2.1 L‟onore coinvolge gran parte del mondo
Sebbene in “Occidente” l‟aderenza ai codici d‟onore sembri superata, violenze in nome dell‟onore vengono perpetrate in varie zone del mondo: Turchia, Iran, Iraq, tutte le parti del Kurdistan, Bolivia, Congo, Egitto, Libano, Cuba, Ecuador, Marocco, Sri Lanka, Ex Unione Sovietica, Siria, Pakistan, Bangladesh, India, Giordania, Israele, Macedonia, Kosovo, Afghanistan Tunisia, Ghana, Somalia (Kvinnoforum, 2003, p. 26). Brasile (UNCHR, 2002, p. 14). Codici di castità femminile in fase di negoziazione tra generazioni - come in tante altre parti del mondo in cui si sono palesate HRV- sono presenti anche nelle popolazioni rom (Sarcinelli, 2011). È una strana sensazione quella di rendersi conto che problematiche inerenti l‟onore colpiscano una così vasta porzione del mondo. Lungi da essere una caratteristica qualificante del Mediterraneo, il controllo patriarcale effettuato attraverso i codici di castità femminili coinvolge, sotto diverse forme e in diversi modi, milioni di esseri umani.
Nell‟elenco appena tracciato ho tralasciato appositamente i paesi d‟immigrazione. In alcuni Stati, come la Scandinavia, la Francia, la Germania, il Regno Unito, l‟HRV sembra una “nuova acquisizione”. In realtà anche nell‟Europa del Nord l‟onore è stato un problema molto dibattuto, anche se si è declinato principalmente in ambito aristocratico e militare (Stewart, 1994), basti pensare al dibattito ottocentesco sul duello (Appiah, 2011), che coinvolse maggiormente gli uomini, anche se per avere un quadro completo occorrerebbe una maggior attività di ricerca sulle modalità di applicazione dei codici di castità femminile vigenti anche in quella parte del mondo. Rispetto a paesi che per comodità definisco ora “del Mediterraneo”, dove la relazione tra onore e castità femminile era molto esplicita - e la cui violenza si rivolgeva principalmente, anche se non unicamente, contro le donne - grazie al rapido cambiamento di costume degli ultimi cinquant‟anni sembra che quello della violenza
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legata al controllo sessuale delle donne sulla base di un‟ideologia dell‟onore, sia un problema assai remoto nel tempo. Il superamento di questa specifica forma di violenza, tuttavia, andrebbe analizzato e non semplicemente cancellato dalla memoria come una pratica evasa. Per quel che concerne l‟Italia potremmo forse dire - utilizzando il titolo di un saggio di Paola Sacchi – che I delitti d‟onore ritornano (Sacchi, 2011), dove questo ritorno andrebbe inteso come elaborazione della memoria di un‟esperienza da utilizzare per comprendere il presente alla luce di una condivisione di vissuti anziché l‟estraniazione e la negazione. In tal senso, pur con tutti i limiti già esposti, contemplare la letteratura del Mediterraneo può essere di grande utilità, come dimostra Apkinar (2003) in un articolo che sembra voler costituire un ponte tra donne del Mediterraneo e donne immigrate, nell‟intento di rivisitare la sindrome onore/pudore con l‟obiettivo di comprendere la realtà delle donne immigrate anziché estraniarle.
2.2 Un brusco risveglio
Intorno alla metà degli anni ‟90, l‟Europa del Nord comincia a fare i conti con i delitti d‟onore, gli honour killings (HK), come sta a testimoniare la traduzione del concetto in lingua inglese ad attribuirne dignità internazionale. Ciò avviene in seguito alla profonda impressione suscitata da alcuni omicidi avvenuti all‟interno di comunità di migranti, che riscuotono clamore mediatico, ma che inizialmente non generano alcuna riflessione sulle loro implicazioni e sulle modalità appropriate di analisi e intervento. In Svezia, ad esempio, nel 1996 Maisam (Sara) Abed Ali, di quindici anni, viene pugnalata a morte dal fratello di un anno più vecchio e dal cugino sulla via di casa, dopo essere stata in discoteca. Secondo Unni Wikan (2008, p. 29) questa vicenda risuona come un campanello d‟allarme per la Svezia e per le sue politiche d‟integrazione. Si scopre infatti che quello di Sara non è un caso isolato, poiché nel giro di un mese viene assassinata un‟altra giovane donna di origini libanesi e una ragazza kurda è assalita e pugnalata dai fratelli fino a renderla parzialmente disabile (p. 29). Riguardo alla vicenda di Sara, Yeksel Said dell‟associazione Linnamottagninen (the Women Network) insiste sul fatto che le autorità non avevano fatto nessuna verifica del rischio, perché non avevano percepito la violenza in famiglia (io direi la “qualità” della violenza in famiglia). Avevano affidato la ragazza allo zio e lei era stata uccisa. Aggiunge che molte ragazze erano scomparse e nessuno aveva investigato: “It is nothing that has emerged in the nineties, but it is only now that we have begun to see it.” (citata in Thapar-Björkert, 2007, pp.
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24-25 ). Dopo Sara, nel 1999 segue l‟assassinio di Pela Atroshi. Tuttavia è solo dopo il 2001, con l‟uccisione di Fadime Shahindal, una studentessa universitaria di origine kurda che viveva sotto protezione e che era diventata nota in tutto il paese per aver pubblicamente denunciato il problema delle violenze legate all‟onore, che il governo e il paese intero ravvisano l‟importanza di comprendere questo fenomeno. Ancora nel 2005, tuttavia, ritroviamo nel rapporto di Kvinnoforum17 Honour Related Violence. European Resource Book and Good Practise il rilievo che “In general there seem to be very little research on the subject today in relation to the amount of space the issue has occupied in the media” (Kvinnoforum, 2005, p. 59). Kvinnoforum centra con chiarezza il problema di questi delitti: la capacità di suscitare un estremo clamore mediatico, con riflessi diretti sul piano politico, a fronte di una elaborazione scientifica inversamente proporzionale. Questa è una condizione che si rinviene anche - se non in modo ancora più marcato- nello stato della ricerca da un lato, e il dibattito politico/mediatico in Italia e che mi ha indotto a ragionarci sopra.
Dalla documentazione svedese e, vedremo poi, britannica, appare chiaro che, anche in paesi con una storia di immigrazione consolidata e con una solida tradizione d‟intervento sociale, di fronte a questo genere di crimini ci sia una sorta di difficoltà di valutazione del problema, perché da un lato si tende a cadere nell‟allarmismo eccessivo e dall‟altra spesso avviene che i servizi sociali e gli organi di polizia non riescano a cogliere il reale livello di pericolo che sta dietro a una ragazza straniera che si rivolge loro chiedendo aiuto18. Questa difficoltà, che è motivata da numerose ragioni, si coglie fin dall‟inizio, quando in cerca di una definizione di violenza legata all‟onore o nella maggiormente adottata accezione inglese Honour Related Violence (HRV), ci si ritrova a chiedersi: “Di che cosa stiamo parlando?”.
2.3 Di che cosa stiamo parlando?
Il „brusco risveglio‟ in Italia avviene nel 2006 con l‟assassinio di Hina Saleem. Anche nel nostro paese non si tratta del primo caso di delitto d‟onore in comunità di migrazione: per
17 Kvinnoforum è un‟organizzazione indipendente della società civile fondata nel 1998 a Stoccolma. Insieme al Gender Management Institute forma il Kvinnoforun Group. Ha lo scopo di accrescere l‟autoaffermazione delle donne e delle ragazze su vari piani: individuale e socio-economico attraverso strategie per il cambiamento e attività mirate rivolte sia a donne che a uomini.
18 Si può obiettare, a ragione, che anche le violenze perpetrate contro le donne “italiane”, vengono sottovalutate, ma qui intendo dire che nel caso di una donne straniera vengono sottovalutate le fonti di pericolo a cui va incontro, che non sempre coincidono con quele di una donna italiana, e a volte ci si astiene dall‟intervenire per una forna di relativismo culturale che cela l‟impreparazione, o un malinteso senso di rispetto della loro cultura.
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quanto se ne sa, due anni prima, nella provincia di Padova, Kautar Lhasni di diciannove anni muore in seguito a una crisi respiratoria provocata dal vomito intervenuto mentre il padre Mohammed la bastona con l‟asta di una doccia, perché si è accorto che la ragazza ha una relazione malgrado sia fidanzata con un cugino. Per lei è stato versato un mahr19 di 5000 euro. In quel contesto la stampa non fa riferimento al delitto d‟onore che sarà invece ossessivamente palesato nella vicenda di Hina e in quelle successive. Non mancarono, invece, i richiami al “padre padrone” e ai codici di abbigliamento non rispettati. (Piva, 2004)
L‟assassinio di Kautar Lhasni non solleva un particolare scalpore a livello nazionale, forse per le circostanze ambigue della morte, ed è rapidamente dimenticato. Non è escluso che svolgendo una ricerca mirata attraverso le cronache locali e i dati delle questure non si possano reperire notizie di vicende simili, ma al momento non sono in grado di dire se vi siano state altre morti come queste. Non è stata fatta ricerca in merito e ciò non è casuale. Come è avvenuto in altri paesi, europei e non, la sottovalutazione di questo genere di delitti fino all‟inizio del nuovo millennio e la mancata definizione della particolare qualità di violenza sottesa oscura la loro stessa esistenza. Ciò è parallelo ma non perfettamente sovrapponibile alla questione dei femminicidi20: ignorare la loro specificità significa ignorare il percorso di violenza che li circonda e precede e ne rende inefficace il contrasto e la prevenzione.
In ambito giuridico le violenze legate all‟onore vengono studiate come “culturally oriented crimes” (Stella, 2009). In generale ci si attiene al lessico giuridico esistente che prevede omicidi colposi, preterintenzionali o premeditati e il riferimento all‟onore emerge quando si valutano le aggravanti “per futili e abbietti motivi”. Non mi risulta che vi sia nessun riferimento giuridico specifico ai matrimoni forzati.
La tendenza dei centri antiviolenza è quella di evitare il riferimento all‟onore, ma operare con la categoria più generica di “violenza contro le donne”: l‟idea alla base di questa scelta è che la violenza patriarcale colpisce indistintamente tutte le donne, senza distinzioni di razza, religione o classe sociale. I centri antiviolenza, quindi, lavorano su specifiche forme di violenza senza metterle in relazione all‟onore, come ad esempio i femminicidi, i maltrattamenti o i matrimoni forzati. A proposito di questi ultimi, l‟unica ricerca accademica
19 Nell‟Islam questa è una dotazione che va alla sposa. Si tratta di un dono offerto dal pretendente alla sposa in cambio del dono che ella fa di sé e di cui la moglie potrà disporre come desidera (Amir-Moezzi, 2007, p. 229). Non sarebbe dunque un “prezzo” da pagare alla famiglia per lei. Nella prassi, tuttavia, può verificarsi anche questa evenienza.
20 “Femminicidio si ha in ogni contesto storico o geografico, ogni volta che la donna subisce violenza fisica, psicologica, economica, normativa, sociale, religiosa, in famiglia e fuori, quando non può esercitare «i diritti fondamentali dell‟uomo», perché donna, ovvero in ragione del suo genere.” (Spinelli, 2008, p. 21)
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che mi risulta essere stata svolta è quella commissionata dalla Regione Emilia Romagna a Daniela Danna (2011) Per forza, non per amore e non è ancora stata pubblicata. Il fatto d‟ignorare l‟onore nel contesto della violenza contro le donne, risponde a un‟esigenza comprensibile, perché il rischio concreto è di cadere in derive razziste o etniciste e che la sua persecuzione diventi lo strumento per applicare dei provvedimenti discriminatori contro gli immigrati e in particolare contro le donne straniere, che sarebbero così doppiamente penalizzate. L‟esperienza scandinava, e in particolare quella norvegese, ha infatti dimostrato quanto ciò sia un pericolo reale (Coleman, 2004). L‟idea riduttiva che i matrimoni forzati siano unicamente il mezzo per ottenere dei visti di entrata in un paese “occidentale” è stata anche collegata ad un altro fenomeno complesso: quello dei matrimoni forzati tra minorenni. In Gran Bretagna, la soluzione ha immediatamente coinvolto la legislazione anti-immigrazione con il divieto di ricongiunzione alle spose minorenni. Ciò ha incontrato l‟opposizione dei movimenti femministi antirazzisti, come quello delle Southall Black Sisters, che hanno fatto notare quanto tale norma fosse inefficace e andasse a colpire anche chi si era sposato in modo consensuale21. Il “dibattito” che appare sui media e nei discorsi di gran parte della classe politica tocca principalmente i temi della “mancata integrazione” e della necessità di limitare l‟accesso al paese a chi “non accetta le nostre regole”, sponsorizzando così una indiscriminata severità nella legislazione sull‟immigrazione. Non affrontare a fondo la specificità di queste violenze, però, porta delle conseguenze ancora più gravi, come si può evincere dall‟esperienza svedese e britannica, dove la legislazione attuata per limitare l‟immigrazione non ha limitato questo genere di violenze.
In questo momento, in Italia, ci troviamo in una situazione paradossale: da un lato ad ogni omicidio di ragazza22 straniera anche lontanamente attribuibile all‟onore esplode l‟allarme sociale, soprattutto se chi lo commette ha origini musulmane, dall‟altro non sembrano esserci in atto provvedimenti fondati sulla ricerca e lo studio del fenomeno, che dovrebbe essere il punto di partenza di qualsiasi iniziativa. Di fatto, gli organi centrali dello Stato sembrano essere inerti e l‟iniziativa è lasciata al buon senso di ufficiali di polizia, assistenti sociali, personale scolastico o sanitario e volontariato che fanno quello che possono spesso in assenza di dati e di una formazione specifica.
21 http://www.southallblacksisters.org.uk/immigration-policy-on-forced-marriage-is-unlawful/
22 Quelli degli uomini, purtroppo, vengono sottovalutati e quasi ignorati, come la vicenda del giovane pakistano Asif Khalid, ucciso a bastonate alla fine del maggio 2012 in provincia di Bologna dai familiari di una connazionale con cui aveva intrecciato una relazione a loro invisa (Cori, 2012a)
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Parte di quest‟inerzia nel procedere con l‟attività di ricerca è da attribuirsi al fatto che il nostro paese non ha ancora elaborato una politica coerente e razionale, qualunque essa sia, di approccio all‟immigrazione e sembra ignorare il fatto che essa è oramai una componente strutturale della vita della nazione. Ancorato a una prospettiva emergenziale, anche il nostro paese sembra voler far fronte a queste violenze invocando come strumento principale leggi che limitino l‟accesso e la stabilizzazione dei cittadini (e delle cittadine) di origine straniera. Viene da chiedersi, invece, se non siano piuttosto l‟esiguità di politiche per l‟accoglienza a contribuire a ostacolare l‟“integrazione” pretesa dagli stranieri. La scarsa e poco organica programmazione di politiche sociali (abitazioni, sanità, istruzione, formazione) per le persone straniere -questa sì strutturale- è passibile di mutazioni a ogni cambiamento di governo a suon di tagli di bilancio o di abolizione di organismi di dialogo con le istituzioni, aumentando la reale e percepita alienazione dei cittadini immigrati. Ma al di là di tutto è poco chiaro che cosa s‟intenda qui per integrazione e cosa si possa e si debba realisticamente richiedere e pretendere da chi desidera vivere nel nostro paese: il non delinquere? Il non professare i propri costumi? Fino a quale punto? Quali sono i nostri valori?
Parallelamente, per ciò che concerne la generica violenza contro le donne (Violence Against Women: VAW) – non solo straniere - si osserva che a fronte di qualche conquista meramente legislativa come la legge sullo stalking del 2009, il nostro paese trascura questa problematica. Lo si nota non solo dal crescente dato dei femminicidi, ma altresì dalla scarsità di provvedimenti presi in difesa delle donne: se una politica di prevenzione sembra impensabile, scarse risultano anche le misure per tamponare le emergenze. Il rapporto annuale del network femminista europeo Women Against Violence Europe (WAVE) del 2011 riguardo all‟Italia recita così:
CEDAW expressed concern at high prevalence of violence against women and girls and the persistence of socio-cultural attitudes condoning domestic violence as well as absence of assistance and support programs for women wishing to leave prostitution and who were not survivors of exploitation (Fisher, Rösslhumer, & Hertlein, 2011, p. 118)
L‟Italia nel 2011 contava 113 associazioni femminili e femministe (incluse 54 case-rifugio) per le donne, che coprivano tutti i generi di violenza contro le donne. Si stima che la necessità di posti nelle case-rifugio si aggiri sui 5711. Le 54 case rifugio offrono 500 posti. Ne mancano quindi 5211! Sono assenti le case-rifugio con servizi multilinguistici e non sono disponibili i dati sui fondi statali. (pp. 211-212).
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2.3.1 Per una definizione di Honour Related Violence (HRV)
Queste sono le definizioni di Honour Related Violence o Honour Based Violence che vengono utilizzate in Svezia:
Honour related violence is a form of violence perpetrated predominantly by males against females within the framework of collective based family structures, communities and societies where the main claim for the perpetuation of violence is the protection of a societal construction of honour as a value system, norm or tradition.”(Kvinnoforum, 2005)
e nel Regno Unito:
"Honour based violence" is a crime or incident, which has or may have been committed to protect or defend the honour of the family and/or community” (CPS, 2010).
Per spiegare la mia scelta di ragionare intorno alla violenza legata all‟onore, anziché su altre categorie più specifiche come “delitti d‟onore”, “matrimoni forzati” o più generiche come “violenza contro le donne”, “violenza domestica”, vorrei accennare al dibattito occorso in Svezia e Gran Bretagna.
L‟espressione Honour Related Violence (HRV) comincia ad essere utilizzata in Svezia in concomitanza con gli omicidi di Sara Maisam Abed Ali, Pela Atroshi e Fadime Sahindal. Precedentemente erano state privilegiate definizioni come “violenza domestica” (Domestic Violence, DV) o “maltrattamento di minore in famiglie immigrate” (child abuse in immigrant families). Soprattutto in quest‟ultimo caso, gli operatori del settore si sentivano indotti a considerare questi abusi come espressioni culturali, in cui non ci si deve intromettere (Kvinnoforum, 2005, p. 37). Ne consegue che i diritti umani ritenuti validi per gli svedesi non venivano applicati ai cittadini con un diverso retroterra etnico (p. 38).
D‟altro canto Greta Johansson, rappresentante dell‟organizzazione no-profit Terrafem, ritiene “negativa” e “sbagliata” l‟espressione HRV, poiché ogniqualvolta si parla di „onore‟ esso è immediatamente associato a specifiche appartenenze etniche [o religiose] come musulmani, turchi, arabi o curdi, e aggiunge che se tutte le comunità, non solo quelle di migranti dalle succitate aree, fossero analizzate in base alla quantità di violenza contro le donne i risultati sarebbero probabilmente simili (Thapar-Björkert, 2007, p. 24).
A favore di una definizione che, invece, faccia esplicito riferimento all‟onore distinguibile dalla violenza domestica, per ragioni di „praticità‟ – cogliendo, però, così l‟essenza del problema – sono i membri della polizia svedese come Claes Rydgren: “If we look at the man who beats his wife and it‟s not honour related motives, then it is individual violence,
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condemned by the surrounding society. But if we look at HRV, it is collective, it is often sanctioned and often planned – the serious crimes are always planned …” (citato in Thapar-Björkert, 2007, p. 21).
Una simile esigenza si riscontra anche nel Crown Prosecution Service britannico che fa seguire una succinta definizione di “Honour Based Violence” (HBV), sinonimo di HRV, da un testo esplicativo in cui si afferma: “Honour Based Violence” can be distinguished from other forms of violence, as it is often committed with some degree of approval and/or collusion from family and/or community members.”(CPS, 2010)
Si tratta, quindi, di una specifica forma di violenza da distinguere dal cosiddetto “delitto passionale”, poiché nel caso di HK le relazioni con la “pubblica opinione” assumono una dimensione peculiare e considerevole. Dimensione che si può esprimere attraverso un‟ampia gamma di sfumature: dall‟esplicita istigazione all‟omicidio, a pressioni attraverso l‟ostracismo, l‟ostentata disapprovazione o il mettere in ridicolo chi non si adegua alla norma morale del gruppo23.
In sostanza gli HRV fanno parte dell‟insieme più ampio delle violenze domestiche e delle violenze contro le donne (Violence Against Women, VAW), ma è importante considerarle separatamente per comprenderne i meccanismi intimi e poter apprestare delle contromisure efficaci. Nel rapporto di Kvinnoforum del 2003 si sottolinea addirittura l‟importanza “vitale”
23 La studiosa americano-palestinese Lama Abu-Odeh (1997) comparando il cosiddetto delitto passionale dell‟“Occidente” con quello d‟onore “orientale” sostiene che questi non si trovino su due poli estremi, ma che anzi nelle interpretazioni e concrete applicazioni giuridiche si ritrovino ad incontrarsi “in a circular movement where one becomes the other”. Se da un lato in Algeria è riconosciuto come delitto d‟onore l‟assassinio del/della coniuge colto in flagrante adulterio (di fatto si tratta di un delitto passionale), dall‟altro negli USA, nel cui sistema vengono previste degli sconti di pena per delitti effettuati in preda alla rabbia in seguito a delle gravi provocazioni si sono presentati una serie di casi dove sia l‟elemento della rabbia accecante che quello della flagranza sono stati riconsiderati al punto da ridurre la pena anche a uxoricidi che avevano agito con freddezza,