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2.1 Punto di Vista in Prima Persona

2.1.3 Enattivismo

Da un altro punto di vista, alcuni filosofi si sono concentrati sugli aspetti in un certo senso

esterni della soggettivit`a, ad esempio Varela, Tompson e Rosch, nella loro teoria della “Em- bodied Mind” [Varela et al., 1993], ma anche Chalmers e Clark con la teoria della “Extendend Mind” [Clark and Chalmers, 1998]. Entrambe le teorie enfatizzano il ruolo che l’ambiente

e gli strumenti che utilizziamo svolgono nel determinare le cognizioni degli individui, ma utilizzano approcci diversi. La prima teoria si riallaccia alla fenomenologia di Merleau-Ponty, adottando il termine “embodied” e caratterizzandolo come “il corpo sia come una struttura esperienziale vissuta, sia come il contesto dei meccanismi cognitivi.” [Varela et al., 1993, p. 16]. Mentre la seconda teoria si concentra sui sistemi cognitivi intesi in senso ampio, comprendendo anche l’interazione che si instaura fra gli strumenti che utilizziamo e la mente.

“The human organism is linked with an external entity in a two-way interaction, creating a coupled system that can be seen as a cognitive system in its own right. All the components in the system play an active causal role, and they jointly govern

behavior in the same sort of way that cognition usually does. If we remove the external component the system’s behavioral competence will drop, just as it would if we removed part of its brain. Our thesis is that this sort of coupled process counts equally well as a cognitive process, whether or not it is wholly in the head.” [Menary, 2010, p. 29]

Per differenziarsi dalle teorie esternaliste, come quelle di Putnam [Putnam, 1975] e Burge [Burge, 1979], Chalmers e Clark definiscono la loro teoria un esternalismo attivo, poich´e in questo caso le caratteristiche esterne intervengono attivamente sul comportamento dell’organismo, in modo causale. Riassumendo, la loro tesi viene argomentata in quattro punti:

1. Tutte le componenti di un sistema hanno un ruolo causale attivo.

2. Governano il comportamento nella stessa maniera in cui lo governa la cognizione. 3. Se rimuovessimo una componente esterna, la competenza comportamentale del sistema

si abbasser`a, proprio come se rimuovessimo parte del suo cervello.

4. Di conseguenza, questo processo accoppiato pu`o essere considerato un processo cogni- tivo, che sia o meno completamente nella testa. [Menary, 2010, p. 3]

Entrambe le teorie propongono di rinnovare il modo in cui pensiamo, scientificamente, filosoficamente e quotidianamente, ai nostri processi mentali, adottando un punto di vista pi`u ampio sul significato di stati interni.

“Thus, in seeing cognition as extended one is not merely making a terminological decision; it makes a significant difference to the methodology of scientific investiga- tion. In effect, explanatory methods that might once have been thought appropriate only for the analysis of “inner” processes are now being adapted for the study of the

outer, and there is promise that our understanding of cognition will become richer for it.” [Menary, 2010, p. 30]

Dal punto di vista di Varela e gli altri, il significato di “embodiment” che utilizzano `e virtual- mente assente dalle scienze cognitive, dalla discussione filosofica e dalle ricerche sul campo. Si volgono quindi alla tradizione fenomenologica di Merleau-Ponty, poich´e affermano che non sia possibile investigare le relazioni fra le scienze cognitive e l’esperienza umana trascurando questo doppio significato di “embodiment”, che invece deve essere al centro della discus- sione.

Sostengono che questa affermazione non sia primariamente filosofica, ma al contrario che questa tematizzazione esplicita di “embodiment” serva primariamente allo sviluppo delle scienze cognitive e per dare rilevanza alle loro ricerche all’interno dell’esperienza umana comunemente vissuta. [Varela et al., 1993, p. 16]

Figura 1: Interdipendenza della riflessione con lo sfondo di credenze e pratiche biologiche, sociali e culturali [Varela et al., 1993, p. 10].

Per esplorare meglio il concetto di “embodiment”, Varela, Tompson e Rosch hanno introdotto il termine enattivo. Dal loro punto di vista, vivere un’esperienza significa “enact a world as a domain of distinctions that is inseparable from the structure embodied by the cognitive system.” [Varela et al., 1993, p. 140] In altre parole, la nostra esperienza fenomenica non sarebbe una passiva rappresentazione, ma un’attiva ricostruzione del mondo, guidata dalle nostre percezioni, e queste percezioni a loro volta dipendenti dalle strutture cognitive e biologiche.

“In a nutshell, the enactive approach consists of two points: (1) perception consists in perceptually guided action and (2) cognitive structures emerge from the recurrent sensorimotor patterns that enable action to be perceptually guided.” [Varela et al., 1993, p. 173]

Il punto focale da tenere a mente `e quindi che la percezione `e un processo bottom-up. La cognizione si sviluppa con la ripetizione di azioni e pu`o essere imposta come un processo

top-down per direzionare il comportamento, anche se in maniera imperfetta. Nella nostra

esperienza quotidiana, ci confrontiamo regolarmente con cose sconosciute di cui non abbiamo esperienza; quando la nostra struttura percettiva incontra tali entit`a, non c’`e alcuna cognizione capace di guidare il comportamento e l’unica cosa che possiamo fare `e ricostruire il mondo, dalle nostre percezioni bottom-up.

“In such an approach, then, perception is not simply embedded within and con- strained by the surrounding world; it also contributes to the enactment of this sur- rounding world. Thus as Merleau-Ponty notes, the organism both initiates and is shaped by the environment. Merleau-Ponty clearly recognized, then, that we must see the organism and environment as bound together in reciprocal specification and selection.” [Varela et al., 1993, p. 174]

La sensazione di essere “embodied” pu`o essere quindi caratterizzata come la sensazione di essere consci delle connessioni che il nostro corpo instaura con il mondo ed al contempo essere consci delle possibili interazioni cognitive ricavabili. In un senso pi`u spirituale, si possono raggiungere pi`u alte ed astratte interpretazioni del significato di “embodiment”, ma `e altrettanto intrigante analizzare l’opposto: cosa pu`o voler dire essere “disembodied”? Il neuroscienziato Oliver Sacks ha descritto uno di questi casi nel suo libro “The Man Who

Mistook his Wife for a Hat”, dove uno dei suoi pazienti aveva perso la propriocezione a

causa di una polineurite che aveva colpito solo le radici sensorie dei nervi spinali e cranici attraverso il neurasse:

“But the day of surgery Christina was still worse. Standing was impossible unless she looked down at her feet. She could hold nothing in her hands, and they “wandered”, unless she kept an eye on them. When she reached out for something, or tried to feed herself, her hands would miss, or over-shoot as if some essential control or coordination was gone.

She could scarcely even sit up her body “gave way”. Her face was oddly expressionless and slack, her jaw fell open, even her vocal posture was gone.

“Something awful’s happened,” she mouthed in a ghostly flat voice. “I can’t feel my body. I feel weird, disembodied 8.” [Sacks, 1998, p. 43]

Dopo anni di fisioterapia, aveva recuperato l’abilit`a di camminare e agire, ma poteva farlo solo utilizzando la vista come supporto per le sue azioni. Di conseguenza dovette costruire nuovi modi, nuovi schemi di attivazione sensoriale e motoria, per orientarsi e regolare il suo comportamento.

“It became possible, finally, for Christina to leave hospital, go home, rejoin her children. She was able to return to her home-computer terminal, which she now

learned to operate with extraordinary skill and efficiency, considering that everything had to be done by vision, not feel. She had learned to operate—but how did she feel? Had the substitutions dispersed the disembodied sense she first spoke of? The answer is, not in the least. She continues to feel, with the continuing loss of proprioception, that her body is dead, not-real, not-hers, she cannot appropriate it to herself. She can find no words for this state, and can only use analogies derived from other senses: ‘I feel my body is blind and deaf to itself’.” [Sacks, 1998, p. 48]

Come mostra anche questo caso, molti componenti essenziali della nostra vita quotidiana operano in uno stato inconscio, come ad esempio per le informazioni fornite dal sistema vestibolare 9. La quantit`a di informazione che raggiunge uno stato conscio `e considerevol-

mente limitata, comparata con la quantit`a di informazione che circola nel nostro corpo. I filosofi che abbiamo preso in considerazione in questo capitolo insistono sulla necessit`a di adottare un approccio in prima persona per affrontare i fenomeni mentali. Tuttavia, alla luce delle considerazioni fatte, `e difficile considerare questo punto di vista come un metodo di accesso privilegiato, immediato ed affidabile; al contrario, sembra invece che sia un metodo largamente influenzato dalle tendenze sistematiche (bias) delle nostra struttura percettiva. Come abbiamo detto pi`u volte, lo scopo non deve essere screditare o rifiutare l’approccio in prima persona, bens`ı riconoscere quali sono le limitazioni che esso comporta.

Le caratteristiche pi`u intuitive della soggettivit`a, quindi l’immediatezza, l’incorreggibilit`a e la sensazione che si prova ad essere qualcuno, sono tutte caratteristiche che meritano un’ampia riflessione fenomenologica e linguistica. Il risultato di questa riflessione sar`a indubbiamente di grande aiuto per gli studi portati avanti dalle scienze cognitive e, soprattutto, sar`a in- dispensabile per concretizzare gli studi neuroscientifici in una cornice che sia apprezzabile ed utilizzabile non solo dagli ‘addetti ai lavori’, ma anche da chi non ha le competenze per affrontare una discussione tecnica.

La pratica dell’introspezione, intesa come il metodo che utilizziamo per indagare i nostri pensieri, `e sicuramente la pi`u adeguata a descrivere le nostre esperienze ‘interne’. Tuttavia, quando si confrontano i risultati introspettivi con quelli scientifici, `e necessario “metterli fra parentesi”, come direbbe Dennett, poich´e, se l’introspezione fosse un processo biologico, allora sarebbe soggetta all’influenza di tutti gli errori e di tutti i processi inconsci di cui non siamo a conoscenza quando formuliamo un giudizio sui nostri stati mentali. Quella che Nagel considera come “the most important and characteristic feature of conscious mental phenomena” [Nagel, 1974, p. 436], cio`e la soggettivit`a, `e la stessa caratteristica che pi`u di ogni altra ci impedisce di vedere l’oggettivit`a della realt`a, che ci porta a favorire inconscia- mente il nostro punto di vista rispetto a quello degli altri e che ci conduce a creare arbitrarie distinzioni fra la nostra coscienza e quella degli altri esseri viventi.

Molti dei filosofi citati sostengono che la descrizione della coscienza non possa esaurirsi in un approccio in terza persona. A questo fatto indubbiamente vero affianco quello contrario, cio`e che una descrizione della coscienza non pu`o esaurirsi in un approccio esclusivamente in prima persona. Non perch´e i contenuti del punto di vista in prima persona siano irrilevanti, tutt’altro, sono cos`ı rilevanti da essere parte integrante nella nostra percezione in un modo estremamente complesso. Come abbiamo visto nella teorie esposte finora, la nostra mente `e plasmata dall’ambiente esterno tanto quanto lui `e plasmato da essa: le nostre percezioni ricostruiscono in ogni momento la realt`a secondo un processo inconscio il quale non mira a rappresentare una realt`a oggettiva, bens`ı significativa.

Il punto di vista in terza persona invece, rinunciando all’idea di poter dare una spiegazione esaustiva di soggettivit`a, si concentra ad indagare il modo in cui questo processo inconscio si realizza nella nostra struttura biologica, riportando dei risultati che non sono accessibili semplicemente per introspezione.

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