81Figura 2: Frazioni di abitazioni (%) con livelli eccedenti 200 Bq/m 3 (dati normalizzati alla
4. Energia geotermica
L’energia geotermica proviene essenzialmente dalla disintegrazione degli ele-menti radioattivi contenuti all’interno del pianeta, principalmente uranio, torio e potassio. Le risorse di questa fonte sarebbero potenzialmente enormi (la temperatura media della Terra cresce di circa 3 °C ogni 100 metri di profon-dità), ma il flusso geotermico è troppo debole per essere direttamente sfrutta-bile: le risorse classiche riconosciute, distribuite in circa 80 Paesi (di cui poco più della metà la utilizzano in modo quantificabile), sono valutate dell’ordine di 60 miliardi di Tep (ricordiamo che la quantità di energia consumata in un anno nel mondo è dell’ordine di 10 miliardi di Tep). Quindi, questa sorgen-te non è inesauribile: una volta che il calore è stato estratto, bisogna atsorgen-ten- atten-dere a lungo prima che il mantello terrestre si riscaldi di nuovo.
Comunque, questa fonte è certamente a basso impatto ambientale: i gas con-tenuti nell’acqua sono essenzialmente azoto e anidride carbonica, un po’ di idrogeno solforato e tracce di ammoniaca, mercurio e radon. L’emissione di anidride carbonica, a parità di energia prodotta, è 10 volte inferiore di quel-la da combustibili fossili.
Attualmente nel mondo dalla fonte geotermica si producono annualmente poco meno di 4 milioni di Tep di energia elettrica e poco più di 3 milioni di Tep vengono utilizzati direttamente come calore (quindi neanche un millesimo del consumo totale di energia). Si stima che da qui a 20 anni la produzione potrebbe anche quintuplicare: il contributo di questa fonte, quindi, anche se a livello globale sostanzialmente poco significativo, potrebbe risultare inte-ressante in certe situazioni locali. L’Italia è certamente tra i Paesi che hanno registrato, negli ultimi 10 anni, le più alte crescite di utilizzo di questa fonte, sviluppando attualmente dalla geotermia una potenza di quasi 250mila kW (cioè, in termini di consumo energetico, meno dell’1% del totale). Come già detto, la stima più favorevoli del contributo geotermico al fabbisogno
5. Idrogeno
L’idrogeno molecolare è un ottimo combustibile, non è tossico e, inoltre, bru-ciando non inquina, nel senso che produce solo acqua (al massimo favorisce la formazione degli ossidi di azoto). Se poi viene combinato elettrochimica-mente in una cella a combustibile per produrre elettricità, si ha solo emissio-ne di vapore acqueo. Il rovescio della medaglia è disarmante: l’idrogeno non esiste sulla Terra. Esso bisogna produrlo da composti che contengono idro-geno (inclusa l’acqua, mediante elettrolisi). La produzione deve naturalmente procedere attraverso una tecnologia che non introduca quegli inquinanti che l’idrogeno in sé evita (cioè l’energia utilizzata deve essere solare, eolica o nucleare). Una volta prodotto, l’idrogeno deve essere immagazzinato, un problema, questo, tutt’altro che risolto a causa di alcune caratteristiche di questo gas.
L’idrogeno deve essere compresso ad alte pressioni (tipicamente diverse cen-tinaia di atmosfere) o liquefatto a basse temperature (inferiori a -250 °C) per essere confinato in un volume ragionevolmente piccolo (si pensi che a parità di pressione e volume l’idrogeno contiene un terzo dell’energia contenuta nel metano, mentre la densità d’energia dell’idrogeno liquido è un terzo di quel-la delquel-la benzina). La molecoquel-la di idrogeno è piccoquel-la ed è soggetta a disper-sioni più facilmente di quanto non lo siano i combustibili più tradizionali. Essa diffonde facilmente anche all’interno della struttura metallica dei contenitori, che perciò devono essere costruiti con particolari tipi di acciai o altri mate-riali speciali, risultando così ben più pesanti di quelli usati per i combustibili tradizionali. Rispetto a questi ultimi, l’idrogeno ha più basse soglie di esplo-sività e di infiammabilità (cioè concentrazioni nell’aria al di sopra delle quali il gas esplode o si incendia). La facilità ad infiammarsi, soprattutto, crea le maggiori preoccupazioni: se l’idrogeno si infiamma, il fuoco si diffonde con una velocità 10 volte maggiore di quanto non accada quando si brucia meta-no o benzina.
I contenitori per l’immagazzinamento di idrogeno sono più voluminosi e più pesanti di quelli per i combustibili liquidi o per il gas naturale compresso: tipi-camente, un serbatoio contenente idrogeno al 12% in peso e alla pressione di 340 atmosfere, pesa 32 kg e ha un volume di 182 l, ridotti a 28 kg e 116 l con l’idrogeno liquido (comunque la soluzione dell’idrogeno compresso è preferibile a quella dell’idrogeno liquefatto, anche perché l’energia richiesta per la compressione, se pur elevata, è significativamente inferiore a quella richiesta per la liquefazione). A titolo di confronto, un serbatoio per combu-stibili tradizionali equivalente rispetto all’energia immagazzinata peserebbe, incluso il combustibile, 25 kg e occuperebbe un volume di 25 l. Una
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tente tecnologia di immagazzinamento sembra essere quella che coinvolge l’uso di nanostrutture di grafite, ma per il momento la loro realizzabilità può considerarsi ancora di là da venire.
I problemi di sicurezza non vanno trascurati. L’idrogeno brucia con una fiam-ma quasi invisibile e irradia poco calore, rendendo difficoltoso il rilevamen-to di eventuali incendi, soprattutrilevamen-to di giorno, ma l’uso di rivelarilevamen-tori di radia-zione infrarossa o di speciali pitture sensibili al calore, permetterebbe una più facile rivelabilità in caso di incendi. Nel complesso, si può dire che vi è suf-ficiente confidenza nella possibilità di usare in modo sicuro questo combusti-bile, a patto di rispettarne le quasi uniche proprietà; anzi, con una appro-priata ingegneria, la sicurezza di veicoli equipaggiati con celle a combusti-bile potrebbe essere superiore a quella degli attuali veicoli a combustibili tra-dizionali.
Quella della produzione, distribuzione e immagazzinamento dell’idrogeno, è solo metà della sfida con cui confrontarsi per sviluppare l’uso dell’idroge-no in alternativa ai combustibili tradizionali: bisogna anche disporre della adeguata tecnologia per renderne operativo l’uso. Di queste, la più promet-tente sembra essere quella delle pile a combustibile, un sistema elettrochimi-co che elettrochimi-converte energia chimica in energia elettrica, utilizzabile sia per cen-trali elettriche che nel settore dei trasporti. Il loro rendimento è eccellente: fino al 60% dell’energia disponibile viene convertita in elettricità (per con-fronto, motori a idrogeno a combustione interna hanno un’efficienza di circa il 45%, che è già del 20-25% superiore a quella dei motori che usano com-bustibili tradizionali).
La pila a combustibile differisce dalla batteria tradizionale: in quest’ultima l’energia chimica è trasformata in energia elettrica e il fenomeno è reversi-bile, nel senso che quando la batteria è scarica essa deve essere ricaricata mediante apporto di energia elettrica; in una centrale termica l’elettricità è prodotta dal calore che proviene dalla combustione del carburante; nella pila a combustibile il carburante viene convertito direttamente in acqua, senza combustione, grazie ad una reazione elettrochimica e con produzio-ne di elettricità.
Anche se il principio delle celle a combustibile è noto da 160 anni, le prime applicazioni sono emerse solo in seguito all’avvio dei programmi spaziali negli anni sessanta e settanta, e solo più recentemente si sono investite risorse per cercare di renderle commerciabili e candidate per la costruzione di autoveicoli a emissione zero. Il loro costo è tuttavia ancora elevato (da 1000 a 10.000 € per kilowatt) e ne sarebbe necessaria una riduzione di uno o due ordini di grandezza prima che esso possa essere
ragioni economiche e di mercato, da sole, difficilmente condurranno ad una transizione dagli attuali combustibili all’idrogeno: essa, se mai avver-rà, potrà solo essere in conseguenza di una forte volontà politica. In ogni caso, si stima che si dovranno attendere diversi decenni prima che tale transizione si realizzi.