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Nei processi sia negli anni di poco successivi alla fine della guerra che in quelli degli ultimi anni, l’Accusa e il Collegio giudicante hanno fatto perno, per condannare gli imputati, anche sull’accertato e sul presunto zelo esecutivo di chi aveva impartito gli ordini criminali e su chi li aveva eseguiti andando spesso ben oltre i propri compiti.

Questa è una caratteristica che, per quanto riguardi in generale qualsiasi conflitto umano, nella seconda guerra mondiale, e in particolare tra le file tedesche, trova quello che si può bollare come un “di più di professionalità”, senza che con questo si voglia paragonare la professionalità comunemente intesa del lavoro, con quella dell’esecuzione di determinate azioni criminali. “Professionalità” sta qui ad indicare solamente l’impegno che determinati soggetti mettono per eseguire compiti di svariato genere, dai più comuni ai più violenti e ripugnanti secondo i canoni della moralità e delle comunità complesse e non.

Nella scienze storiche, sociologiche, antropologiche e filosofiche attuali questo “di più di professionalità” è meglio noto come “di più di violenza”, ma visto che gli imputati accusati di questa eccessività bellica o addirittura di presa d’iniziativa autonoma, ne parlano come la conseguente esecuzione di ordini superiori senza aggiunte personali di vario genere (sia fisiche che emotive), mi pare in questo caso più consono, in modo forse anche polemico, il termine di professionalità. Di questa professionalità gli imputati si vanteranno anche dopo la loro condanna penale e la conseguente reclusione, come prova del loro senso del dovere verso i superiori e conseguentemente verso la loro nazione e i valori in cui credevano.

Ovviamente è logico partire dalla sentenza Kappler, visto che è ormai noto che il tenente colonnello delle SS fu condannato non per aver eseguito l’ordine di fucilare i trecentoventi ostaggi imposti dai superiori a seguito della morte di trentadue poliziotti tedeschi per mano dei partigiani, ma per quei quindici in più che decise arbitrariamente di far fucilare a seguito dell’avvenuto decesso di un trentatreesimo poliziotto rimasto inizialmente gravemente ferito. Si deve anche dire che nonostante queste conclusioni, ci sono sempre cinque fucilati in più, ma su questi il processo non è riuscito a provare chiaramente se fossero stati uccisi per un errore, per così dire “tecnico”, oppure no. Nella sentenza si afferma chiaramente che Kappler non disponeva della pretesa autonomia di includere più fucilandi nei trecentoventi che gli era stato ordinato di uccidere. Anche la scelta di approvare i nomi dei fucilandi spettava al generale Mältzer, quindi, figuriamoci se Kappler potesse addirittura includere nelle liste ulteriori uomini. Infatti, secondo l’ordinamento tedesco dell’epoca, per quanto riguarda le rappresaglie, queste dovevano essere disposte da comandanti di grandi unità, solitamente a partire dal livello di divisione.

Per quanto riguarda Kappler in particolare, nella sentenza molto probabilmente si coglie la motivazione principale del perché l’imputato abbia autonomamente deciso per l’esecuzione di ulteriori ostaggi. Infatti si dice chiaramente che: «Egli agì in maniera arbitraria sperando che le più alte gerarchie, attraverso quest’azione, avrebbero visto in lui l’uomo di pronta iniziativa, capace di colpire e di reprimere col massimo rigore. Non era questa la prima volta che il Kappler agiva arbitrariamente ed illegalmente nell’intento di porre in rilievo la sua personalità come quella di chi, superiore ad ogni pregiudizio di carattere giuridico o morale, adotta pronte, energiche e spregiudicate misure»165. Il Collegio, per rafforzare ulteriormente questa conclusione, fa riferimento all’oro degli ebrei (cinquanta kilogrammi) che Kappler fece raccogliere dalla stessa comunità ebraica di Roma per poi farlo spedire direttamente al comandante dell’R.S.H.A.166, l’SS Obergruppenführer Ernst Kaltenbrunner.

Addirittura il comando militare tedesco di Roma non aveva condiviso l’azione arbitraria di Kappler e non aveva voluto rettificare le cifre date in precedenza per il completamento del comunicato dato in un convegno di direttori di giornali romani che, qualche giorno (25 marzo) dopo l’esecuzione delle Cave Ardeatine, si tenne presso il comando tedesco alla presenza del generale Mältzer, onde discutere dell’attentato di via Rasella, delle misure adottate e dell’opportunità di esortare la popolazione a reagire contro gli attentatori. Quindi, ufficialmente i fucilati risultavano essere sempre trecentoventi. Infatti, ancora il 28 marzo nella prima pagina del “Messaggero” si parlava della fucilazione di trecentoventi persone in relazione alla morte di trentadue soldati tedeschi.

Questo modo di mettersi in evidenza davanti ai superiori era diffuso nell’intero sistema del Reich ai più svariati livelli, sia militari che civili. Noti sono gli studi sul sistema caotico del potere hitleriano che privilegiava la concorrenza fra i vari settori nel portare a termine il proprio lavoro, emanando spesso ordini vaghi di modo che i subalterni potessero arbitrariamente decidere sul come portarli a termine e conseguentemente spingerli a dimostrare le loro capacità nei compiti assegnatigli, nella speranza di raggiungere i più alti gradi gerarchici nella loro carriera. Questo fu uno dei tanti elementi che portò i burocrati e i tecnici della macchina amministrativa e militare della Germania nazista ad adoperarsi alacremente nel rendere sempre più efficiente e rapida l’esecuzione degli stermini nei vari lager che sorsero in tutto il territorio dell’impero hitleriano167.

165

Sentenza del Tribunale militare di Roma del 20 luglio 1948.

166

“Ufficio centrale per la sicurezza del Reich”, era responsabile delle operazioni dei servizi segreti in Germania e all'estero, dello spionaggio e del controspionaggio, della lotta contro i crimini politici e i crimini comuni, e dei sondaggi dell'opinione pubblica sul regime nazista.

167

Su questi temi gli studi sono numerosi, vedi: Zygmunt Bauman, “Modernity and the Holocaust”, Basil Blackweel, Oxford 1989. Trad. it. “Modernità e Olocausto”, Il Mulino, Bologna 1982; Annah Arendt, “Eichmann in

Nella sentenza Priebke della Corte militare d’appello del 7 marzo 1998 si fa sempre riferimento a Kappler come “domino” dell’esecuzione dell’ordine di rappresaglia. Infatti, questi si era incontrato con il maggiore Hass (anch’egli imputato insieme a Priebke) qualche ora prima dell’inizio del massacro delle Cave Ardeatine, e conversando con costui gli disse «che la ruota che girava poteva essere fermata se ci veniva in mano l’attentatore oppure un’offerta della popolazione» e che al riguardo egli avrebbe «preso come spunto, per non fare la rappresaglia, anche una minima collaborazione»168. Inoltre, come rivela la sentenza, l’ordine ricevuto da Kappler era di dubbio contenuto. Ma Kappler non oppose la minima difficoltà di fronte ai suoi superiori militari, non inventò il minimo pretesto per ritardare l’esecuzione. Anche nelle sue memorie il console tedesco a Roma von Möllhausen scrisse che: «Comunque, che ciò sia stato suggerito dagli uni piuttosto che dagli altri, sta di fatto che Kappler accettò l’ordine senza fare obiezioni»169. Kappler, in quanto tenente colonnello era un ufficiale superiore che poteva avere contatti con gli alti gradi del Comando, ma anche i suoi sottoposti “ufficiali inferiori”170, non furono da meno nell’eseguire prontamente e senza la minima obiezione l’ordine impartitogli. Infatti, nel caso Priebke la Corte, nella sentenza del luglio 1997, rileva che l’imputato eseguì senza remore l’ordine di fucilare cinque ostaggi in più. Non è obbiettabile infatti la tesi che Priebke non potesse sapere di questi cinque ostaggi “di troppo”, perché egli, insieme al capitano Schutz, era in possesso delle liste delle vittime ed era preposto alla formazione dei gruppi che di volta in volta venivano avviati alla morte e quindi «direttamente rilevò l’eccedenza numerica»171. Inoltre, e questo è forse ben più grave, Kappler lasciò le Cave per un lungo periodo di tempo durante le prime esecuzioni, e nessuno (a parte l’episodio del capitano Wetjen che in un primo momento si rifiutò di eseguire l’ordine finché accanto a lui non vi fu Kappler, senza tra l’altro subire nessuna conseguenza) approfittò della sua assenza per tentare di salvare almeno qualcuno o di alleviarne le sofferenze. Questo riguardava anche l’altro imputato al processo, il maggiore delle SS Karl Hass, che dirigeva il 6° reparto delle SS a cui era affidato il compito di occuparsi

Jerusalem”, H. Arendt copyright reserved, New York 1964. Trad. it. “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, Feltrinelli, Milano 1964 e 2006; Christopher R. Browning, “Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland”, Harper Collins Publisher, Tacoma 1992. Trad. it. “Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia”, Einaudi, Torino 1995; Rudolf Hoss, “Kommandant in Auschwitz”,

Deutsche Verglas-Anstalt, Stuttgart 1958. Trad. it. “Rudolf Hoss. Comandante ad Auschwitz”, Einaudi, Torino 1960 e 1997; Gitta Sereny, “Into that Darkness. From mercy killing to mass murder”, Gitta Sereny copyright 1974. Trad. it. “In quelle tenebre”, Adelphi, Milano 1975 e 1994.

168

Dichiarazione all’udienza del 7 giugno 1948 del Tribunale militare territoriale di Roma, foglio 153 del verbale.

169

Von Möllhausen , “La carta perdente. Memorie diplomatiche 25 luglio 1943- 2 maggio 1945”, Roma 1948, p. 222.

170

In tutte le forze armate del mondo la scala gerarchica degli ufficiali parte dal grado di sottotenente fino a raggiungere il livello di capo di Stato maggiore o di comandante in capo delle forze armate. Ma all’interno di questa scala vi è un’ulteriore distinzione che suddivide solitamente gli ufficiali in “inferiori” (da sottotenente a capitano), “superiori” (da maggiore a colonnello) e “generali” (da generale di brigata in su).

171

dello spionaggio estero. Nella sentenza si afferma che l’imputato, nei rapporti con Kappler «godeva di una qual certa autonomia funzionale». Dunque, non era assolutamente obbligato ad eseguire gli ordini del tenente colonnello delle SS. La Corte però, non rafforza la sua posizione nei confronti di Hass, avendo potuto rifarsi alla sua attività durante la guerra e forse meglio ancora negli anni della guerra fredda, dove però si sarebbe dovuto mettere in rilievo presunte complicità delle autorità italiane e della Nato nella copertura dell’imputato. Inoltre Hass fu tra i responsabili della cattura e della deportazione di 1259 ebrei romani verso il campo di sterminio di Auschwitz. Nel 1947 venne reclutato dai servizi segreti statunitensi. Rientrato a Roma utilizzando falsi documenti, ebbe l’incarico di svolgere compiti informativi di contrasto al movimento comunista; in previsione di una vittoria delle sinistre nel 1948 si attivò per mettere in contatto l’estrema destra romana con i servizi statunitensi172. Nel 1953, grazie a una certificazione emessa dalla Repubblica federale tedesca riuscì a farsi passare per morto. Negli anni Sessanta viene interessato in attività informative riguardanti il terrorismo altoatesino, venendo contemporaneamente tutelato da funzionari del ministero degli Interni (Gesualdo Barletta e Ulderico Caputo). Nel 1962 una sentenza del Tribunale militare di Roma conclude per un “non luogo a procedere” nei confronti di undici persone coinvolte nell’eccidio delle Cave Ardeatine, tra cui Hass, essendo gli stessi “irrintracciabili”; nonostante lo stesso Hass all’epoca vivesse in Italia173. La forte connotazione ideologica dell’imputato è ben visibile dai suoi trascorsi sia durante che dopo la cessazione delle ostilità belliche, anche se su quest’ultimo punto si potrebbe obbiettare che fosse ricattato dalle autorità della Nato in cambio della libertà. È vero però, che a differenza di altri suoi numerosissimi camerati nazisti non ha cercato di fuggire in Sud America dove avrebbe potuto godere della protezione dei governi locali e di varie associazioni di reduci nazisti o di segrete organizzazioni naziste (come la famigerata “Odessa”174).

Oltre alla totale abnegazione, per motivi ideologici e di opportunismo personale, a qualsiasi tipo di ordine, non va dimenticato che una gran numero delle unità coinvolte nei numerosi massacri di popolazioni civili nell’Europa occidentale, avevano fatto esperienza nella guerra di sterminio

172

Relazione di minoranza del 24 gennaio 2006, p. 208, della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti.

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Le approfondite indagini sul suo conto avviate a seguito del suo coinvolgimento nel processo contro il suo ex- collega Erich Priebke nel 1996, stabilirono infatti che Hass non si fosse mai allontanato definitivamente dall’Italia, dove aveva vissuto quasi indisturbato, utilizzando persino nomi falsi (in un primo tempo Steiner e successivamente Rodolfo Giustini), per poi tornare ad impiegare il suo vero nome, e risiedendo per anni ad Albiate (Milano), regolarmente presente nell’elenco telefonico come domiciliato in una villetta in via Antonio Gramsci 9. Quando, nell’estate del 1996, gli agenti della Digos andarono a prelevarlo presso tale indirizzo, come fu accertato poi, Hass aveva lasciato il suo domicilio da circa tre ore e si era rifugiato a Ginevra con il treno, presso l’abitazione della figlia Enrica. Dalla città svizzera Hass condusse una lunga trattativa con la Procura militare di Roma sino a che decise di tornare in Italia spontaneamente per deporre in tribunale al processo nel quale era imputato Erich Priebke.

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sul fronte orientale. Su questo argomento negli ultimi anni sono e stanno tutt’ora prolificando numerosi studi, sia in ambito italiano che europeo e quindi non mi ci soffermerò ulteriormente175. Nel procedimento del 1994 portato avanti dal Tribunale tedesco di Coblenza per la strage di Caiazzo (Caserta) contro l’allora sottotenente della Wehrmacht Emden e altri, vi erano fra gli imputati uomini che provenivano proprio da quel teatro. Il sottotenente Emden ebbe esperienza di un primo grande scontro bellico nel nord della Russia (Dwinsk), dove la sua unità subì pesanti perdite, e vicino a Leningrado dove venne ferito. Dopo la convalescenza e la promozione al grado di sottotenente tornò in Russia e si trovò a combattere sul Don e poi a Stalingrado. Si ammalò e fu spostato nelle retrovie (evitando tra l’altro di rimanere bloccato nella sacca di Stalingrado), fino a che non fu spedito in Italia. L’imputato Gnass, maresciallo ordinario, che morirà nel periodo del dibattimento, subito dopo il massacro si era messo a discutere con un altro sottufficiale su come si uccidano e poi si sotterrino le persone. Proprio in quel frangente Gnass avrebbe spiegato di avere appreso tutto ciò in Russia e in Polonia.

Inoltre, la Corte tedesca rileva che poco prima del massacro, quattro o cinque soldati si erano addirittura presentati volontariamente e lasciarono il posto di comando con le loro armi dopo che durante una discussione avvenuta tra gli ufficiali e i sottufficiali, si era unanimemente pervenuti alla decisione di uccidere i civili. In questo caso si sommano chiaramente una volontà omicida di alcuni soldati tedeschi all’esperienza di sterminio consumatasi nell’est europeo. Molto probabilmente, come in altri casi accertati, anche qui tra i soldati tedeschi vi era un sentimento di rabbia verso una popolazione civile ritenuta, a torto o a ragione, nemica e infida. Un popolo che veniva visto come traditore e che addirittura era passato al campo avverso nel momento che le sorti del conflitto gli si erano rivoltate contro; che più di una volta era stato soccorso dall’alleato tedesco quando si era trovato in gravissime difficoltà belliche. Tutte queste osservazioni alimentarono probabilmente anche lo stereotipo secolare dell’italiano furbo e inaffidabile e di indole molle, sempre pronto a fare i propri interessi in barba al senso civile e a quello di lealtà. Nella sentenza del Tribunale militare di La Spezia del 3 novembre 2006 contro il sottotenente Heinrich Nordhorn per l’uccisione di sei civili tramite impiccagione nella frazione di San Tomè, nei dintorni di Forlì a seguito del solo ferimento (seppur grave) di un soldato tedesco, nel

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Per quello che riguarda le esperienze fatte all’Est dai soldati tedeschi coinvolti nei massacri di civili nell’Europa occidentale vedi: Omer Bartov, “The Eastern Front, 1941-45, German Troops and the Barbarisation of Warfare”, ed. Basingstoke, Palgrave 2001. Trad. it. “Fronte orientale. Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra

(1941-1945)”, Il Mulino, Bologna 2003; Christian Ingrao, “La «cultura» nazista della violenza. L’esperienza della lotta contro i partigiani sul fronte orientale, 1939-1944” in “Crimini e memorie di guerra” a cura di Luca Baldissara

e Paolo Pezzino, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2004. Christian Streit, “Keine Kameraden. Die Wehrmacht und

die sowjetischen Kriegsgefangenen 1941-1945”, Stuttgart 1978, ed. ampliata Bonn 1991. Quest’ultimo testo,

riguarda lo sterminio dei prigionieri di guerra sovietici in Germania, ma da questo si ha un ulteriore chiarimento di come veniva visto il nemico sul fronte orientale agli occhi delle truppe tedesche e conseguentemente la loro totale decisione di annientarlo.

settembre 1944, si ravvisa che il reparto in questione il 525° battaglione Panzerjäger, fin dal 1943 presente in Italia dove aveva combattuto ad Anzio-Nettuno, Cassino, Firenze e Pisa, aveva avuto un lungo periodo operativo sul fronte orientale dove aveva subito pesanti perdite, tanto da essere ritirato dal fronte russo e riequipaggiato per poi essere mandato in Italia. Quindi, anche in questo caso gli uomini coinvolti nell’eccidio erano parte di un’unità che proveniva dai combattimenti all’Est. L’imputato, dopo l’esecuzione pubblica ammonì i presenti dicendo che se si fossero ripetute azioni contro i soldati tedeschi sarebbero state uccise persone non prese fra i prigionieri del carcere locale come era avvenuto in questo caso, bensì fra gli abitanti del luogo, e fece riferimento al numero di venti. Nella minaccia viene superato l’ordine di dieci italiani per un tedesco come avvenne per altri casi, a riprova di un’ulteriore iniziativa e volontà punitiva degli esecutori indipendentemente dagli ordini superiori che gi erano stati impartiti.

Un mese prima dei fatti di San Tomè, a Branzolino, sempre nei dintorni di Forlì, ancora Nordhorn fu responsabile, a seguito del ferimento di un soldato tedesco, dell’impiccagione di quattro operai arrestati un mese prima perché avevano organizzato degli scioperi nella loro fabbrica.

Insomma, in questi due casi c’è la volontà di uccidere anche solo per aver ferito un soldato tedesco e il numero delle vittime è deciso in modo arbitrario dagli ufficiali sul campo. Come la sentenza afferma, Nordhorn, parlando di eventuali venti vittime future a San Tomè, dimostra un’ampia iniziativa autonoma e malevola contro la popolazione.

Il Tribunale fa riferimento anche ad una forma di gara di zelo. Infatti, dopo la comunicazione intimidatoria da parte di Nordhorn, il sottufficiale Hossfeld disse all’interprete Saura Dall’Agata che se fosse dipeso da lui avrebbe impiccato un centinaio di persone per atti simili. Inoltre, anche l’uso dell’impiccagione invece della fucilazione è la prova che la decisione fu presa non sotto gli effetti emotivi provocati dall’attentato al soldato tedesco, ma bensì messa freddamente in opera visto il tempo che era servito per costruire i patiboli, invece di usufruire casomai di alberi o altri attacchi di fortuna.

Invece, nel caso della strage di Sant’Anna di Stazzema (12 agosto 1944) che provocò circa 560 morti, per lo più vecchi, donne e bambini, la personalità dei pianificatori e degli esecutori materiali dell’azione è molto più chiara e ben marcata. La strage è anzitutto opera non di un reparto qualsiasi delle forze armate germaniche, ma di un reparto scelto per determinati compiti e con una nettissima connotazione ideologica. Il reparto in questione è la nota XVIª Divisione Panzer Granadier Reichsführer SS al comando del generale (Gruppenführer) Max Simon e in particolare il 2° battaglione del 35° reggimento. Sempre gli uomini di tale reggimento saranno responsabili della strage di Vinca (24 agosto 1944) con i suoi 170 morti e di Marzabotto (29

settembre – 1°ottobre 1944) con oltre 700 vittime. In secondo luogo, la strage di Sant’Anna non fece seguito a nessun attacco alle truppe tedesche, ma fu pianificata a tavolino come fosse una regolarissima operazione militare. Questo con l’intento chiaro di fare terra bruciata lungo la via di ritirata delle truppe tedesche che stavano per concludere il ripiegamento sulla Linea Gotica dopo che gli alleati erano riusciti a oltrepassare anche la linea dell’Arno.

Gli uomini addetti a queste operazioni erano quindi per lo più soldati caratterizzati da un forte fanatismo ideologico. Il dott. Gentile, consulente del Tribunale militare di La Spezia durante il processo, ha spiegato che un’operazione del genere era condotta a livello di battaglione e allo stesso livello era gestita la sua pianificazione, con il coinvolgimento di ufficiali e sottufficiali in riunioni dove erano chiamati a partecipare anche i comandanti di plotone e di squadra. Questo fu