• Non ci sono risultati.

Coscienza: Approcci in Prima e Terza Persona

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Coscienza: Approcci in Prima e Terza Persona"

Copied!
128
0
0

Testo completo

(1)

Universit`

a degli Studi di Pisa

Facolt`

a di Filosofia

Corso di Laurea Magistrale in Filosofia e Forme del

Sapere

Coscienza: Approcci in Prima e Terza

Persona

Relatori:

Prof. Mario Pirchio

Dott. Giacomo Turbanti

Candidato:

Stefano Frigerio

matr. 510694

(2)

2 1 Introduzione

2 Soggettivit`a 7

2.1 Punto di Vista in Prima Persona . . . 13

2.1.1 Qualia e Zombie . . . 19

2.1.2 Introspezione . . . 29

2.1.3 Enattivismo . . . 35

2.2 Mente . . . 42

2.2.1 Cervello . . . 46

2.3 Punto di Vista in Terza Persona . . . 56

2.3.1 Percezione . . . 62

2.3.2 S´e . . . 72

3 Correlati Neurali della Coscienza 82 3.1 Mente Bilaterale . . . 94

3.1.1 Gerarchia dell’Attenzione . . . 103

4 Conclusioni e Direzioni per l’Indagine 111

(3)

1

Introduzione

La filosofia da sempre si impegna a spiegare le particolarit`a dell’esperienza umana, affinando sempre di pi`u i suoi metodi di investigazione ed arrivando a fornire accurate teorie che descrivono il modo in cui l’uomo interpreta il mondo. Nonostante secoli di indagine e ricerca, alcune domande che possiamo formulare sulla mente umana non hanno ancora trovato risposta, ad esempio: “Perch´e siamo coscienti dei nostri pensieri?”, “Le altre persone sono consce allo stesso modo?”, o ancora “Che cosa significa essere consci di una percezione?” e “Che cosa `e la coscienza?”.

Tutte queste domande ruotano attorno ad una caratteristica fondamentale della nostra esperienza, cio`e la soggettivit`a.

Nessuna specie animale al di fuori dell’uomo sembra possedere una ‘vita interiore’ cos`ı sviluppata; solo noi siamo in grado di riflettere sulla nostra stessa natura e di collegare queste riflessioni ad una narrativa individuale che ci accompagna per tutta la vita. Ad oggi, non c’`e alcun dubbio che molte altre specie animali siano in grado in una qualche misura di riflettere e che siano dotate di forme abbozzate di coscienza; tuttavia solo gli esseri umani sembrano essere dotati di una soggettivit`a esplicita. Siamo infatti vividamente consci delle nostre esperienze e siamo in grado di comunicarle agli altri.

Dal momento che l’esperienza conscia `e cos`ı intrinsecamente legata alla soggettivit`a, `e inevitabile porsi una domanda cruciale, cio`e: “`E possibile individuare delle caratteristiche oggettive della coscienza che trascendano l’esperienza soggettiva?”. Posta in altri termini, “`E possibile dare una definizione scientifica di coscienza?”.

Nell’ultimo secolo abbiamo assistito allo sviluppo di una produttiva interdisciplinariet`a fra le neuroscienze, la psicologia e la filosofia, che ha permesso di fare innumerevoli passi avanti su questo argomento. Tuttavia, come notano sia filosofi che scienziati, la coscienza resta un

(4)

tema ancora poco studiato ed affrontato con una certa difficolt`a.

“Future generations, I suspect, will wonder why it took us so long in the twentieth century to see the centrality of consciousness in the understanding of our very exis-tence as human beings. Why, for so long, did we think that consciousness did not matter, that it was unimportant? The paradox is that consciousness is the condition that makes it possible for anything at all to matter to anybody.” [Searle, 1997, p. 14] Se si cercasse di riassumere sinteticamente in che cosa consista questa difficolt`a, sarebbe molto difficile trovare una risposta uguale ad un’altra. Quasi ogni filosofo ed ogni scienziato hanno formulato una sua personale teoria della coscienza, legata ad un particolare punto di

vista. Questo `e stato definito da Chalmers come il “meta-problem of consciousness”, cio`e il

problema di definire esattamente perch´e la coscienza sia cos`ı difficile da spiegare. [Chalmers, 2019]

Il mio punto di vista `e che questa difficolt`a sia connessa alla particolare operazione che viene messa in atto ogni volta che riflettiamo su noi stessi, cio`e quando ci poniamo come un oggetto fra tutti gli altri e, partendo da delle ipotesi, cerchiamo di dimostrarle o confutarle. Ritengo che questo, cio`e l’usuale metodo di indagine introspettiva che utilizziamo per indagare i fenomeni, non sia un metodo efficace per comprendere a pieno la nostra interiorit`a, poich´e non `e in grado di rendere conto di tutti quei processi inconsci che sono costantemente in atto nella rappresentazione che costruiamo di noi stessi e del mondo. Questo per due motivi, uno pi`u evidente e semplice, cio`e che non possiamo realmente esaminarci come un oggetto, ed uno meno evidente, cio`e che la soggettivit`a ci presenta dei concetti intuitivi che direzionano preliminarmente la nostra analisi introspettiva.

Un esempio di queste intuizioni `e il senso di s´e, cio`e la convinzione spesso data per scontata che siamo noi ad esperire le sensazioni, ad avere controllo sul nostro corpo e a pensare i

(5)

nostri pensieri. Senza dubbio `e praticamente impossibile immaginare un’esperienza senza

un ‘qualcuno’ che la compia, e questa intuizione `e cos`ı forte che Cartesio vi ha basato la prova ontologica dell’esistenza, cio`e il “cogito ergo sum”. Da questa teorizzazione sono passati molti secoli, nel corso dei quali i filosofi, seguendo ed indagando le forti intuizioni che abbiamo sulla soggettivit`a, hanno impostato la terminologia e proposto diverse teorie sulla mente. Ad oggi, molte delle idee del passato sono state abbandonate, ma in certi casi la terminologia `e rimasta la stessa, creando un’ulteriore difficolt`a nell’approcciare l’argomento.

“In general, the concepts that neuroscientists initially use to describe mental pro-cesses—such as learning, memory, or consciousness—are those developed by philoso-phers. Such concepts were formed without knowledge of how mental processes are mediated by the brain. Once neuroscientists define a specific mental process in psy-chological terms—and we can now do so quite precisely—they then can attempt to localize and analyze the neuronal systems that mediate the process. This approach, as we shall see, can now even be applied to consciousness.” [Kandel et al., 2013, p. 385]

L’incalzante sfida delle neuroscienze `e quindi quella di rintracciare i sistemi neurali che sono correlati alla formazione del pensiero, nello sforzo di fornire descrizioni scientifiche dei com-plessi processi alla base della coscienza. La filosofia, e pi`u in generale le scienze umane, possono giocare un ruolo attivo e cruciale in questo sforzo, operando una riforma della ter-minologia che normalmente impieghiamo per parlare di mente, coscienza e pensiero, in modo che si possa adattare alle pi`u recenti descrizioni funzionali che siamo in grado di dare del cervello. Considerare la mente come sinonimo di cervello `e un approccio che `e stato definito

riduzionista, ed `e quello che possiamo vedere applicato da molti neuroscienziati, come ad

esempio Koch, il quale `e “alla ricerca di spiegazioni quantitative della coscienza nella in-cessante e creativa attivit`a di miliardi di minuscole cellule nervose.” [Koch, 2013, p. 8] Ad

(6)

opporsi a questa prospettiva si trovano alcune teorie filosofiche, come quella di Chalmers, le quali argomentano che la mente non possa essere interamente spiegata osservando l’attivit`a neuronale e che, per poter descrivere adeguatamente la coscienza, si debba indagare pi`u se-riamente l’esperienza soggettiva, cio`e il punto di vista in prima persona.

Considero questa dualit`a fra prima e terza persona, resa celebre da Nagel, il nucleo fon-damentale delle problematicit`a che si incontrano nell’affrontare il tema della coscienza; non credo che la via da percorrere sia quella di privilegiare un punto di vista piuttosto che l’altro, ma di integrarli il pi`u possibile in modo che possano sostenersi e confutarsi a vicenda. Di conseguenza, nel primo capitolo esploreremo il problema della soggettivit`a innanzitutto dal punto di vista in prima persona, soffermandoci su concetti di cruciale importanza per qual-siasi discussione sulla coscienza, come qualia, introspezione e mente; dopodich´e analizzeremo il punto di vista in terza persona per confrontare i risultati filosofici con quelli scientifici, in modo da trovare i punti in comune e le diversit`a.

Per spiegare esaustivamente le intuizioni che governano la nostra mente bisogner`a indagare approfonditamente i meccanismi della percezione, i sistemi sensoriali ed i processi attraverso i quali interpretiamo la realt`a e vi attribuiamo significato. Ci concentreremo quindi sul cervello, per esaminare fino a che punto si possa spingere una spiegazione riduzionista della mente e per capire quali aree del cervello gli scienziati prendono in considerazione come

correlati neurali della coscienza. Per quanto sia indiscutibile che non si possa ascrivere ad

una singola zona l’intero funzionamento della coscienza, `e importante distinguere quali aree sono pi`u strettamente coinvolte nei processi consci e quale sia il loro contributo.

Sicuramente la chiave per comprendere il ruolo della coscienza, e di conseguenza descriverla, non solo risiede nell’individuazione dei correlati neurali, ma anche nel modo in cui il cervello processa le informazioni. Da questo punto di vista, sarebbero molte le direzioni di indagine

(7)

che uno potrebbe intraprendere; ad esempio considerare i meccanismi che governano il flusso e l’integrazione di informazione fra vaste popolazioni di neuroni [Tononi et al., 2014], oppure i meccanismi di sincronizzazione dell’attivit`a elettrica nel cervello [Crick and Koch, 1990], oppure si possono considerare i meccanismi neurali che regolano l’attenzione conscia ed in-conscia nei due emisferi cerebrali. [Ledoux et al., 1977] [Gazzaniga, 2000b, p. 294]

Di questi, l’ultimo `e quello che risulta maggiormente affine ad un’analisi filosofica, perci`o nel capitolo conclusivo esamineremo nello specifico uno di questi meccanismi regolativi, cio`e la gerarchia dell’attenzione fra i due emisferi e che ruolo ricopra nella nostra esperienza fenomenica.

(8)

2

Soggettivit`

a

Nell’ultimo secolo si `e assistito ad un incremento esponenziale dei punti di vista e delle teorie sulla mente; sono molti i tentativi di spiegare cosa sia uno stato mentale e non sembra esserci accordo unanime su questo aspetto dell’esperienza fenomenica. Quello che non sembra essere in dubbio `e l’esistenza di tale aspetto, e che una teorizzazione adeguata e completa della coscienza debba necessariamente fornire una spiegazione di che cosa sia uno stato mentale.

Il dibattito moderno sulla soggettivit`a, che dal novecento ad oggi ha determinato questo pluralismo di punti di vista, `e nato come reazione ad una teoria psicologica del 1900, cio`e il comportamentismo. Questa teoria propose un approccio sperimentale per lo studio del comportamento, eliminando ogni riferimento ai contenuti di uno stato mentale, alla coscienza e allo spirito.

Una delle figure di spicco di questa corrente fu Ivan Pavlov 1, il quale voleva riformare il

linguaggio utilizzato nel suo laboratorio, al fine di evitare espressioni come “il cane pensava,

voleva, desiderava, etc...” [Abbagnano and Fornero, 1998, p. 171]

Nel suo libro “I riflessi condizionati”, considerato un classico della psicologia, scrisse: “Dobbiamo noi forse, per comprendere i nuovi fenomeni, penetrare nell’essere

inte-riore dell’animale, rappresentarci a modo nostro le sue sensazioni, i suoi sentimenti e

desideri? Per lo sperimentatore scientifico, la risposta a quest’ultima domanda pu`o essere, a me sembra, una sola: un no categorico.” [Pavlov, 1950, p. 17]

Durante le prime decadi dalla sua teorizzazione, il comportamentismo acquis`ı molta popolarit`a e venne adottato in molti campi anche al di l`a della psicologia. Questo approccio fu in grado di fornire la possibilit`a di misurare in maniera quantitativa la manifestazione

(9)

oggettiva degli stati mentali, cio`e il comportamento. Escludendo dall’indagine scientifica tutti quegli elementi non misurabili empiricamente, fu possibile esplorare nuove teorie, restando su un terreno solido, che non potesse essere messo in dubbio dalle interpretazioni pi`u spirituali della mente. Concentrandosi solo sulle azioni osservabili, i comportamentisti si chiedevano “che cosa fa un organismo e come lo fa?”.

Come uno pu`o giustamente presumere, non molti pensatori consideravano seriamente che gli stati mentali e i processi interni non esistessero. Tuttavia nessuno sapeva come approcciare direttamente e scientificamente lo studio della mente; non c’`e quindi da stupirsi delle posizioni ‘estreme’ che adottarono i ricercatori nel trattare questo argomento.

“Little wonder they grasped at whatever surer ground they had available, the direct study of behaviour. And indeed the analysis of behaviour produced many important insights. These insights had a profound and often positive effect on psychology. All that believers in ‘cognitive processes’ could do was stand around and say: But this isn’t all!.” [Chalmers, 1989]

Come ormai `e abbastanza evidente, gli esseri umani e gli altri animali superiori compiono azioni anche a causa di contenuti interni, che, con la semplice osservazione del compor-tamento, non sono comprensibili. Perci`o il comportamentismo inizi`o progressivamente a perdere seguito ed essere criticato per il suo approccio eliminativista, dal momento che la descrizione degli stati mentali non poteva semplicemente esaurirsi nel comportamento, e il comportamento stesso non poteva essere descritto esaustivamente senza implicare stati mentali in grado di influenzare e determinare le azioni che compiamo.

“In those days, nobody had the slightest idea what was going on inside the brain. To speak of internal cognitive processes was to descend to the level of speculation. The only things which people could get a handle on were behavioural manifestations. It

(10)

was natural that as a result, behaviour became by far the dominant area of research. Nobody even had a clear idea of what would be the correct language to talk about internal processes with. [Chalmers, 1989]

Questo approccio venne dunque abbandonato, specialmente in filosofia, poich´e all’interno di questa cornice non vi sarebbe stata la libert`a e il modo di discutere concetti fondamentali come la coscienza. Questo `e uno dei motivi per i quali si `e assistito all’ascesa di correnti come il funzionalismo, di cui Putnam [Putnam, 1960] `e stato uno dei maggiori teorici. In maniera molto sintetica, questa teoria argomenta che gli stati mentali dipendano dall’organizzazione funzionale del sistema cognitivo in cui sono realizzati. In altre parole, non `e semplicemente il possedere un cervello a renderci coscienti, ma possedere un cervello in grado di organizzare una struttura funzionale di questi stati mentali. Putnam individua quindi tre caratteristiche che distinguono gli stati mentali da quelli fisici:

• L’organizzazione funzionale degli esseri umani o delle macchine pu`o essere descritta rispettivamente in termini di sequenze di stati mentali o stati logici senza dover fare riferimento alla natura della “realizzazione fisica” di tali stati.

• Questi stati sembrano essere intimamente connessi con la verbalizzazione.

• Nel caso del pensiero razionale (o della computazione), il “programma” che determina quale stato segue quale, etc, `e soggetto a critiche razionali. [Putnam, 1960]

Per fare un esempio, spesso utilizzato, che renda esplicito questo ragionamento, Putnam prende in considerazione il concetto di dolore. Dal suo punto di vista, dire che le nostre fibre C, cio`e i recettori del dolori, sono stimolate o dire che stiamo provando dolore `e la stessa cosa. Questo non perch´e le nostre fibre hanno qualche propriet`a speciale, ma perch´e assolvono alla funzione di segnalare, o provocare, uno specifico stato mentale, quello del dolore. Di

(11)

conseguenza, qualsiasi sistema cognitivo che contiene una struttura adatta a questa stessa funzione, `e in grado di provare dolore. Tuttavia, anche dando questa caratterizzazione agli stati mentali, le domande che ancora richiedono una risposta sono molte, ad esempio: “Come facciamo a fare esperienza del mondo, e come l’esperienza diventa conoscenza?”, o ancora, “Come vengono rappresentate l’esperienza e la conoscenza nel cervello?”. Ancora non esiste una teoria in grado di rispondere a queste domande in maniera completa, e diversi ostacoli si frappongono sul percorso. Molto, forse la maggior parte dell’attivit`a neurale `e inconscia. Per questo motivo, una delle sfide cruciali per le neuroscienze `e comprendere la natura dei processi inconsci, i sistemi che li mediano e la loro influenza sull’attivit`a mentale cosciente.

“Finally, we need to know about the highest realms of conscious knowledge, the knowledge of oneself as an individual, a thinking and feeling human being.” [Kandel et al., 2013, p. 1350]

Come abbiamo menzionato, alcuni filosofi sono convinti che la natura “pensante” e “in grado di provare emozioni” dell’essere umano non sia studiabile con i normali metodi di investigazione scientifica, poich´e non considerano la mente riducibile esclusivamente all’attivit`a del cervello.

Uno dei pi`u importanti ed attivi su questo dibattito `e David Chalmers, al quale viene attribuita la formulazione del famoso “Hard problem”, che discuteremo successivamente. Chalmers considera la coscienza come composta di percetti sensoriali e consci, cio`e i qualia, che caratterizzano l’esperienza fenomenica della percezione. La sua proposta `e quella di trovare un equilibrio fra le posizioni materialiste e riduzioniste normalmente impiegate dagli scienziati e le posizioni pi`u idealiste tipiche della filosofia.

(12)

quali propriet`a pu`o svilupparsi?”

Presumibilmente queste saranno propriet`a che un cervello `e in grado di provvedere, ma non `e chiaro quali siano le propriet`a giuste. Alcuni hanno proposto propriet`a biochimiche; alcuni hanno proposto propriet`a quantistiche; molti semplicemente ignorano del tutto la questione. [Chalmers, 1995a, p. 231]

“A natural suggestion is that Consciousness arises in virtue of the functional organi-zation of the Brain. On this view, the chemical and indeed the quantum substrate of the Brain is irrelevant to the production of Consciousness. What counts is the Brain’s abstract causal organization, an organization that might be realized in many different physical substrates.” [Chalmers, 1995a, p. 231]

La sua argomentazione `e quindi che la coscienza sia il risultato delle propriet`a fisiche del cervello, pi`u nello specifico dall’organizzazione causale delle strutture neurali, ma che non possa essere ridotta a loro soltanto. Dal suo punto di vista, la coscienza sopravviene 2

naturalmente sulle propriet`a fisiche ma non logicamente, cio`e sono sistematicamente

correlate ma non logicamente implicate.

“It seems very likely that consciousness is naturally supervenient on physical proper-ties, locally or globally, insofar as in the natural world, any two physically identical creatures will have qualitatively identical experiences. It is not at all clear that consciousness is logically supervenient on physical properties, however. It seems log-ically possible, at least to many, that a creature physlog-ically identical to a conscious creature might have no conscious experiences at all, or that it might have conscious experiences of a different kind. If so, then conscious experience supervenes naturally but not logically on the physical. The necessary connection between physical struc-ture and experience is ensured only by the laws of nastruc-ture, and not by any logical or

2Chalmers definisce la sopravvenienza come segue: “B-properties supervene on A-properties if

no two possible situations are indiscernible with respect to their A-facts while differing in their B-facts” [Chalmers, 1995a, p. 31].

(13)

conceptual force.” [Chalmers, 1995a, p. 34]

Quando Chalmers si riferisce alla possibilit`a logica dell’esistenza di creature senza esperienze consce, si sta riferendo alla sua argomentazione degli “zombies”, di cui parleremo pi`u avanti, e a quello che viene definito il “problema delle altre menti”, cio`e l’impossibilit`a di dimostrare empiricamente che esistano altre coscienze all’infuori della nostra. Tradizionalmente, questo viene considerato un problema insolubile poich´e non possediamo strumenti per analizzare gli stati mentali, se non con l’osservazione del comportamento e con le relazioni verbali di un individuo. Come abbiamo visto, questo `e ci`o che ha reso affascinante l’approccio comportamentista della mente, ma `e anche la sua pi`u grande limitazione. Interessandosi solo al comportamento, esclude gli aspetti pi`u caratteristici degli stati mentali, cio`e la loro

qualit`a soggettiva, l’immediatezza e l’incorreggibilit`a.

Per questa ragione, Chalmers sostiene il fallimento di ogni spiegazione riduzionista della coscienza. Secondo lui, il punto di vista in prima persona resta uno dei misteri non risolti pi`u grandi, spesso ignorato o sottovalutato dagli scienziati. Quest’aria di mistero che lo circonda ha portato molte persone ad allontanarsi dalle teorizzazioni in prima persona, temendone le connotazioni pi`u ‘spirituali’ ed ‘occulte’ che sembra avere. Tuttavia, sempre secondo Chalmers, non si pu`o rifiutare facilmente il punto di vista in prima persona. `E, e resta, una lampante anomalia, che parrebbe ridicola se non per l’esperienza diretta che tutti abbiamo delle particolarit`a del punto di vista in prima persona.

Contrariamente, il punto di vista in terza persona non pone alcuna difficolt`a metafisica. Le difficolt`a che vi sono, pur non sminuendole, sono di natura tecnica. Dalla terza persona, il cervello umano `e, in via di principio, comprensibile. `E un sistema fisico tremendamente complesso, ma rimane un sistema fisico e, in quanto tale, obbedisce alle leggi della fisica. `E costituito da microscopici elementi fisici e, avendo una conoscenza dettagliata dei principi

(14)

fisici, il suo ‘comportamento’ `e analizzabile e prevedibile. Come dice Chalmers, dal punto di vista in terza persona non c’`e spazio per alcun mistero. [Chalmers, 1989]

Partiamo quindi affrontando la definizione di “punto di vista in prima persona”, analizzando le questioni pi`u importanti per poter arrivare ad una definizione di coscienza che soddisfi i criteri di questa indagine.

2.1

Punto di Vista in Prima Persona

Se c’`e una coscienza, c’`e un punto di vista. Questa `e una delle lezioni fondamentali che abbiamo imparato sulla nostra mente, idea resa celebre dall’articolo di Nagel “What is it

like to be a Bat?”. In esso prese posizione contro la sempre crescente tendenza riduzionista

degli scienziati contemporanei, argomentando che il carattere soggettivo dell’esperienza non pu`o essere pienamente compreso da un punto di vista in terza persona. Per fare ci`o, propose di immaginarsi cosa volesse dire vivere la vita di un pipistrello, evidenziando come sia impossibile pensare la sensazione che si prova ad essere quell’animale, a meno che non si diventi un pipistrello a nostra volta. Anche se questo potesse accadere, dice, comunque non potremmo avere nessuna concezione a priori di cosa voglia dire essere un pipistrello, poich´e i nostri sistemi sensoriali, e quindi le nostre esperienze, sono completamente diverse.

“We have at present no conception of what an explanation of the physical nature of a mental phenomenon would be. Without consciousness the mind-body problem would be much less interesting. With consciousness it seems hopeless. The most important and characteristic feature of conscious mental phenomena is very poorly understood. Most reductionist theories do not even try to explain it” [Nagel, 1974, pp. 435-436]

(15)

coscienti”, per Nagel `e il punto di vista soggettivo, in prima persona, che ogni organismo ha rispetto alle proprie esperienze. Tuttavia ‘soggettivit`a’ `e un termine piuttosto ampio, che include molti aspetti diversi, di conseguenza, altri filosofi hanno esplorato caratteristiche pi`u specifiche della soggettivit`a. Ad esempio Searle ha enfatizzato l’intenzionalit`a, mentre Chalmers l’immediatezza.

Secondo Nagel, nessuna attuale teoria scientifica sulla mente `e in grado di catturare queste particolarit`a dei fenomeni mentali, poich´e tutte le teorie che abbiamo sono compatibili con la loro assenza. La soggettivit`a non pu`o essere analizzata in termini di stati funzionali, o stati intenzionali, poich´e questi possono essere ascritti ad automi o zombie che si comportano come le persone, pur non esperendo nulla. Non `e analizzabile in termini di ruolo causale dell’esperienza in relazione al tipico comportamento umano per simili ragioni. [Nagel, 1974, p. 436]

Riassumendo la sua argomentazione, a prescindere da come il tempo e le scoperte influenzino le nostre idee al riguardo, il fatto che un organismo abbia coscienza significa che c’`e qualcosa che quell’organismo prova ad essere se stesso, con i propri sensi e la propria costruzione percettiva del mondo. Di conseguenza scrive:

“If physicalism is to be defended, phenomenological features must themselves be given account. But when we examine their subjective character seems that such a result is impossible. The reason is subjective phenomenon is essentially connected with a single point of view, and it seems inevitable that an objective, theory will abandon that point of view.

... It bears directly on the mind-body problem. For if the facts of experience - facts about what it is like for the experiencing organism - are accessible only from one point of view, then it is a mystery how the true character of experiences could be revealed in the physical operation of that organism.” [Nagel, 1974, pp. 441-442]

(16)

Questa teorizzazione del problema della soggettivit`a `e molto elegante e precisa nel mettere in discussione la pretesa di completezza che la scienza normalmente avanza; tuttavia, non tutti i filosofi accettarono questa aporia epistemologica.

Ad esempio Dennett, nella sua risposta all’articolo di Nagel, argomenta che ci si possa effettivamente immaginare cosa significhi essere un pipistrello. Che ci si possa immaginare cosa significhi vivere in un mondo buio, volando con piccole ali ed evitando gli ostacoli grazie alla riflessione dei suoni; `e solo molto difficile ricostruire quest’immagine con i sensi di cui siamo dotati.

Tuttavia, se ci impegnassimo ad immaginarlo tutti giorni, diventerebbe sempre pi`u facile. La scienza, quindi una comprensione oggettiva dell’esperienza dei pipistrelli, potrebbe aiutarci a comprendere meglio e con maggior attenzione cosa implichi vivere la vita di un pipistrello. Potremmo addirittura utilizzare la tecnologia e l’arte per creare rappresentazioni sempre pi`u comprensive di cosa significa poter volare e possedere l’ecolocazione.

Nagel argomenterebbe che ad un certo punto incontreremmo una barriera epistemologica poich´e ogni nostro sforzo di oggettivare questa soggettivit`a non potr`a mai essere un’autentica soggettivit`a. Per quanto ritengo che questo sia logicamente vero, l’affinamento della nostra comprensione oggettiva dei fenomeni e lo sforzo di integrarli e contestualizzarli con una rappresentazione della soggettivit`a dell’organismo ci porterebbe a capire pi`u adeguatamente cosa significhi essere un pipistrello.

Secondo Dennett, anche solo apprendere ed interpretare tutti i dati delle ricerche gi`a svolte sarebbe un esercizio lungo ed informativo, in grado di far rivedere la posizione a chiunque pensi che sia “semplicemente ovvio” che non si possa comprendere che cosa si provi ad essere un pipistrello. Ci potremmo dunque domandare, “Che cosa succederebbe se arrivassimo in fondo a questo esercizio?”

(17)

“We might just keep learning more and more and more, replacing one heterophe-nomenological narrative after another, becoming ever greater authorities on what it is like to be a bat. Eventually we might arrive at heterophenomenological narra-tives that no critic could find any positive grounds for rejecting. At that point, we should accept them–tentatively, pending further discoveries–as accurate accounts of just what it is like to be a bat.” [Dennett, 1991b, p. 5]

Dal suo punto di vista, il problema epistemologico `e difficile, ma affrontabile direttamente con i metodi di ricerca gi`a conosciuti. Questa `e quindi una posizione fisicalista, la quale assume che la soggettivit`a possa essere compresa in maniera esaustiva semplicemente osservando il funzionamento del cervello dell’organismo; tuttavia, come ci ricorda e ci avverte Nagel, `e troppo presto per considerare il fisicalismo una teoria dimostrabile, “poich´e al momento non abbiamo nessuna concezione di come possa esser vero.” [Nagel, 1974, p. 446] La nostra conoscenza dei fenomeni mentali `e ancora molto immatura, di conseguenza `e troppo presto per assumere posizioni definitive. Al momento non ci sono basi sufficienti per negare o predicare la coscienza negli animali, ma ci`o `e altrettanto vero per le “altre menti”; se volessimo assumere una posizione scettica sull’esistenza della coscienza in altre forme di vita all’infuori degli umani, allora lo scetticismo dovrebbe essere applicato anche agli altri esseri umani, relegandoci ad una condizione di solipsimo. Come scrive Koch, in un suo articolo ironicamente intitolato “What is it like to be a bee?”, fino a che non si raggiunger`a una completa teorizzazione di questi fenomeni, la miglior posizione da tenere `e agnostica.

“Although these experiments do not tell us that bees are conscious, they caution us that we have no principled reason at this point to reject this assertion. Bees are highly adaptive and sophisticated creatures with a bit fewer than one million neurons, which are interconnected in ways that are beyond our current understanding, jammed into less than one cubic millimeter of brain tissue... So the next time a bee hovers above

(18)

your breakfast toast, attracted by the sweet jam, gently shoo her away. For she might be a fellow sentient being, experiencing her brief interlude in the light, shoehorned between this moment and eternity.” [Koch, 2008, p. 19]

Il dibattito sul punto di vista in prima persona `e radicato in profondit`a non solo all’interno della filosofia della mente, ma coinvolge direttamente la definizione stessa di “essere umano”. Da sempre, si `e tracciata una linea netta di demarcazione fra noi e gli animali, argomentando che noi siamo consci e loro no, oppure che noi siamo coscienti in un modo intrinsecamente diverso dal loro. Tuttavia questo presuppone che la coscienza sia uno speciale processo “tutto-o-niente” derivato da un qualche processo che risiede esclusivamente nell’essere umano.

Questa non `e un’idea molto diffusa all’interno della comunit`a scientifica; ad esempio il neuroscienziato Damasio focalizza la sua teoria intorno alla gerarchia di ‘attivit`a mentali’ che un organismo pu`o compiere. Al livello pi`u basso si trova il “proto-self”, cio`e la rappre-sentazione, perlopi`u inconscia, che un organismo continuamente ha di se stesso. Secondo Damasio, questa rappresentazione coincide con l’attivit`a di precisi correlati biologici che discuteremo pi`u avanti. Grazie alle relazioni che un organismo pu`o intessere fra il proto-s´e e gli stati mentali 3, emerge la core consciousness, cio`e quel tipo di coscienza associata alla

consapevolezza del proprio corpo e delle proprie sensazioni. Entrambi questi livelli sono

condivisi da animali e uomini indifferentemente. [Bosse et al., 2008]

Evidentemente noi siamo in grado di svolgere attivit`a mentali di gran lunga pi`u sofisticate di quelle di un animale, come ad esempio l’elaborazione linguistica, e ci`o si riflette anche nella struttura anatomica del cervello 4. Infatti, per Damasio, noi possediamo quella che lui

3Che Damasio chiama oggetti neurali.

4Ad esempio l’area di Wernicke e l’area di Broca, che si occupano della comprensione e dell’espressione

linguistica, sono molto pi`u sviluppate nell’uomo rispetto a quelle dei primati, ed `e ancora dibattuto se le aree omologhe di questi ultimi svolgano la stessa funzione.

(19)

definisce extended consciousness, cio`e la capacit`a di collegare linguisticamente, ma non solo, eventi autobiografici, esperienze e ricordi. Tuttavia, come dice Dennett:

“While the presence of language marks a particularly dramatic increase in imagina-tive range, versatility, and self-control (to mention a few of the more obvious powers), these powers do not have the further power of turning on some special inner light that would otherwise be off.” [Dennett, 1991b, p. 8]

Egli definisce la tendenza a privilegiare le caratteristiche mentali come caratteristiche esclusivamente umane un pregiudizio antropocentrico, il quale non tiene nemmeno conto delle sostanziali differenze che si possono riscontrare fra la coscienza di un individuo e quella di un altro. Come pu`o risultare abbastanza evidente ad una riflessione attenta, non siamo tutti coscienti allo stesso modo, poich´e non condividiamo le stesse esperienze e siamo dotati di strutture percettive uniche e individuali. Patologie, malformazioni e danni alle strutture cerebrali possono comportare alterazioni del livello di coscienza, o addirittura radicali trasformazioni. Perci`o si chiede, ad esempio, quali considerazioni potremmo fare dei sordomuti. Dal suo punto di vista, non dovremmo saltare a conclusioni stravaganti sulla loro coscienza guidati da una fuorviante simpatia: senza un linguaggio naturale con cui potersi esprimere, la mente di un sordomuto `e terribilmente limitata.

“One does not do deaf-mutes a favor by imagining that in the absence of language they enjoy all the mental delights we hear human beings enjoy, and one does not do a favor to non-human animals by trying to obscure the available facts about the limitations of their mind.

And this, as many of you are aching to point out, is a subtext that has been strug-gling to get to the surface for quite a while: many people find Nagel’s nihilistic thesis congenial because they fear that if we succeed in explaining the truncated consciousness of bats and other animals, we will lose out moral bearings. Maybe we

(20)

can imagine a conscious computer (or the consciousness of a bat) but we shouldn’t try, they think.” [Dennett, 1991b, pp. 8-9]

Sembra ovvio dire che siamo l’unica specie cosciente; l’unica specie dotata della capacit`a di provare emozioni complesse e una ricca vita mentale. Purtroppo per`o, non `e affatto ovvio spiegare in che cosa consista questa unicit`a. Un’ipotesi, avanzata dal famoso biologo Francis Crick, da lui definita “The Astonishing Hypotesis”, `e che non siamo affatto unici: dal suo punto di vista, la coscienza non `e nient’altro che il comportamento sincronizzato di grandi popolazioni di neuroni ed `e descrivibile in maniera oggettiva, seguendo le regole della fisica classica. Utilizzando le sue parole, l’ipotesi sorprendete `e che “Tu”, le tue gioie, i tuoi dolori, le tue memorie e le tue ambizioni, sono di fatto niente pi`u che il comportamento di una vasta assemblea di neuroni e delle loro molecole associate. Questa ipotesi `e cos`ı aliena rispetto alle idee comunemente condivise oggi, che pu`o davvero essere chiamata sorprendente. [Crick, 1994, p. 3] Molte persone sono in effetti riluttanti ad accettare un approccio cos`ı riduzion-ista, anzi sembra quasi controintuitivo rispetto ai dati che ricaviamo dalla nostra esperienza soggettiva. Esperiamo a tutti gli effetti una vita mentale, fatta, come dice Crick, di gioie, dolori, memorie, etc, cio`e di sensazioni talmente vivide e complesse da non poter essere precisamente ed interamente comunicate a qualcun altro. La domanda che quindi rimane la pi`u misteriosa `e perch´e esperiamo una vita mentale, quando sembra del tutto possibile che organismi si possano comportare efficacemente nel loro ambiente senza essere coscienti? Se davvero non siamo nient’altro che neuroni, allora come si spiega una cos`ı ricca vita mentale?

2.1.1 Qualia e Zombie

Sviluppando questo ragionamento e portandolo alle sue estreme conseguenze, Chalmers ha proposto l’esperimento mentale degli zombie, in molti versi simile all’esperimento cartesiano

(21)

degli automata.

Questo genere di zombie, teorizzati da Chalmers, `e molto differente dagli zombie che ven-gono rappresentati nei film di Hollywood, i quali tendono ad avere impedimenti funzionali significativi, ed `e differente da quelli ritrovabili nella tradizione Vodou Haitiana, i quali mancano di libero arbitrio.

Quello che gli interessa sono ci`o che chiama zombie fenomenici, sarebbe a dire umani fun-zionalmente e fisicamente identici a noi, ma mancanti di esperienze e sensazioni fenomeniche. Questi zombie si comporterebbero in maniera indistinguibile rispetto agli esseri umani coscienti, potrebbero addirittura fornire descrizioni verbali dei loro stati mentali, pur essendo completamente privi di sensazioni qualitative interne. Che queste creature esistano per davvero o meno non `e l’argomentazione di Chalmers, quello che gli interessa `e la loro possibilit`a logica. Poche persone, se ve ne sono davvero alcune, credono che gli zombie esistano sul serio. Tuttavia molti sono convinti che siano quantomeno pensabili, e, in un certo senso, possibili. Se gli zombie intesi da Chalmers fossero possibili, allora il fisicalismo sarebbe necessariamente falso ed invece qualche tipo di dualismo deve essere vero. Per molti filosofi questo concetto degli zombie `e di primaria importanza, non solo per il problema in s´e, quanto per l’enfasi che pone su concetti fondamentali come immaginabilit`a, possibilit`a e

concepibilit`a. Il problema degli zombie solleva problematiche epistemologiche di vario tipo,

ma soprattutto instituisce nuovamente l’importanza del problema delle “altre menti”. [Kirk, 2003]

Per Chalmers, lo scopo di questo esperimento mentale `e dimostrare che la coscienza non `e sopravveniente logicamente ai fatti fisici, cio`e che non esista una relazione a priori fra fatti fisici e fatti fenomenici; di conseguenza, la sola descrizione del comportamento umano non pu`o valere come spiegazione comprensiva della soggettivit`a dell’individuo. Chalmers sostiene

(22)

che se gli zombie sono possibili da immaginare, allora il fisicalismo, il quale argomenta che la coscienza dipende esclusivamente da fatti fisici, non pu`o essere vero [Chalmers, 1995a, pp. 109-110].

“Of course, an opponent might simply deny that our knowledge of consciousness is certain, and assert that there are skeptical scenarios that we cannot rule out a zombie scenario, for example. But anyone who takes this view will likely be an eliminativist (or a reductive functionalist) about consciousness from the start.

... To take consciousness seriously is to accept that we have immediate evidence that rules out its nonexistence. Of course, all this is open to argument in the usual way; but the point is that there is no special reason to start disputing this at this point in the argument. Eliminativists and reductive functionalists have departed long ago. If one takes consciousness seriously, then one has good reason to believe that a causal or reliabilist account of our phenomenal knowledge is inappropriate.” [Chalmers, 1995a, p. 182]

Potremmo concludere che siamo tutti zombie, indulgendo in una qualche forma di scetti-cismo epistemologico, convincendoci che le nostre percezioni non sono niente pi`u che una allucinazione di una realt`a invisibile ed inarrivabile. Alcuni, come Henry Huxley, hanno portato queste idee alla loro estrema conseguenza, sostenendo che la coscienza sia un

epifenomeno, come il vapore emesso da una locomotiva. Altri, come Dennett, credono invece

che l’argomento degli zombie sia una problematizzazione insensata. Nella sua prospettiva, c’`e un’altra modalit`a per approcciare il problema della concepibilit`a degli zombie, che ritiene pi`u soddisfacente. “Sono immaginabili gli zombie?”. Non solo sono immaginabili, di fatto

siamo tutti quanti zombie. Nessuno `e cosciente nel modo sistematicamente misterioso in cui

lo intende Chalmers. Non si pu`o provare che questa sorta di coscienza esista, come non si pu`o provare che esistano creature soprannaturali. Il meglio che si pu`o fare `e dimostrare che non esistono motivazioni rispettabili per mantenere queste posizioni. [Dennett, 1991a, p.

(23)

406]

Tuttavia, non `e questo il percorso che Chalmers ci sta incoraggiando a seguire; dal suo punto di vista, l’esistenza della coscienza `e un dato di fatto che non si pu`o trascurare, e, per analizzarla seriamente, dobbiamo abbandonare ogni descrizione che vede il nostro accesso ad essa come mediato.

“This sort of mediation is appropriate when there is a gap between our core epistemic situation and the phenomena in question, as in the case of the external world: we are connected to objects in the environment from a distance. But intuitively, our access to consciousness is not mediated at all. Conscious experience lies at the center of our epistemic universe; we have access to it directly 5.” [Chalmers, 1995a, p. 182]

Per Chalmers l’esperienza soggettiva `e accessibile direttamente; di fatto `e la sensazione qualitativa che accompagna ogni percezione. Questa sensazione `e di vitale importanza per ogni descrizione fenomenica in prima persona, talmente importante che i filosofi hanno coniato il termine qualia per riferirsi ad essa.

Questa nozione `e stata utilizzata come argomentazione per il primato del punto di vista in prima persona. La conoscenza che abbiamo del mondo `e innanzitutto una consapevolezza immediata dei qualia che stiamo esperendo. Ogni esperienza che abbiamo `e in una sorta di relazione inscindibile con gli oggetti, che Russell ha definito come acquaintance 6.

Esempi di qualia sono: il particolare dolore che proviamo in seguito ad un malessere, oppure gli specifici sapori che gustiamo nel mangiare, o ancora, la ‘verdit`a’ di un verde che stiamo osservando.

Non esiste un modo per verificare scientificamente l’esistenza di queste sensazioni; il concetto di qualia potrebbe in effetti essere considerato come un tentativo di descrizione

5Corsivo mio.

(24)

in terza persona di un carattere fondamentale dell’esperienza in prima persona. Tuttavia, il dibattito `e molto acceso e controverso, e molti pensatori sono scettici riguardo la loro effettiva esistenza.

Uno dei pi`u critici `e nuovamente Dennett, il quale si `e spinto fino ad intitolare un capitolo del suo libro “Consciousness Explained”, “Qualia disqualified”, nel quale scrive:

“It’s not hard to see how philosophers have tied themselves into such knots over qualia. They started where anyone with any sense would start: with their strongest and clearest intuitions about their own minds. Those intuitions, alas, form a mutu-ally self-supporting closed circle of doctrines, imprisoning their imaginations in the Cartesian Theater.” [Dennett, 1991a, p. 369-370]

Con “Teatro Cartesiano”, Dennett si sta riferendo alla comune intuizione che esista una zona speciale del cervello dove arrivano tutte le informazioni percettive per essere rese coscienti. Sebbene questa teoria sia stata abbandonata da moltissimi anni, il suo “immaginario

persuasivo”, come lo definisce Dennett, continua a pervadere le nostre menti e guidare le

nostre intuizioni introspettive.

Dennett si oppone fermamente all’idea che il nostro accesso alla coscienza sia privilegiato e

diretto; dal suo punto di vista, non c’`e alcun centro nel cervello deputato alla formulazione

delle esperienze consce. Ci sono invece multiple bozze di una stessa esperienza, “composte da un processo di fissazione di contenuti il quale interpreta un ruolo semi-indipendente nella pi`u grande economia del cervello” [Dennett, 1991a, p. 431].

Questo processo di fissazione avverrebbe nella zona del cervello adibita a discriminare alcune specifiche caratteristiche dell’oggetto osservato. La caratteristica peculiare di questo modello, che Dennett chiama “Multiple Drafts Theory”, `e che l’informazione fissata da queste zone non deve essere inoltrata ad ulteriori zone per essere utilizzata nell’esperienza

(25)

conscia. In altre parole, discriminare non significa per forza rappresentare la caratteristica discriminata, poich´e non c’`e nessuno ad esaminare le rappresentazioni, solo la narrativa prodotta dal cervello mentre interpreta la realt`a e se stesso.

Perch´e e come una qualsiasi informazione discriminata emerga come esperienza cosciente

resta una questione aperta, ed `e impreciso chiedersi quando diventi cosciente. Queste discriminazioni dei contenuti distribuite nel cervello producono, con il passare del tempo, un qualcosa che assomiglia ad un flusso narrativo, che pu`o essere pensato come soggetto ad un processo di modificazione costante, effettuato in diverse zone del cervello, ed in continuo divenire. Questo flusso di contenuti assomiglia ad una narrazione poich´e `e molteplice; in qualsiasi momento ci sono pi`u “bozze” di vari frammenti narrativi, a diversi stadi di completezza, in pi`u zone del cervello. [Dennett, 1991a, p. 113]

Quindi, secondo la sua teoria, da una singola esperienza emerge una variet`a di rappresen-tazioni narrative diverse; ciascuna rappresentazione viene processata in parallelo dal cervello e non viene sottoposta ad un ‘centro superiore’, ma resta ‘archiviata’ nella propria zona, fino a che il “flusso narrativo”, o flusso di coscienza, non necessita di rivisitare o ampliare la corrente rappresentazione.

“Information entering the nervous system is under continuous “editorial revision”. For instance, since your head moves a bit and your eyes move a lot, the images on your retinas swim about constantly... But that is not how it seems to us. People are often surprised to learn that under normal conditions, their eyes dart about in rapid saccades, about five quick fixations a second, and that this motion, like the motion of their heads, is edited out early in the processing from eyeball to consciousness. ... We don’t directly experience what happens on our retinas, in our ears, on the surface of our skin. What we actually experience is a product of many processes of interpretation — editorial processes, in effect. They take in relatively raw and one-sided representations, and yield collated, revised, enhanced representations, and they

(26)

take place in the streams of activity occurring in various parts of the brain.” [Dennett, 1991a, pp. 111-112]

Ritornando al tema dei qualia, per Dennett questi non sono altro che “costruzioni logiche” che il soggetto ‘esperisce’ quando una narrativa richiede che si presenti un giudizio di un’impressione soggettiva 7. Possiamo quindi trattare questi giudizi “come atti constitutivi

che danno esistenza ai qualia” [Dennett, 1988].

Nel suo libro pi`u recente, “From Bacteria to Bach and Back”, ha riformulato un nuovo assalto ai qualia, questa volta partendo dall’assunzione che esistano effettivamente. Dopo aver accettato il fatto che ad un esperienza di rosso combaci un qualia rosso, si chiede: “Bene. Adesso che abbiamo installato la nozione di qualia nel nostro ambiguo modello dei processi mentali, che cosa succede dopo?”

“This is the importance of always asking what I have called the Hard Question: And then what happens? Many theorists of consciousness stop with half a theory. If you want a whole theory of consciousness, this is the question you must ask and answer after you have delivered some item “to consciousness” (whatever you take arrival in consciousness to amount to). If instead you just stop there and declare victory, you’ve burdened the Subject or Self with the task of reacting, of doing something with the delivery, and you’ve left that task unanalyzed. If the answer you give to the Hard Question ominously echoes the answer you gave to the “easy” questions about how the pre-qualia part of the process works, you can conclude that you’re running around in a circle.” [Dennett, 2017, pp. 341-342]

Per distanziarsi ulteriormente dalla posizione di Chalmers, aggiunge:

“You might be a zombie, unwittingly taking yourself to have real consciousness with real qualia, “But I know that I am not a zombie!” No, you don’t. The only support

(27)

for that conviction is the vehemence of the conviction itself, and as soon as you allow the theoretical possibility that there could be zombies, you have to give up your papal authority about your own nonzombiehood.” [Dennett, 2017, p. 343]

Ricapitolando, Chalmers considera la nostra esperienza cosciente come una qualit`a intrinseca non riducibile ai meccanismi ‘semplici’ della biologia. Se volessimo descrivere la coscienza in terza persona, riferendoci al comportamento e agli stati intenzionali, otterremmo una descrizione che non differenzierebbe uno zombie da noi. Per questo motivo enfatizza la ‘durezza’ del problema della coscienza, sostenendo che ogni soluzione fisicalista non riesce ancora a spiegare le particolarit`a proprie dell’esperienza in prima persona.

Da un’altra prospettiva, Dennett mette in dubbio il modo in cui accediamo alle nostre intuizioni coscienti, sostenendo che alcuni fenomeni in prima persona, come ad esempio i qualia, sono solo il prodotto delle nostre fallaci intuizioni sulla mente. Questo significa che bisogna resistere alla tentazione di postulare l’esistenza di una pletora di qualit`a soggettive speciali alle quali solo noi abbiamo accesso. Queste qualit`a vanno bene per descrivere la fenomenologia della mente, ma devono essere “messe fra parentesi” quando ci si rivolge ad una spiegazione scientifica. Secondo Dennett, non accorgersi di questa verit`a conduce ad una lista inflazionata di cose che necessitano una spiegazione; in primo luogo un Hard problem che non `e niente pi`u di un artefatto del fallimento nel riconoscere che l’evoluzione ci ha donato un apparato percettivo che sacrifica la verit`a oggettiva in favore dell’utilit`a. [Dennett, 2017, p. 345] Posta il altri termini, il nostro apparato percettivo non ha nessun vantaggio a rappresentare consciamente il modo in cui i sensi scompongono i dati della realt`a e li ricompongo in sensazioni. Al contrario, `e molto utile che la nostra percezione venga guidata da meccanismi inconsci che filtrano, o enfatizzano, alcuni aspetti pi`u o meno salienti.

(28)

“By supplying our minds with systems of representations, this architecture furnishes each of us with a perspective—a user-illusion—from which we have a limited, biased access to the workings of our brains, which we involuntarily misinterpret as a render-ing of both the world’s external properties (colors, aromas, sounds, . . . ) and many of our own internal responses (expectations satisfied, desires identified, etc.). The incessant torrent of selfprobing and reflection that we engage in during waking life is what permits us, alone, to comprehend our competences and many of the reasons for the way the world is.” [Dennett, 2017, p. 349]

Dal suo punto di vista, non ci sarebbe quindi un vero e proprio mistero della soggettivit`a, come invece sostiene Chalmers, e per queste idee `e stato fortemente criticato. Pur con-dividendo in parte il nucleo di queste critiche, cio`e che non si possa negare l’esistenza di evidenze fenomenologiche soggettive, mi trovo in accordo con l’idea che il nostro accesso ai contenuti della coscienza non sia immediato e privilegiato, e che, quando si vuole confrontare le evidenze fenomenologiche con le evidenze scientifiche, sia necessario prestare molta attenzione al linguaggio.

Il problema principale `e trovare una descrizione di soggettivit`a che possa essere valida in entrambi i punti di vista, prima e terza persona. Privilegiando un punto di vista in prima persona si accettano anche le implicazioni che ne conseguono, cio`e la postulazione di propriet`a ineffabili, le quali hanno una esistenza autonoma, privata e non dimostrabile. Privilegiando invece un punto di vista in terza persona, si rischia di trascurare ed ignorare quei processi cos`ı fondamentali per la vita mentale di ogni essere umano, interpretandoli come niente pi`u che una confusione linguistica ereditata dalle dottrine del passato.

Una prospettiva interessante, che ci esorta a mantenere un equilibrio fra questi due estremi, si pu`o trovare nelle idee di Searle, il quale crede che l’urgenza dei moderni riduzionismi derivi dall’implicito errore che accettare la reale esistenza della coscienza significherebbe abbandonare la visione scientifica ed accettare qualche sorta di dualismo.

(29)

“We are blinded to the natural, biological character of consciousness and other mental phenomena by our philosophical tradition, which makes “mental” and “physical” into two mutually exclusive categories. The way out is to reject both dualism and materialism, and accept that consciousness is both a qualitative, subjective “mental” phenomenon, and at the same time a natural part of the “physical” world.” [Searle, 1997, p. 14]

Gli stati consci sono qualitativi nel senso che per ogni stato conscio, come la sensazione del dolore o la preoccupazione per un problema, esiste una qualcosa che si prova qualitativa-mente nell’essere in quello stato, e sono soggettivi nel senso che esistono solaqualitativa-mente quando vengono esperiti da un essere umano o da qualche sorta di soggetto. La coscienza `e un fenomeno biologico naturale che non si riesce ad ascrivere facilmente nelle tradizionali cate-gorie di mentale e fisico. [Searle, 1997, p. 14]

Per questo motivo, ritengo che non sia corretto pensare che si possa raggiungere un’adeguata descrizione di coscienza adottando semplicemente uno dei due punti di vista. Scienza e filosofia devono continuare a collaborare affinch´e le due descrizioni che possiamo dare di questo fenomeno convergano l’una sull’altra. Stiamo a tutti gli effetti osservando un singolo fenomeno, cio`e la coscienza, ma dall’esterno e dall’interno. Osservandola dall’interno, ne siamo influenzati e ne intuiamo i meccanismi fondamentali. Osservandola dall’esterno invece siamo in grado di apprendere molti dettagli sul funzionamento dei nostri apparati percettivi e di come l’informazione venga processata. Senza le intuizioni del punto di vista in prima persona probabilmente non sarebbe nemmeno possibile affrontare uno studio in terza per-sona della coscienza, ma senza di esso non saremmo in grado di comprendere e distanziarci dalle intuizioni immediati che ci governano. Se la speranza `e quella di sciogliere il nodo epistemologico ed ontologico alla base della soggettivit`a, `e evidente che questi due punti di

(30)

vista debbano integrarsi ed evolversi.

2.1.2 Introspezione

“Why is all this processing accompanied by an experienced inner life? Sometimes this question is ignored entirely; sometimes it is put off until another day; and sometimes, it is simply declared that the question has been answered. But in each case, one is left with the feeling that the central problem remains as puzzling as ever”. [Chalmers, 1995a, pp. 9-10]

Il problema della soggettivit`a, conosciuto anche come “Hard Problem”, viene discusso da molto tempo ed `e stato introdotto da Chalmers, il quale ha espresso la necessit`a di differenziarlo da quelle domande che lui chiama “easy problems”, e da ci`o che definisce il “meta-problem” della coscienza, cio`e il problema di spiegare in che cosa consista la problematicit`a della coscienza [Chalmers, 2019, p. 6].

Dal suo punto di vista, gli “easy problem” sono problemi sono relati alla biologia ed alle neuroscienze in un modo ‘quantitativo’, cio`e che possono essere risolti accumulando sempre pi`u conoscenza tecnica dell’argomento. Alcuni esempi di “easy problems” proposti da Chalmers sono [Chalmers, 1995b, p. 2]:

• L’abilit`a di discriminare, categorizzare e reagire agli stimoli ambientali. • L’integrazione dell’informazione in un sistema cognitivo.

• La riportabilit`a degli stati mentali.

• L’abilit`a di un sistema di accedere ai propri stati interni. • L’attenzione.

• Il controllo deliberato del comportamento. • La differenza fra sonno e veglia.

(31)

Secondo lui, risolvere questi problemi `e una questione di misurazione scientifica e tentativi. Ad esempio, per spiegare l’integrazione dell’informazione, sarebbe sufficiente spiegare il meccanismo biologico per cui l’informazione `e accumulata e sfruttata; per spiegare la riportabilit`a, dovremmo specificare il meccanismo per cui l’informazione sugli stati interni viene recuperata, resa disponibile e verbalizzata. [Chalmers, 1995b, p. 4]

Nonostante li definisca ‘semplici’, riconosce che non siamo ancora vicini ad una spiegazione comprensiva di questi fenomeni, e che probabilmente serviranno ancora molte decadi per raggiungerne una soddisfacente.

L’Hard Problem, a differenza dei problemi semplici, pone una questione pi`u immediata e complessa, cio`e: Perch´e siamo consapevoli delle nostre percezioni? Quale necessit`a assolve la componente soggettiva dell’esperienza? Non poteva essere tutto quanto un processo inconscio?

“This might be seen as a Great Divide in theories of consciousness. If you hold that an answer to “easy” problems explains everything that needs to be explained, then you get one sort of theory, and if you hold that there is a further “hard” problem, then you get another. After a point, it is hard to argue across this divide, and discussions are often reduced to table-pounding. To me, it seems obvious that there is something further that needs explaining here; to others, it seems obvious that there is not.” [Chalmers, 1995a, p. 11]

`E difficile poter dare una risposta a questi problemi finch´e vengono discussi in maniera cos`ı generale ed assoluta, soprattutto se non viene definita in modo chiaro la terminologia che verr`a utilizzata nella discussione. Cerchiamo quindi di fare chiarezza su cosa significa

es-sere coscienti di uno stato mentale. Normalmente, con ‘essere coscienti di’ si intende ‘essere

consapevoli di’, cio`e percepire la nostra stessa attenzione rivolta verso un pensiero, una sen-sazione o un’emozione. Questa definizione `e simile a quella che Damasio fornisce della “core

(32)

consciousness”, cio`e la sensazione di una sensazione. In termini filosofici, questo meccanismo

di indagine interna lo possiamo definire introspezione e, come abbiamo detto, differisce dalla sensazione stessa, la quale pu`o anche essere provata inconsciamente, o inconsapevolmente. La maggior parte della nostra vita mentale cosciente dipende in una certa misura dall’introspezione, ed essa pu`o essere paragonata ad uno strumento che possiamo utilizzare e perfezionare per raggiungere una comprensione migliore della nostra esperienza fenomenica, cio`e di ci`o che si presenta alla nostra mente in maniera pi`u o meno caotica. Questa pratica dell’introspezione `e intimamente legata con quella che viene comunemente definita

sogget-tivit`a, poich´e `e l’introspezione che ci permette di accedere a quei contenuti particolari che

caratterizzano gli stati mentali. Mettendo insieme le teorizzazioni dei vari filosofi, queste caratteristiche possono essere ricondotte a tre principali, vale a dire:

• La sensazione di essere qualcuno, cio`e il “What is it like” di Nagel; la sensazione qualitativa che esperisce ogni essere vivente.

• L’immediatezza della sensazione, cio`e l’accesso diretto e privato che ognuno ha rispetto ai propri stati mentali, che fornisce la prima e pi`u vera impressione della realt`a. • L’incorreggibilit`a dell’introspezione, cio`e l’idea che le impressioni che abbiamo delle

sensazioni siano assolutamente vere e che nessuna persona al di fuori di noi possa dimostrarne la falsit`a.

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, non tutti i filosofi condividono l’idea che l’accesso alla nostra coscienza sia privilegiato e non-mediato, e, come vedremo nel dettaglio in seguito, questa idea sembra essere compatibile con le attuali descrizioni neuroscientifiche di percezione e processazione degli stimoli, quantomeno dal punto di vista temporale. Quello su cui ci concentreremo ora `e la caratterizzazione dell’introspezione come incorreg-gibile. In un articolo dedicato a questo argomento, il filosofo D. M. Armstrong si oppose

(33)

a questa idea, sostenendo che l’incorreggibilit`a delle nostre convinzioni dipenda dal loro rapporto con la verit`a.

“Introspection differs from sense perception in one very important respect. Intro-spective reports of current mental events are alleged to be logically incorrigible or logically indubitable.

... Incorrigibility, or indubitability, must be distinguished from logical necessity. Whether or not the sincere statement “I seem to be seeing something green now” is incorrigible, it is certainly not logically necessary

... But although incorrigibility is not the same thing as logical necessity, it can be defined in terms of logical necessity. For we can say that a statement is incorrigible if and only if it is logically necessary that, when the statement is sincerely made, it is true. A statement is incorrigible when sincerity entails truth.” [Armstrong, 1963, pp. 417-418]

Sembra intuitivamente plausibile che gli stati mentali siano accessibili in maniera privilegiata dall’individuo, poich´e per gli altri `e impossibile sapere il contenuto della nostra mente, e sembra altrettanto plausibile che siano incorreggibili, poich´e non posso essere in dubbio sullo star esperendo o meno una sensazione. Tuttavia questa intuizione non resta solida ad una pi`u attenta ed accurata analisi. Sono molti i casi in cui si pu`o dimostrare come le intuizioni sulla nostra vita mentale siano incorrette: dalle pi`u ‘oggettive’ considerazioni che uno scienziato potrebbe avanzare sulla natura dei processi mentali e percettivi, fino ad esempi di vita quotidiana dove siamo costretti ad ammettere che le conclusioni che traiamo dalla nostra introspezione, per quanto possano essere sincere, non sono logicamente necessarie. La perniciosit`a di questa convinzione circa l’indubitabilit`a della nostra introspezione ritengo che derivi dall’intuizione dualista di Cartesio, la quale vuole la mente come separata dal corpo. Questa stessa considerazione si pu`o ritrovare gi`a nella corrente pragmatista, di cui Charles S. Peirce `e considerato il fondatore. Egli considera una pericolosa conseguenza

(34)

del “Cartesianismo” l’idea che la certezza definitiva sulla realt`a risieda nella coscienza individuale, e al riguardo ne commenta:

“The same formalism appears in the Cartesian criterion, which amounts to this: Whatever I am clearly convinced of, is true. If I were really convinced, I should have done with reasoning and should require no test of certainty. But thus to make single individuals absolute judges of truth is most pernicious. The result is that metaphysicians will all agree that metaphysics has reached a pitch of certainty far beyond that of the physical sciences; – only they can agree upon nothing else.” [Peirce, 1868b]

All’interno della comunit`a scientifica, dove le persone si confrontano per raggiungere un accordo, ogni teoria che viene proposta `e messa in discussione fino a che non si raggiunge il consenso. Dopo che viene raggiunto, la questione sulla certezza diventa una questione priva di significato, poich´e non c’`e pi`u nessuno a metterla in dubbio. In quanto individui, non possiamo ragionevolmente sperare di raggiungere l’assoluta certezza che inseguiamo filosoficamente; possiamo solo ricercarla nella comunit`a dei filosofi. Di conseguenza, se menti disciplinate esaminano con attenzione una teoria e rifiutano di accettarla, questo da solo dovrebbe far sorgere il dubbio nella mente dell’autore di questa teoria. [Peirce, 1868b] La convinzione che la realt`a debba essere ‘riconfermata’ dalla coscienza `e alla base dell’importanza attribuita all’introspezione. Peirce arriva addirittura ad argomentare che, non essendoci nessuna prova per supporre un tale potere dell’introspezione, l’unico modo per investigare una domanda psicologica sia per inferenza da fatti esterni. [Peirce, 1868a] Non spingerei invece l’argomentazione fino a questo, poich´e credo che l’introspezione sia un meccanismo reale e potente, con una precisa funzione biologica sviluppatasi evolutivamente, che ci offre la possibilit`a di investigare i fatti interni in maniera approssimativa.

(35)

“Now if I accept the existence of introspection, as I also do, then I must conceive of both introspection and the objects of introspection as states of the brain. Intro-spection must be a self-scanning process in the brain. That it is logically possible that such a self-scanning process will yield wrong results is at once clear, nor is it possible to see how such a self-scanning process could yield a logically privileged access. So if introspection is incorrigible, or if we have logically privileged access to our own mental states, it seems that a materialist doctrine of mental states must be false.” [Armstrong, 1963, pp. 418-419]

Come Armstrong onestamente esplicita, il suo scopo `e difendere la tesi che gli stati mentali siano stati del cervello; ma anche se non volessimo accettare una prospettiva materialista, ritengo che queste siano basi sufficienti per negare che l’introspezione sia incorreggibile. Quello che invece non possiamo mettere in dubbio `e che, se alla fine l’introspezione si dimostrasse incorreggibile, allora sarebbe logicamente necessario che non possa essere uno stato del cervello, poich´e non siamo a conoscenza di nessun meccanismo cos`ı perfetto e certo.

Tuttavia la comune reticenza ad accettare la fallibilit`a dei nostri meccanismi introspettivi non credo che derivi da argomentazioni filosofiche o logiche, quanto dallo stesso pregiudizio antropocentrico di cui parlava Dennett, cio`e la tendenza a considerare gli esseri umani come coscienze uniche rispetto a quelle degli altri esseri viventi, che in ultima istanza ci porta a considerare la nostra stessa coscienza come pi`u unica rispetto a quella degli altri umani.

“Our unwillingness to admit that there can be error with respect to first-person reports of our current experiences may also reflect certain emotional attachments. We have a deep interest in ourselves, as opposed to other people and other things. This is the basis of the utterly natural fantasy “Nobody and nothing exists except myself.” Not only do we have a special interest in ourselves, however, but we attach a quite peculiar importance to our own experiences. We feel that when we started experiencing, the world began; and when we stop experiencing, it will end. We feel

(36)

that, whatever the world is really like, provided our experiences remain the same then it does not matter.” [Armstrong, 1963, pp. 429-430]

In una certa misura, `e sensato e vantaggioso privilegiare la propria soggettivit`a e le proprie esperienze, dopotutto l’imperativo biologico di sopravvivere ci impone di dare pi`u valore a noi stessi piuttosto che agli altri, e ci obbliga a dare maggiore valore ai significati che per noi sono pi`u immediati e veri. `E molto difficile concepire una coscienza scevra da questo pregiudizio soggettivo, anzi, da un certo punto di vista si potrebbe argomentare che una caratteristica propria della coscienza sia questa asimmetria di significato, la quale `e anche la base del ‘dualismo’ fra prima e terza persona.

2.1.3 Enattivismo

Da un altro punto di vista, alcuni filosofi si sono concentrati sugli aspetti in un certo senso

esterni della soggettivit`a, ad esempio Varela, Tompson e Rosch, nella loro teoria della “Em-bodied Mind” [Varela et al., 1993], ma anche Chalmers e Clark con la teoria della “Extendend Mind” [Clark and Chalmers, 1998]. Entrambe le teorie enfatizzano il ruolo che l’ambiente

e gli strumenti che utilizziamo svolgono nel determinare le cognizioni degli individui, ma utilizzano approcci diversi. La prima teoria si riallaccia alla fenomenologia di Merleau-Ponty, adottando il termine “embodied” e caratterizzandolo come “il corpo sia come una struttura esperienziale vissuta, sia come il contesto dei meccanismi cognitivi.” [Varela et al., 1993, p. 16]. Mentre la seconda teoria si concentra sui sistemi cognitivi intesi in senso ampio, comprendendo anche l’interazione che si instaura fra gli strumenti che utilizziamo e la mente.

“The human organism is linked with an external entity in a two-way interaction, creating a coupled system that can be seen as a cognitive system in its own right. All the components in the system play an active causal role, and they jointly govern

(37)

behavior in the same sort of way that cognition usually does. If we remove the external component the system’s behavioral competence will drop, just as it would if we removed part of its brain. Our thesis is that this sort of coupled process counts equally well as a cognitive process, whether or not it is wholly in the head.” [Menary, 2010, p. 29]

Per differenziarsi dalle teorie esternaliste, come quelle di Putnam [Putnam, 1975] e Burge [Burge, 1979], Chalmers e Clark definiscono la loro teoria un esternalismo attivo, poich´e in questo caso le caratteristiche esterne intervengono attivamente sul comportamento dell’organismo, in modo causale. Riassumendo, la loro tesi viene argomentata in quattro punti:

1. Tutte le componenti di un sistema hanno un ruolo causale attivo.

2. Governano il comportamento nella stessa maniera in cui lo governa la cognizione. 3. Se rimuovessimo una componente esterna, la competenza comportamentale del sistema

si abbasser`a, proprio come se rimuovessimo parte del suo cervello.

4. Di conseguenza, questo processo accoppiato pu`o essere considerato un processo cogni-tivo, che sia o meno completamente nella testa. [Menary, 2010, p. 3]

Entrambe le teorie propongono di rinnovare il modo in cui pensiamo, scientificamente, filosoficamente e quotidianamente, ai nostri processi mentali, adottando un punto di vista pi`u ampio sul significato di stati interni.

“Thus, in seeing cognition as extended one is not merely making a terminological decision; it makes a significant difference to the methodology of scientific investiga-tion. In effect, explanatory methods that might once have been thought appropriate only for the analysis of “inner” processes are now being adapted for the study of the

(38)

outer, and there is promise that our understanding of cognition will become richer for it.” [Menary, 2010, p. 30]

Dal punto di vista di Varela e gli altri, il significato di “embodiment” che utilizzano `e virtual-mente assente dalle scienze cognitive, dalla discussione filosofica e dalle ricerche sul campo. Si volgono quindi alla tradizione fenomenologica di Merleau-Ponty, poich´e affermano che non sia possibile investigare le relazioni fra le scienze cognitive e l’esperienza umana trascurando questo doppio significato di “embodiment”, che invece deve essere al centro della discus-sione.

Sostengono che questa affermazione non sia primariamente filosofica, ma al contrario che questa tematizzazione esplicita di “embodiment” serva primariamente allo sviluppo delle scienze cognitive e per dare rilevanza alle loro ricerche all’interno dell’esperienza umana comunemente vissuta. [Varela et al., 1993, p. 16]

Figura 1: Interdipendenza della riflessione con lo sfondo di credenze e pratiche biologiche, sociali e culturali [Varela et al., 1993, p. 10].

Riferimenti

Documenti correlati

& Sviluppo (in tutti i settori) una quota del Prodotto Interno Lor- do ben inferiore a quella degli altri principali Paesi (l’ Italia nel 2013 si collocava al 16° posto fra i

PARTE SECONDA: Moti di Whirl e Meccanica Celeste I.. Trasferimento di Energia nei moti

indifferente, ma le cose cambiano quando conosce un giovane ufficiale austriaco di nome Remigio. La relazione adulterina tra Livia e Remigio inizia quando, una mattina, si

In rapporto con tale scopo di conoscenza e coinvolgimento degli interlocutori è il meccanismo di embrayage attanziale, di cui il noi è uno dei protagonisti sul piano

Come si vede, gli effetti della globalizzazione sui confini tra gli Stati possono essere per molti aspetti paradossali e tradursi addirittura in un loro aumento, se

equipossibilità dei casi: in tal caso, si tratta del manifestarsi di un evento altamente probabile nell’ambito di un esperimento in cui i possibili esiti non sono equiprobabili).

Atti della Accademia Peloritana dei Pericolanti - Classe di Lettere Filosofia e delle Belle Arti LXXXIX 2013 - XCV 2019

In occasione dell’Adunata Nazionale degli Alpini svoltasi dall’11 al 13 maggio 2012 a Bolzano, la Croce Rossa della Provincia Autonoma di Bolzano ha fornito il proprio supporto alla