.123 dell‟Emilia Romagna.

I cittadini pakistani nel comune di Brescia rappresentano la comunità più numerosa: circa il 10%, mentre gli indiani sono il 5,5%. I cittadini pakistani quindi sono più concentrati nel capoluogo di provincia, mentre gli indiani prevalgono nel resto della provincia84.

Le comunità pakistana e indiana si distinguono tutt‟oggi per la preponderante presenza maschile anche se il processo di ricongiungimento avviatosi verso la fine degli anni „90 ha mutato carattere ed ha superato la fase dell‟immigrazione solamente lavorativa. Questo cambiamento è evidenziato anche da indicatori indiretti come la presenza di luoghi di culto e di attività commerciali cosiddette “etniche”, quali i negozi di alimentari, ristoranti, negozi di accessori. Da una quindicina d‟anni, un arco di tempo assai breve, si sta passando a una migrazione di popolamento.

Come ho già anticipato, la maggioranza dei cittadini indiani e pakistani proviene da una macroregione, il Panjab che fu divisa tra l‟India e il Pakistan nel 1947. I Panjabi pakistani presenti nel bresciano sono quasi totalmente di fede musulmana 85, mentre i Panjabi indiani si riconoscono quasi del tutto nella religione sikh. Personalmente ho incontrato una sola cittadina indiana induista, non proveniente peraltro dal Panjab, che ho tuttavia ritenuto utile sentire in merito alla tematica dell‟onore, perché esso è percepito in modo condiviso in tutta la fascia dell‟India del Nord, indipendentemente dalla fede praticata.

La presenza di cittadini indiani sikh in Lombardia è cresciuta in modo massiccio a partire dagli anni ‟90 per ragioni economiche legate alla scelta, effettuata già al tempo del primo ministro Jawarharlal Nehru (1947-1964), di incentivare lo sviluppo agricolo del Panjab a scapito di quello industriale. La “rivoluzione verde” malgrado l‟iniziale esplosione produttiva, si ripercuote pesantemente sulla società a causa della concentrazione della proprietà terriera nelle mani di pochi grandi proprietari, a discapito dei piccoli che non riescono ad affrontare i costi della modernizzazione (Compiani & Galloni, 2005, p. 145). L‟uscita dall‟India da parte dei cittadini professanti la fede sikh, inoltre, avviene anche per ragioni politiche: il primo

84 I dati che riguardano la presenza di cittadini indiani a pakistani nel 2011 in Lombardia e nella provincia di Brescia sono tratti dal sito: http://www.tuttitalia.it/statistiche/cittadini-stranieri-2011/. [Consultato il 15/11/2012] 85 In Italia risultano presenti cittadini pakistani di religione cristiana (Brumana, 2006, p. 5) ma io non ne ho mai incontrati. Mi sono informata sulla loro presenza a Brescia ma mi è stato riferito che preferiscono non rivelare la loro appartenenza religiosa e tendono quindi a mescolarsi con la maggioranza musulmana (T15).

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ministro Indira Gandhi aveva tentato di contrastare il successo del partito autonomista sikh Akali Dal, vincitore delle elezioni nello Stato del Panjab nel 1977, accordandosi segretamente con Jarnail Singh Bhindranwale, leader estremista di un‟organizzazione anch‟essa sikh ma che puntava alla formazione di uno stato indipendente: il Khalistan (Tomasini, 2005, pp. 32-33). Questo tentativo di divide et impera finisce con innestare una stagione di violenze nel Panjab che sfugge al controllo di Indira Gandhi costretta in ultimo a fermare Bhindranwale con l‟attacco armato al Tempio d‟oro di Amristar, dove si era asserragliato con i suoi seguaci e centinaia di civili. La violazione del simbolo del sikhismo è un trauma non solo per il gruppo estremista, ma per tutti gli appartenenti a quella religione (Restelli, 2005, p. 107), che Indira paga venendo assassinata nello stesso anno (1984) dalle sue guardie del corpo. In Panjab segue un altro decennio di conflitto contro il movimento pro-Khalistan e di durissima repressione che si conclude nel 1993 con la sconfitta del movimento separatista (p. 109). La condizione di grave instabilità politica unita alla crisi economica e sociale induce chi può ad uscire dal paese.

La chiusura delle precedenti mete d‟emigrazione (Peano Cavasola, 2011, pp. 173-174) situate nell‟Europa del Nord, Stati Uniti, paesi del Golfo persico e, soprattutto, il Regno Unito, contribuiscono a convogliare le traiettorie migratorie verso l‟Europa del Sud e l‟Italia. L‟Italia in questa fase ha le frontiere aperte e in molti vi immigrano col progetto di trasferirsi successivamente nei tradizionali paesi d‟immigrazione. I primi migranti indiani trovarono impiego nei circhi e si stabilizzano nel reggiano e nel modenese. A partire dagli anni ‟80 s‟inseriscono nel campo zootecnico. (Bertolani, 2005, p. 165). Anche in Lombardia l‟impiego predominante degli indiani Panjabi è nel settore agricolo e in particolare nell‟area zootecnica. L‟alta ricettività di questo settore nei confronti dei lavoratori indiani è segnalata dal loro basso tasso d‟irregolarità, il che fa dedurre che essi giungano con l‟impiego assicurato grazie alla segnalazione di parenti “…o perché comunque sono più appetibili nel mercato dei lavoratori di altre nazionalità.” (Peano Cavasola, 2011, pp. 174-175). Tale specializzazione non va attribuita a una inclinazione “culturale” o “naturale” dei sikh per la cura dei bovini ma, piuttosto, a una convergenza di interessi tra domanda e offerta già verificatasi in Emilia e sostenuta da una bene organizzata rete d‟intermediazione (Bertolani, 2005, pp. 168-169).

La migrazione internazionale di manodopera musulmana, egualmente al resto di quella indiana, inizia agli albori del „900 con il trasferimento di lavoratori dal Subcontinente verso altre colonie britanniche come il Kenya, l‟Uganda, Trinidad, Fiji, Sud Africa. In epoca

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postcoloniale, intorno agli anni ‟50, nuovi flussi di lavoratori sono attirati nelle fabbriche tessili britanniche.

Per ciò che riguarda specificamente il Pakistan, i flussi migratori più consistenti provengono dal distretto di Mirpur nell‟Azad Khashmir, dalla piana di Photohar e dal distretto di Sialkot in Panjab. Si tratta di catene migratorie in cui chi era riuscito a sistemarsi aiutava parenti e amici a raggiungerlo e così avanti. Città come Bradford, Leeds o Manchester divengono delle piccole Jhelum, Mirpur o Gujrat (Qadeer, 2006, p. 131). A questa prima ondata di migrazione internazionale successiva all‟indipendenza, negli anni ‟70 ne segue una indirizzata verso i paesi del Golfo persico che grazie agli introiti dovuti all‟aumento del prezzo del petrolio finanziano dei massicci piani edilizi. Vengono coinvolti soprattutto lavoratori con scarsa specializzazione e manovali, molti dei quali provengono dalle aree rurali. I lavoratori originari dalle prime aree di emigrazione, grazie a un‟organizzazione già pronta, beneficiano anche di questa seconda opportunità, che si estende comunque anche ad altri distretti del paese. Si tratta di una migrazione solo maschile perché la concessione dei visti d‟ingresso anche alle famiglie viene rilasciata solamente a certe categorie professionali d‟alto profilo come ingegneri, medici etc. Da ciò consegue che il denaro guadagnato è investito tutto nei luoghi d‟origine dei migranti. Nel Golfo si sviluppa e si perfeziona l‟organizzazione delle catene migratorie che negli anni ‟80 e ‟90 si trasformano in un trampolino per i nuovi flussi diretti all‟Europa, USA e Canada. Dopo vent‟anni, infatti, la forza attrattiva del boom edilizio dei paesi del Golfo comincia a esaurirsi. La domanda è rivolta oramai principalmente ai professionisti, agli operai molto di meno (pp. 131-132). L‟Europa e gli Stati Uniti diventano così importanti sbocchi migratori e con essi anche l‟Italia.

L‟impatto delle rimesse sui territori di partenza è profondo: esso comporta un miglioramento degli standard di vita essenziali e un aumento dei consumi in beni ritenuti prestigiosi: una nuova casa, elettrodomestici, abiti. Il denaro è utilizzato per riaffermare il prestigio della famiglia („izzat ) tramite i consumi e la celebrazione di matrimoni sontuosi che a loro volta incideranno positivamente sull‟onore della famiglia.

La lontananza di molti degli uomini di una famiglia causa anche una rimodulazione dei ruoli di genere giacché le donne cominciano a doversi occupare anche di ambiti esterni alla casa, tuttavia da ciò non conseguirà necessariamente un rafforzamento dell‟autonomia femminile. Sarà utile tenere a mente quanto afferma l‟urbanista d‟origine pakistana Mohammed Qadeer (2006) anche per leggere la realtà del bresciano circa l‟onore della donna:

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Prosperity does not lead to the modernization conceived by theorists. Social conservation increases as households with a lower status climb the social ladder. For example women of migrant households with a lower status start observing purdah (veil) and stop working in fields, as they become more “respectable” […] What it means is that traditions and religious observances are reinvigorated with material advancement. Social change proceeds as much by reincorporating traditions and reviving religious practices as by adopting modern material ways. Migration is a driving force in this dialectical process (p. 134).

L‟insediamento dei cittadini pakistani nel bresciano inizierà negli anni ‟90 dal distretto industriale della Val Trompia con uomini migranti di mezza età (T 15). Nel 1991 quella pakistana risultava essere la settima nazionalità straniera presente nel comune di Brescia. Dieci anni dopo diventerà la prima e manterrà la posizione fino al 2011.

Dal punto di vista sociale non siamo ancora di fronte a una comunità molto stratificata al suo interno come si può rilevare in altre realtà come quella britannica:

…l‟immigrazione pakistana in Italia è un‟immigrazione di ripiego quindi non è che sia l‟Italia il luogo di emigrazione di intellighenzie pakistane. La maggior parte tende ad andare in Inghilterra o negli Stati Uniti o altri paesi, non tanto l‟Italia. Per cui quella che è arrivata in Italia devo dire che è stata un‟emigrazione pakistana da lavoro, sostanzialmente da lavoro subordinato. E attualmente in questa fase non abbiamo ancora una specie di diverse classi di rappresentanze pakistane dovute a ceto o a cultura diverse. Abbiamo la stragrande parte di lavoratori che lavorano ancora nel lavoro subordinato. C‟è una tendenza a cercare di sviluppare attività in privato in proprio micro, che vanno dal barbiere, va al negozio, va alla consulenza, va al trasporto, va al volantinaggio però sono ancora diciamo ancora attività di basso livello in termini di investimento professionale o addirittura anche di finanza. Quindi non abbiamo una classe pakistana medio-alta in città. Tenendo conto appunto che è un flusso migratorio di ripiego da una parte e di lavoratori pakistani negli anni ‟90 già di mezza età. Quindi probabilmente bisognerà aspettare ancora qualche decennio per avere una classe pakistana di benestanti culturalmente ben inserita in grado di negoziare anche le differenze all‟interno della propria comunità con il contesto in cui sono inserite. Non abbiamo questo gruppo (T15).

Dalle interviste emerge un quadro che riguarda sia gli immigrati indiani che pakistani con lunghe storie di lavoro che precedono i ricongiungimenti con i familiari anche di 10 o 20 anni. Per molti di loro l‟arrivo in Italia non è stato diretto, bensì preceduto da periodi di lavoro in altri paesi europei come la Francia, Germania, Svizzera, Finlandia, Spagna o nei Paesi del Golfo.

Sia da parte indiana che da parte pakistana, le persone intervistate provengono dalla classe media, che con la crisi economica globale è stata particolarmente penalizzata. Alcune delle persone intervistate riportano che i padri avevano delle occupazioni di tipo impiegatizio o gestivano attività commerciali, produttive o in proprio, ma che una volta arrivati qui si sono adattati a fare gli agricoltori o gli operai perché gli stipendi sono nettamente più remunerativi. Ciò si accorda con l‟affermazione presente nello studio di Ruba Salih (2003, p. 75) sulle

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donne migranti marocchine, laddove osserva che le persone appartengono a diverse classi sociali nel paese di origine e in quello di immigrazione. Nel paese d‟origine, buona parte delle persone emigrate sostengono di godere di una buona posizione sociale, dovuta questa anche all‟appartenenza di casta.

In alcuni casi mi è stato riferito che i padri avevano scelto di emigrare per ragioni diverse da quelle strettamente economiche, ma per dirimere in modo pacifico le tensioni con i familiari:

....sotto mio padre lavoravano tanti contadini, lui preferisce lavorare, però non vuole i parenti. Lì non doveva lavorare, lui, lì, era comodo, ma le discussioni dei parenti... non voleva che succedesse qualcosa di male ai suoi figli. Non voleva che succedessero delle discussioni con i parenti [del genere] “Facciamola sposare”, voleva che fossimo in un posto tranquillo che non ci fossero queste cose. Il suo è un lavoro schifoso e sta superando tutto per noi, ha sacrificato tutto per noi.

Ad un matrimonio di uno zio non ha voluto andare perché temeva che lo facessero fermare. Hanno fatto delle pressioni per farlo rimanere là. (7,F,P)

Il sociologo britannico Roger Ballard nei suoi studi sulle famiglie punjabi (ma ciò vale anche per altre realtà, per quanto ne so, sicuramente anche nelle famiglie pukhtun), mette in luce una compresenza di solidarietà e di competitività interna alla famiglia stessa, soprattutto tra fratelli maschi, o al birādarī . La migrazione, pertanto, offre un valido sfogo, sia perché fornisce l‟opportunità di allontanare uno o più maschi che altrimenti finirebbero per scontrarsi, sia perché si possono reperire fonti alternative di reddito oltre a quelle ereditarie (Ballard, 2001). L‟Italia ha, inoltre, una sua attrattiva, perché offre delle migliori opportunità di studio per i figli come spiega una ragazza pakistana: “Il papà è stato contento di venire in Italia perché ha pensato che per i nostri studi era meglio. Ha una buona considerazione della scuola italiana” (11,F,P).

Il Pakistan ha, infatti, un sistema scolastico pubblico e uno privato. Tra i due c‟è un profondo divario qualitativo a favore della scuola privata, che però è molto costosa ed è di conseguenza riservata alle élite. Offrire un‟opportunità ai figli di ottenere un‟istruzione di buon livello gratuitamente può, quindi, costituire una valida motivazione per emigrare, come spiega una studentessa di scuola superiore raccontandomi che la decisione di venire in Italia è stata presa solo dalla sua famiglia nucleare, anche se: “Gli altri [parenti] hanno approvato e hanno detto che i figli avrebbero studiato meglio.” (14, F,P)

Altre volte ciò che stimola a partire è il desiderio di “vedere il mondo”, a costo di abbandonare delle attività ben avviate:

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È stato comunque economicamente conveniente venire in Italia?

Sì, ma lui [il padre] perché aveva, cioè era il sogno diciamo…. Perché a lui piaceva l‟Italia, allora…

Il suo sogno in che senso, […] cos‟è che gli piaceva?

Se tipo io, io ho il mio sogno di andare a New York…cioè fuori, hai voglia di conoscere un altro mondo, la stessa cosa mio papà, […] voleva, voleva proprio uscire fuori dall‟India. (28,F,I)

In generale viene espressa l‟idea di emigrare per lavorare e per dare un futuro migliore ai propri figli. I padri avvertono come loro dovere e punto d‟onore il fatto di mantenere con decoro la famiglia e questo è potente fattore che spinge a uscire dal paese. L‟uscita, tuttavia, pone chi emigra di fronte alla difficoltà di mantenere quello stesso onore che è una delle ragioni per cui ha deciso di emigrare e che contribuisce a mantenere il legame tra il qui e il là. È di legame, infatti, e non di rottura che si parla. Ciò che caratterizza una diaspora86 infatti non è tanto la sua origine, traumatica o meno, ma: “…this dialectic, of connections of both a “new” and an “old” home simultaneously that is characteristic of diasporas” (Bose, 2009, p. 142). Questa dialettica tra mondi simultanei e compresenti è tra gli ingredienti delle problematiche relative all‟onore.

In un articolo del 2002 pubblicato sul famoso quotidiano pakistano Dawn, il giornalista Irfan Husein descriveva l‟Italia come un luogo dove non era difficile trovare un lavoro - soprattutto al Nord - e come gli italiani fossero “generally accommodating” al punto di chiudere un occhio su pratiche non sempre trasparenti per ottenere i documenti e differenziandosi, così, da altri paesi come l‟Australia, presa ad esempio per la sua insensibile gestione dei “rifugiati economici”. D‟altra parte - riconosceva l‟autore dell‟articolo - la forza lavoro straniera, per esempio, in Australia era quasi del 25% contro il 2% dell‟Italia. Le interviste che riporto sotto, tuttavia, si riferiscono all‟Italia di oggi, in preda a una crisi pesantissima e con un sistema legislativo che nel corso del tempo è diventato sempre più restrittivo riguardo alla concessione dei permessi di soggiorno. Lo scenario economico e sociale attuale è assai differente dall‟inizio del millennio e ancor più dagli anni ‟80.

Si tratta a volte di storie di migrazione che iniziano all‟interno del paese stesso e prevedono diverse tappe: una ragazza pakistana racconta di come il padre si fosse inizialmente trasferito a Karachi - grande meta d‟immigrazione interna - e in seguito a Lahore.

86 Analogamente a Bose (2009, p. 159 vedi nota 1), pur essendo consapevole del dibattito in atto sull‟uso dei termini “diaspora” e “transnazionalismo”, in questo contesto li utilizzo come sinonimi, ponendo l‟accento non sull‟evento traumatico all‟origine della partenza che caratterizzerebbe le diaspore come quella ebraica, armena o palestinese, quanto la condizione di ibridità generata dal vivere in due contesti lontani nello spazio fisico e simultaneamente presenti nella psiche del migrante.

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Poi, con amici e parenti aveva scelto la via dell‟Europa: Germania, Francia e infine l‟Italia (18,F,P).

La storia della migrazione dal Subcontinente indiano verso il resto del mondo conta numerose fasi caratterizzate da flussi di lavoratori diversi, sia socialmente, sia dal punto di vista delle competenze che possono offrire (Safran, Sahoo, & Lal, 2009). Per esempio, tra il XVIII e XIX secolo si erano stabiliti nel Regno Unito membri delle comunità Parsi, e Bengali costituite da professionisti qualificati, cui erano seguiti nel Secondo dopoguerra gli operai provenienti dal Gujarat che avevano contribuito a ricostruire le industrie del paese (pp. xxi-xxii). In tempi più recenti si era verificato un considerevole afflusso di lavoratori molto qualificati come informatici, medici, ingegneri (p. xxii). In Italia, quest‟iniziale migrazione dal Subcontinente di fine millennio sembra coinvolgere sia pakistani che indiani provenienti perlopiù da classi medie o medio-basse dei distretti rurali. Per giungere qui non si contano i sacrifici: “Alcuni vendono i terreni per venire qui. Prima si trovava lavoro” (3, F, P).

Quelli che sono studiati hanno il lavoro, belli posti come la banca, le maestre, le professiore [professori], così, non viene nessuno qui. Quelli che senza studiati [non hanno studiato] hanno la terra, vendono allora vengono qui per fare il lavoro e qui anche non c‟è niente da fare. (20,F, P) Ecco, come fa uno perché ci vogliono soldi per venire, giusto? E uno che non ha tanti soldi come fa a venire qua, deve vendere la terra ?

Vendono terre, anche come ho sentito io come l‟ha fatto completamente come la una famiglia che qui lui lavora ha fatto tutte le cose regolarmente non è che, però ho sentito così che vengono anche non lo so come, dicono clandestini, quelli che vengono da ship [imbarcazioni] Non so come un paese, secondo paese, terzo paese, così fanno.

E però anche per quello devono pagare tanto,eh?

Pagano, pagano, perché qui fanno quella visa [visto] che danno, come si chiama: non badante,

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