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7.1 Onore e parda

Parda è una parola di origine persiana e significa “tenda”, questa tenda può essere intesa in senso letterale, ossia il velo o metaforico a indicare la divisione tra il mondo maschile e quello femminile (S. Khan, 1999, p. 27). Questi due aspetti, il velo e l‟occupazione di spazi separati, vanno infatti considerati come due facce della stessa medaglia anche se, per comodità di esposizione, li esaminerò in paragrafi distinti132. Il concetto di parda risente pesantemente dell‟approccio orientalista che, costruendo un‟immagine mistificata dell‟Oriente, giustifica la propria presenza imperialista e civilizzatrice. L‟Orientalismo è stato uno strumento ideologico potentissimo nelle mani del colonialismo, anche se, seguendo le riflessioni dello storico americano Richard Eaton (2000, pp. 141-143), mi permetto di obiettare che un uso pervasivo di questa chiave di lettura comporta degli importanti vulnus, tra cui: nel voler attribuire tutto il potere reale e “discorsivo” al colonialismo si priva il “subalterno” di ogni possibilità di agency e, ancor peggio, si rischia di riproporre in modo speculare il medesimo approccio essenzialista contestato al dominatore occidentale:

Many observers noted the irony that scholars who decried the essentialism Europeans to the „Orient,‟ or to colonial India, failed to see the same sort of essentialism that they themselves were imputing to „Europe,‟ or to European thought, as in one of Edward Said‟s formulations of Orientalism as a monolithic ideology, coherent and all-pervasive, extending form Homer to Henry Kissinger (Eaton, 2000, p. 143)

132 In questo capitolo distinguerò velo e clausura parda per comodità, ma ribadisco che parda riunisce entrambi i concetti. Per chiarezza racconto il seguente episodio: nel 2005 mi trovavo a Peshawar. Avevo scelto, senza alcun obbligo, di portare il velo, ossia di indossare sulla testa il dupaṭṭā quando uscivo. Mi ero così abituata a questo abbigliamento che un giorno andai a trovare la famiglia di cari amici e mi dimenticai di togliere il dupaṭṭā dalla testa una volta entrata a casa. Dopo un bel po‟ che ero là, il figlio di questi miei amici mi chiese: “Why are you keeping parda at home?”.

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Detto ciò, e con le dovute cautele, poiché effettivamente i poteri si avvalgono anche di discorsi, accolgo, rispetto alla questione del velo, i rilievi della sociologa di origine iraniana Homa Hoodfar (1993) circa l‟uso strumentale che certe tendenze del mondo occidentale - in particolare le destre – hanno fatto della propaganda sul velo:

…the veil, which since the nineteenth century has symbolized for the West the inferiority of Muslim cultures, remains a powerful symbol both for the West and for Muslim Societies. However, while for Westerners its meaning has been static and unchanging, in Muslim cultures the veil‟s functional and social significance have varied tremendously, particularly during times of rapid social change. Veiling is a lived experience full of contradictions and multiple meanings (p. 5)

In questo periodo in cui velo e parda sono associati automaticamente e, direi, unicamente al mondo islamico, spesso s‟ignora quanto la segregazione delle donne fosse un elemento fondante, pur con diverse modalità, della struttura sociale indù. Inoltre, spesso si dimentica che velo e forme di parda, cioè di separazione dei sessi tramite la clausura femminile, erano già saldamente presenti in Iran e nel Mediterraneo orientale ben prima dell‟avvento dell‟islam (S. Khan, 1999, p. 29).

Sulla storia delle origini del velo e delle pratiche di segregazione femminile pre ed extra-islamiche esiste ormai una ricca letteratura (L. Ahmed, 1995; Hejazi, 2008; Hoodfar, 1993; Jafri, 2008; T. S. Khan, 2006; Lerner, 1986; Mernissi, 1991; , 2006; Moghissi, 1999) cui rimando, qui mi limito a segnalare solo brevemente alcuni punti: il primo riferimento storico all‟uso del velo risale al codice di Amurabi che risale al XIII secolo a.C. Questa pratica era riservata alle donne di ceto sociale elevato ed era funzionale alla già citata strategia patriarcale di separare le donne per bene da quelle non rispettabili. Le prostitute non dovevano portare il velo. Velo e segregazione erano un segnale di status ed erano praticati nell‟antica Grecia, nell‟Impero romano e in quello bizantino. I musulmani acquisirono queste pratiche dai popoli conquistati. Attualmente è riconosciuta come una pratica musulmana e si ritiene che sia sancita dal Corano (Hoodfar, 1993, p. 6). Secondo Fatema Mernissi, esponente della teologia islamica femminista, il Libro non prescrive alle donne il dovere di indossare il velo (Pepicelli, 2010, p. 71). Storicamente l‟uso del velo islamico si diffuse al tempo dell‟impero Safavide in Iran e quello Ottomano in Medio Oriente, anche qui come segno di distinzione delle classi privilegiate. Esposito suggerisce che dal XIX secolo i poteri coloniali diffusero l‟idea che il velo fosse un simbolo legato alla religione piuttosto che alle pratiche culturali locali (citato in Hoodfar, 1993). Questa attribuzione diventerà un‟appropriazione con forti connotati identitari per molti movimenti o sottomovimenti anticoloniali e successivamente nell‟islam politico. Le

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pratiche del velo e del parda, sono oramai parte della vita di molte donne e Sitara Khan mette in evidenza una doppia funzione del parda che può essere:

… an excuse for debarring women from full socio-economic and political life […] alternatively it can be see as a „safe‟ area in which women cal relax, be creative and supportive, henna their hands, oil their hair, have their bodies massaged, plot against their men –especially their husbands – earn and spend income, and organise socio-political revolution (1999, p. 26).

Questo duplice impiego del parda associato al concetto di harem, luogo proibito a tutti gli uomini con cui potrebbe essere potenzialmente contratto il matrimonio, è innegabile, anche se a mio avviso la sua seconda accezione, quella di “rifugio sicuro del mondo femminile”, appare essere più una dimostrazione di creatività e di resilienza femminile che una vera e propria pari opportunità: le donne utilizzano la separazione delle loro stanze in modo efficace, perché l‟accesso allo spazio pubblico è limitato e spesso disapprovato. Come non va celato che movimenti pubblici di svelamento, indipendenti dalle campagne governative e forzate, si fossero manifestati, per esempio, sin dagli anni Venti in Iran. (Moghissi, 1999, pp. 88-89) Accanto a questo e sopra questo, però si è verificata una appropriazione da parte dei poteri politici che, portando il conflitto sul piano dicotomico islam contro occidente, hanno completamente oscurato il piano dei diritti delle donne come essere umani e senzienti133.

Nelle mie osservazioni bresciane ho notato che velo, clausura, libertà hanno varie gradazioni interne e si combinano tra di loro in un modo che può apparire incoerente. La percezione d‟incoerenza è da attribuirsi in parte al fatto che l‟osservatore esterno pretenderebbe di vedere il mondo asiatico in modo omogeneo. Come tutte le realtà umane gli stereotipi possono avere l‟utilità d‟introdurci in mondi sconosciuti, ma da griglie di lettura non devono diventare gabbie cognitive.

Nel corso della ricerca sul campo ho colto situazioni molto varie d‟osservanza del parda. In alcuni casi si tratta di vera è propria segregazione con l‟obbligo per le donne della famiglia di rimanere sempre a casa o di uscire sempre accompagnate. Se ciò potrebbe essere inteso come una replica della vita di villaggio che ci si è lasciati dietro, qui diventa una vera e propria prigione perché vengono a mancare del tutto le reti di relazione offerte dalla parentela e la diversa struttura delle abitazioni, di dimensioni molto ridotte rispetto a quelle dei paesi d‟origine e senza spazi aperti e comuni, contribuisce a rendere l‟esistenza difficile. Mi riferisco in particolare alla realtà di bambine che scompaiono, nel senso che una volta giunte

133 Sulla complessità e le diverse sfumature dei movimenti a favore e contro il velo unitamente all‟evoluzione storica, sociale e politica dell‟Iran si veda il bel lavoro di Sara Hejazi (2008).

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qui non frequentano la scuola e rimangono segregate in casa fino al momento del matrimonio. La mia conoscenza si basa sul “sentito dire” di testimoni privilegiati che al fine di proteggere queste stesse persone si sono mantenuti sul vago. Non ci sono ricerche e dati sull‟entità di questo fenomeno sommerso, di cui do conto, ma che non sono in grado di dire quanto sia esteso in questa forma così estrema. Un‟insegnate di Brescia, attenta osservatrice delle dinamiche migratorie, osserva che la condizione delle bambine pakistane dal 1990 è “radicalmente cambiata”. Oramai anche per queste ragazzine le famiglie prevedono la frequenza scolastica fino all‟assolvimento dell‟obbligo o quantomeno fino al raggiungimento dell‟età prevista. Oggigiorno “la fascia d‟età delicata è quella che segue immediatamente l‟obbligo”(T35).

In questi casi tuttavia, l‟assolvimento dell‟obbligo per ragioni anagrafiche e per gli anni scolastici persi nel corso delle migrazioni può essere raggiunto già in terza media. Ad ogni modo risultano rarissimi gli abbandoni alle medie. Il momento di crisi si raggiunge nel biennio delle superiori, per rientro nel paese d‟origine, interruzione, ritiro. Le famiglie fanno osservare l‟assolvimento dell‟obbligo scolastico alle bambine anche perché è stata posta molta enfasi da parte delle insegnanti sui controlli che possono seguirne il mancato rispetto. Negli anni ‟90 il tasso d‟evasione scolastica delle bambine era molto alto, le bambine “venivano proprio nascoste in casa” e si risaliva a loro perché quando iscrivevano i fratelli magari si chiedeva la fotocopia del permesso di soggiorno da cui risultava che c‟erano anche le bambine. “E quindi lì bisognava fare opera di convincimento. E adesso questo non avviene più […] però vengono ritirate più frequentemente dei maschi dalla scuola” (T35). Per le ragazze è ancora frequente l‟interruzione del percorso scolastico perché sono mandate a sposarsi. Il raggiungimento del diploma di scuola superiore non è ancora dato per scontato. Tra le due comunità si nota un maggior investimento degli indiani sulla scolarità delle ragazze, anche se la nuova generazione di genitori da parte dei due paesi si dimostra egualmente motivata nel far seguire il percorso di studi. Sia le giovani madri indiane, sia quelle pakistane, hanno un buon livello di scolarizzazione.

I casi di segregazione assoluta, non sempre proteggono in modo efficace l‟onore delle ragazze, che possono trovarsi coinvolte in relazioni con i familiari:

Poi quella ragazza ha detto che è rimasta incinta, lo sa, i genitori non sanno, secondo me era un cugino, no? Perché diceva l‟unico … non ho chiesto direttamente chi fosse stato il ragazzo. Ho detto: “Sì, uscivi da casa? Dove andavi a scuola? “Non sono mai andata a scuola, andavo in parco con la mia mamma”. Però[…] abitavo a casa di mia cugina e mio cugino è bellissimo”. Ha iniziato

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a dire così e allora lì ho scoperto … fa: “è quel cugino lì che mi ha accompagnato” […] e allora ho capito che lì c‟era qualcosa.

[…]

La cugina era la sorella del cugino?

No, era la moglie. Per quello che dicevo, di sicuro non parlerà. Io ho presunto che fosse quel cugino perché lei diceva che dalle altre parti non andava mai, perché non capiva mezza parola d‟italiano e poi non era una ragazza molto furba, nel senso che era molto … proprio una ragazza di casa. E fa: “L‟unica cosa andavo a abitare, proprio a vivere anche la notte, così da questa mia cognata”

Questo ha approfittato di lei?

Boh, chissà? Era … sia la moglie che il marito erano cugini tra di loro, quindi erano cugini anche di lei (21,F,P)

Più spesso avviene che le ragazze, finite le scuole medie o l‟obbligo scolastico, siano trattenute in casa per aiutare la famiglia e per attendere il matrimonio. Questo genere di clausura sembra essere più frequente per le ragazze pakistane che per quelle indiane (che tuttavia non ne sono esenti). Per queste ultime la brusca interruzione degli studi avviene perché hanno violato le norme di castità e quindi si cerca di riparare riportandole in India e forzandole al matrimonio. Anche in questo caso non esiste nessuno studio quantitativo, ma il personale scolastico da tempo osserva questa peculiare mortalità scolastica di genere. L‟abbandono scolastico è presente anche tra i maschi, ma non sembra che ciò sia dovuto a delle violazioni delle norme di castità. La motivazione è piuttosto che devono aiutare la famiglia andando a lavorare. Le interruzioni degli studi in Italia a livello di scuola superiore sono più frequenti per le ragazze, ciò però non significa che l‟istruzione venga sempre del tutto abbandonata: in alternativa le ragazze vengono rimandate nel paese d‟origine per completare gli studi in un ambiente dove si ritiene di controllarle meglio e dove “non cambino” (49,M,P)

Le famiglie migranti sono connotate da una notevole mobilità, sia perché si trasferiscono in blocco dove si presentano delle opportunità di lavoro, sia perché sono frequenti i periodi di rientro, per mesi o per anni, soprattutto delle donne, nei paesi d‟origine. Non è infrequente, inoltre, per le ragazze pakistane tornare per alcuni periodi a casa “per studiare il Corano”. In tale circostanza, però, si tratta di “sospensioni” della scuola per poi tornare a studiare in Italia. In un caso particolare ho conosciuto una ragazza che dopo alcuni anni di segregazione in casa in Italia - ufficialmente era ritornata in Pakistan - ha ottenuto di poter frequentare la scuola, al prezzo di un severo controllo da parte del padre, che non le permette altrimenti di uscire di casa per nessun motivo e che l‟accompagna e la va a prendere a scuola, nonostante la sua maggiore età, a differenza del fratello che si muove liberamente. Un‟altra ragazza maggiorenne, pur avendo una fede molto forte e dimostrando una stretta adesione alle regole

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del parda, lamenta la pressione su di lei da parte dei genitori che oltretutto le chiedono di controllare anche la sorella:

Il mattino mi alzo e ringrazio Allah che di nuovo mi ha fatta svegliare. Prego e quando prego voglio che ad Allah piaccia e accetta quello che faccio. Mamma controlla quello che ho messo nello zaino e come mi vesto. Vado in autobus e c‟è una [ragazza] che porta questi maschi pakistani. Io so che non devo parlare, ma ho paura che la sorella cada. Nella mia società si pensa che se una ragazza parla con un maschio non si comporta bene. A mia sorella non interessa niente di quello che dicono gli altri. La sorella sfida, mentre io ho paura. (9,F,P)

C‟è infine un gruppo di ragazze i cui genitori hanno puntato sull‟educazione insegnando “quali sono i limiti”, sostanzialmente non avere il ragazzo e mantenersi pure, ma che non applicano forme di clausura. Queste giovani indiane e pakistane escono con le amiche, vanno in biblioteca, vanno a magiare la pizza e al cinema (3,F,P); qualche volta vanno in biblioteca ed escono con amiche italiane (4,F,P); qualcuna esce con le amiche anche se alla fine non le piace tanto e preferisce stare a casa e frequentare i cugini (5,F,P). Successivamente, facendo il confronto con la vita in Pakistan una di loro afferma: “Qui vivo molto bene. Per esempio qui possiamo uscire senza i genitori, ma in Pakistan solo per la scuola, altrimenti no. Qui abbiamo più libertà” (5,F,P)

Fino ad ora ho inserito citazioni di ragazze pakistane, ma per le indiane non è molto diverso: non ho testimonianze di casi estremi di clausura, un discreto numero di esse però passa la propria vita tra casa, scuola e tempio e quando esce lo fa con i genitori o i parenti:

Hai fatto delle amicizie qua? Hai amiche, amici, qua in Italia? Sì però italiani no.

No italiani, che amici hai?

Indiani, ci sono indiani tanti: […]. Ci sono tanti ragazzi. Ma li vedi solo a scuola o li riesci a vedere anche fuori?

No, fuori no. Perché noi i genitori non danno il permesso di uscire… ma lei sa… […]

… perché qualcuni ragazzi sono che nato qua in Italia e i genitori danno il permesso di uscire, perché loro hanno venuti da venti anni fa, trent‟anni fa … però i miei genitori non mi danno il permesso di uscire…

Allora, quelli, dici, che vivono da più tempo qua sanno un po‟ come sono le cose e si fidano di più? Sì.

Ma tu mi dici perché i tuoi non ti danno il permesso di uscire? Cioè c‟è una paura? Sì è una paura, perché è nostra religione che le ragazze non usciamo.

È la religione che dice questo?

Sì, tutti i lavori del fuori fanno solo i ragazzi. Ragazze no.

Senti, ma per esempio, fare la spesa, comprare le cose, chi può andare a comprare le cose? Adesso io, sì, perché ce l‟ho patente (23,F,I)

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Rispetto all‟India sì, però vorrei essere più libera. Per esempio cosa vorresti fare?

Vorrei tagliarmi i capelli, però non vogliono i miei genitori ed è vietato dalla religione, vorrei uscire con gli amici e non mi lasciano.

Come giustificano il non farti uscire?

Non vogliono che le ragazze escano con i ragazzi. È una questione di reputazione, perché dopo la gente sparlano, dicono che la loro ragazza è così, si veste così...(29,F,I)

Altre escono durante il giorno, ma non la sera, qualcuna anche se e maggiorenne. E a sfatare l‟idea che le ragazze pakistane siano serrate a casa c‟è una studentessa che, sempre osservando i limiti: “Frequento un gruppo italiano, ho anche amiche indiane, ma non possono uscire e allora vado a trovarle io a casa (11,F,P).

Secondo una concezione tradizionale dell‟onore l‟uomo ha la funzione di breadwinner, che lo porta all‟esterno della casa, mentre alla donna sono affidati i compiti di riproduzione e cura che la trattengono a casa. Tuttavia le condizioni economiche non sempre permettono questa divisione dei ruoli. Ciò è una realtà da sempre per le classi più disagiate le cui donne condividono con le classi superiori i valori concernenti il parda, ma non possono affrontare il costo di un‟osservanza stringente (Mandelbaum, 1988, p. 34), almeno per quell‟aspetto che riguarda il confinamento in casa. Il fatto che gli uomini possano procurare i beni necessari si traduce quindi nel poter osservare un parda più rigoroso, anziché avere una maggiore libertà. In tal senso le donne povere non sono “più libere”, perché per molte poter osservare le regole del parda è un segnale di elevazione di status. A sua volta, l‟aumento del benessere economico di una famiglia impone l‟accesso a una migliore istruzione per elevare lo status sociale. Per primi studiano i maschi, ma seguiranno anche le figlie per combinare dei matrimoni ben bilanciati (Mandelbaum, 1988, p. 36). In India e Pakistan la mentalità sta cambiando e l‟idea della working woman sta prendendo piede. In condizione di migrazione, inoltre, molto spesso lavorare per le donne diventa una necessità a causa del carovita che impone di forzare i confini del parda. Ciò, secondo qualcuno, va fatto osservando delle regole di rispettabilità, poiché non tutti i mestieri sono considerati decorosi. Il livello di decenza è in parte legato al grado di esposizione al pubblico, anche se anche in questo campo ci sono disparità di vedute:

Come si conciliano casa e studio?

Prima la guardano male se lavora fuori, poi siccome sono tutti in Inghilterra [molti sono emigrati] perché lì lo fanno, non è male. In Pakistan è visto male. […] Io sono di classe media, da noi si può lavorare, ma solo maestra e dottoressa perché c‟è bisogno di dottoresse, come può un maschio se una donna è incinta? In ufficio non è bello, per esempio arrivano i clienti e lei li accoglie, … oppure [può fare] la maestra del Corano che tutta [tutti] la guardano bene, quella ragazza, poi non

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