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Ovviamente etichettare una persona come criminale partendo dal presupposto che da giovanissimo era entrato a far parte delle SS non è giuridicamente corretto, visto che, oltre al fatto che non si giudica nessuno in funzione del gruppo d’appartenenza ma bensì solo in base al proprio comportamento individuale, è generalmente vero che chi entrava nelle SS lo faceva per fede verso l’ideale nazista e in particolare verso la persona del Führer che ne era l’incarnazione,

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Con il decreto luogotenenziale n. 319, del 9 novembre 1944, si istituiva presso la Presidenza del Consiglio dei ministri un Ufficio per i patrioti dell’Italia liberata. Chiarissimo riconoscimento della lotta sostenuta dagli italiani dei territori occupati contro i tedeschi. Inoltre, l’art. 1 del decreto luogotenenziale n. 75, del 28 febbraio 1945, il legislatore prevedeva esplicitamente la lotta contro i tedeschi e contro i fascisti con essi collaboranti.

In base a questi decreti nella “Sentenza contro Merico Zuccari e altri appartenenti alla legione Tagliamento” del Tribunale militare territoriale di Milano del 28 agosto 1952, si afferma che «…le formazioni partigiane, sin dall’inizio della lotta contro il tedesco invasore debbono essere considerate alla stregua di corpi volontari militari composti di cittadini italiani e qualsiasi azioni di guerra condotta contro di loro deve considerarsi condotta contro lo Stato italiano legittimo [Regno del Sud] ed in aiuto al nemico tedesco invasore».

ma vi era anche chi si arruolava per motivi di opportunismo personale visto che fare parte di un corpo di élite come quello delle SS nella Germania nazista voleva dire opportunità nel campo professionale non solo militare ma anche civile, oltre al prestigio personale tra i propri concittadini.

Con il prolungarsi del conflitto inoltre le Waffen SS subirono perdite umane pesantissime, tanto che risultava oramai impossibile riempire i vuoti seguendo i severissimi canoni di selezione che nei primi anni dovevano essere superati per accedervi. Così, a seguito dell’ordine di creazione di nuove unità militari di SS combattenti, ebbe inizio un reclutamento che fece scendere sensibilmente il livello “qualitativo” richiesto per farne parte.

Si arrivò ad arruolare non solo personale di etnia tedesca residente in territori occupati, ma addirittura volontari non tedeschi, compresi gli italiani. Dalla Germania inoltre arrivavano i surplus di personale dell’esercito, della marina e dell’aviazione. Insomma, non tutti i coscritti delle Waffen SS avevano aderito volontariamente o erano personale scelto.

Questo ovviamente non significa che essendo “non tedeschi” non si potesse essere potenziali criminali di guerra, ma che a un certo punto della guerra, ovvero nell’ultimo anno e mezzo, non tutti si arruolarono nelle SS per motivi prettamente ideologici. La Wehrmacht fino agli ultimi mesi di guerra ebbe meno problemi per quello che riguardava l’arruolamento, perché a differenza delle SS, fin dal primo giorno di guerra ebbe il privilegio (insieme all’aeronautica e alla marina) di poter arruolare cittadini tedeschi. Infatti, con lo scoppio del conflitto furono bloccate le domande di arruolamento nelle SS per non creare tensioni con l’esercito e visto che all’inizio del conflitto le SS non erano truppe combattenti, ma si limitavano a gestire i campi di concentramento e i territori occupati, si evitò che potesse sorgere la possibilità per qualcuno di arruolarsi nelle SS al solo scopo di evitare i combattimenti in prima linea dove era impegnato il personale delle altre forze armate.

Ma appunto il fatto che non tutte le SS combattenti erano volontari, fece sì che al processo di Norimberga i giudici militari alleati dichiarassero sì criminale l’organizzazione delle SS, ma senza che, chi vi facesse parte risultasse automaticamente un criminale. Questo ovviamente non precluse la possibilità che i vari membri potessero essere processati dinanzi a un tribunale nazionale o delle forze di occupazione, come stabilito dall’articolo 10 della Carta di Londra, ovvero dallo Statuto del Tribunale Militare Internazionale alleato.

Nelle sentenze analizzate si è dato spazio alle problematiche essenziali che hanno portato i giudici a giudicare colpevoli, o non, i vari imputati. E come già chiarito si sono riportate conclusioni che su determinati aspetti divergono alquanto.

Ma le sentenze riportano dichiarazioni anche su altri aspetti che non sono del tutto secondari e che rispecchiano in parte i cambiamenti avvenuti nella mentalità dei giudici a seconda del periodo in cui dovettero operare sui suddetti casi. Periodo che spesso portava con sé uno studio più approfondito su determinati aspetti dell’ultimo conflitto mondiale e sul concetto dell’uomo di fronte al diritto, compreso quello internazionale.

L’assoluzione di Kappler per aver eseguito l’ordine di fucilazione di 320 italiani, che per di più erano detenuti che con l’attacco non avevano chiaramente niente a che fare, è una conclusione ad oggi indifendibile, ma forse, in parte anche allora, viste le risposte che furono date dalle sentenze di poco successive contro altri criminali di guerra. Ma antecedentemente vi fu anche quella data dal Tribunale di Norimberga in merito al dovere di eseguire un ordine manifestamente criminoso come era quello che diede il via all’eccidio delle Cave Ardeatine e che il Tribunale stesso aveva riconosciuto come tale. Tra i processi precedenti a quello contro Kappler c’era addirittura quello portato a termine dagli alleati proprio contro altri due militari che venivano accusati dello stesso crimine, ovvero il generale von Mackensen e il generale Maeltzer. Inoltre vi erano le note sentenze della Corte militare di Lipsia su reati commessi da ufficiali germanici nella prima guerra mondiale, in primis la sentenza “Dover Castle” di cui si è già parlato.

Riguardo al caso del caporale delle SS Michael Seifert che operò nel campo di concentramento di Bolzano, la Procura Militare di Verona, che si fece carico del processo conclusosi con la sua condanna all’ergastolo il 4 novembre 2000, non riprende le conclusioni del primo Tribunale militare di Roma che giudicò Priebke sul Corpo delle SS. Il Tribunale romano infatti sostenne la “non militarità” delle SS, richiamandosi alla sentenza del Tribunale di Norimberga che, dichiarando criminale l’organizzazione delle SS, non gli riconobbe lo status “militare” per non dover creare un precedente dove una regolare forza armata veniva riconosciuta in blocco come “criminale”, dando così un certo fastidio tra chi rappresentava, sia in Germania che all’estero, le classiche forze armate. Infatti anche lo Stato Maggiore tedesco fu condannato come “organizzazione criminale” ma senza per questo estendere il giudizio all’intero esercito tedesco. Ma questo fu sconfessato dalla Suprema Corte di Cassazione che avrebbe poi dato avvio al nuovo processo contro Priebke ed Hass. La Cassazione infatti, per affermare la sussistenza della giurisdizione del giudice militare ha sottolineato i dati “storici” costituiti, ovvero dalla ordinaria operatività degli appartenenti al Corpo delle SS su tutti i fronti di guerra nel corso del secondo conflitto mondiale; dalla loro organizzazione secondo gli schemi delle vere e proprie formazioni militari e, infine, dalla loro sottomissione ai fini militari tramite la subordinazione al comando tattico dell’esercito, come avvenne in Italia, dove le SS erano sì agli ordini delle generale delle

SS Karl Friedrich Otto Wolff, ma questi riceveva gli ordini dal feldmaresciallo Albert Kesselring senza eventuali interferenze del comandante in capo delle SS Himmler.

La Cassazione rafforza ancora di più la tesi che non si poteva ritenere forza militare solo le Waffen SS, perché se le restanti SS avevano funzioni di polizia politica nazista, la distinzione riguardava solo gli impieghi operativi, senza che questo intaccasse la natura del Corpo, che era e restava un corpo militare.

Bisogna dire che se alla fine i vari tribunali militari italiani, e anche europei, avevano riconosciuto le forze partigiane come “Corpi armati regolari” al servizio dello Stato occupato o di quello che era sotto attacco (Unione Sovietica e Cina), non si poteva di certo contestare la “non militarità” delle SS che oltretutto rispondevano ai requisiti richiesti dall’articolo 1 della Convenzione dell’Aja del 1907 che enunciava che un combattente per essere riconosciuto come “regolare” doveva portare le armi bene in vista, un’uniforme con segni distintivi chiari e rispondere a una struttura di comando ben definita. Requisiti questi, che non mancavano al singolo combattente e neanche al poliziotto delle SS.

Così, anche il Tribunale militare di Verona riconosce le SS come forza armata regolare.

Su questa posizione converge totalmente anche il Tribunale militare di La Spezia che recepisce completamente quanto dichiarato sullo status di forza militare delle SS dalla Cassazione che si era pronunciata sul caso Priebke. Il Tribunale farà ben presente la già sopradetta subordinazione delle unità delle SS a Kesselring, e quindi all’esercito, che era non solo il primo responsabile per il teatro di guerra del fronte contro gli alleati, ma anche per la conduzione della lotta ai partigiani.

La responsabilità della lotta ai partigiani affidata all’esercito dimostrava quanto i tedeschi prendessero sul serio la lotta resistenziale e quanto fosse importante il ruolo della Resistenza europea nella lotta contro gli eserciti dell’Asse.

Nelle sentenze dei tribunali militari alle volte si è arrivati a dare un giudizio alquanto discutibile sugli imputati riguardo alla loro natura umana, ovvero sulla loro propensione a commettere crimini di guerra. È vero che rispetto ad altri combattenti gli uomini delle SS avevano un addestramento e un’esperienza alle spalle che li portava a eseguire gli ordini più atroci come se eseguissero delle normalissime azioni di guerra. Infatti non è un caso che fossero proprio loro gli addetti alla gestione dei campi di sterminio dove diedero prova di un’efficienza incredibile nell’eseguire lo sterminio programmato degli internati.

Il Tribunale militare di Bologna nella sentenza sul caso Reder del 31 ottobre 1951 contesta in un certo senso la definizione classica di “criminale di guerra” che viene contestata a Reder. Infatti il Collegio ritiene che Reder sia più precisamente un “criminale in occasione della guerra” poiché

secondo i giudici «appare evidente dai particolari della sua condotta che con le operazioni militari, in senso proprio, nulla hanno in comune, che egli, nella guerra trovò le condizioni più

idonee per l’esplosione di quegli istinti criminali propri della sua indole [il corsivo è mio]».

Effettivamente Reder fu un esecutore di una brutalità inaudita, ma il fatto è che il Collegio militare ignora (volontariamente o non) che queste operazioni di annientamento sistematico della popolazione nemica e di terra bruciata nelle zone in prossimità del fronte, erano il risultato di una campagna terroristica pianificata dai comandi tedeschi sia in Italia che sul fronte orientale in primo luogo, dove per l’appunto furono ideate. Per come ha impostato il discorso il Tribunale bolognese, pare che Reder sia l’unico responsabile di queste stragi e che conseguentemente non ricada nessuna responsabilità diretta sugli ufficiali dello Stato maggiore germanico responsabili del teatro bellico italiano.

E’ vero che i giudici militari affermano che «la sistematica condotta dell’azione contro le popolazioni attuata con identica procedura in tutte le zone rivelano l’esistenza di ordini precisi cui le SS ebbero ad ottemperare» ma non dicono che tali ordini provengono dal comando tedesco, anzi, si continua dicendo che: «Tali ordini, escluso che provenissero dall’alto come

provato dagli stessi germanici […], è logico ritenere debbano esclusivamente riportarsi al Reder

[il corsivo è mio]».

Il Tribunale, parlando dell’imputato come farebbe un team di psicologi, converge l’attenzione totalmente su Reder, dimostrando tra l’altro di non aver indagato su ulteriori responsabilità di altri soggetti a lui vicini (i suoi sottoposti) o lontani (i suoi superiori). Così facendo si salva indirettamente anche l’immagine tipica e retorica dei classici eserciti e delle loro azioni militari che rappresentano i luoghi e le gesta dove l’onore e l’eroismo del combattente in divisa trovano il modo di risaltare, a differenza dei soldati imbevuti di un fanatismo ideologico che tra l’altro ha in sé il tipico comportamento del criminale comune: «l’imputato, oltre che aver volutamente ignorato la doverosa condotta di ogni soldato degno della convivenza civile, è sceso ad ogni bassezza e crudeltà, portandosi al livello di quelli che son detti “delinquenti comuni” che uccidono, estorcono, rapinano, stuprano, distruggono»192.

Inoltre, riguardo al ruolo dello Stato italiano in rapporto al fenomeno del partigianesimo, la Corte militare di Bologna dichiara che: «Comunque per il fatto della esistenza di formazioni partigiane uno Stato non viola certo un obbligo internazionale (non si può infatti violare un divieto che non

esiste [il corsivo è mio]) e quindi non sorge e non può sorgere nello Stato nemico alcun titolo

giuridicamente valido che comporti il ricorso alla legittima rappresaglia». Sul divieto che “non esiste” il Collegio specifica che: «[…], manca nel diritto internazionale una norma che consente

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di far comunque risalire ad uno Stato, ed a titolo di illecito internazionale, la responsabilità per l’attività partigiana, la responsabilità per l’attività partigiana in suo favore svolta, nel suo stesso territorio occupato dal nemico, da parte dei suoi stessi cittadini, né alla affermazione di tale illecito si può giungere per il solo fatto che i partigiani agiscono privi delle garanzie, internazionalmente convenute, e che riguardano i “belligeranti”».

Qui lo Stato, riconosciuto come unico soggetto leggittimo dal diritto internazionale, viene in ogni caso reso privo di responsabilità verso il fenomeno del partigianesimo nonostante quest’ultimo sia a lui direttamente ricollegato. E questo solo perché nel diritto internazionale non esiste una norma scritta che dichiari esplicitamente che l’appoggio a formazioni armate che non rispettano determinati requisiti per essere qualificate come “legittimi combattenti” è un illecito. Ma i giudici, così facendo, sia appigliano (piuttosto maldestramente) a un cavillo tecnico oggettivamente irrilevante facendo sì che lo Stato italiano non si assuma le responsabilità delle proprie scelte nei confronti del movimento partigiano che appoggia e alimenta insieme agli alleati. Infatti il diritto internazionale non si basa solamente su regole scritte ma anche su consuetudini universalmente riconosciute nella conduzione degli affari internazionali, compresa la guerra. Se anche altri tribunali (italiani e non) avessero aderito a questo tecnicismo, per così dire estremo, molto probabilmente nessuno alla fine della seconda guerra mondiale sarebbe stato condannato per crimini di guerra visto che se, solo lo Stato era l’unico organo legittimo internazionalmente riconosciuto, solamente il capo dello Stato e al massimo i governanti più in alto, dovevano rispondere delle azioni condotte dai sudditi. Per di più non esisteva nessun divieto scritto che impedisse l’incitamento allo sterminio di un determinato gruppo umano etnico, religioso o di qualsiasi altro genere, ma nessuno mise in dubbio dopo la scoperta dello sterminio scientifico di milioni di esseri umani attuato nei lager nazisti, che chi avesse incitato a far sì che tali eventi potessero accadere o che riaccadano, sia da condannare senza indugio193.

Stesso discorso vale per la cosiddetta “guerra d’aggressione”. Infatti fino al processo di Norimberga nel diritto internazionale non si specificava che cosa volesse dire “guerra d’aggressione”, ed inoltre, cominciare una guerra non veniva considerato neanche un crimine194. Anzi, tutt’ora diversi membri dell’ONU hanno fatto osservare che non si è mai arrivati a una definizione di “aggressione” abbastanza specifica da consentire di perseguire i governanti195. Abbastanza imbarazzante è la concessione di attenuanti generiche (articolo 62 bis del codice penale) che vengono concesse a Reder, anche se a causa della gravità delle aggravanti risultano

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Julius Streicher venne condannato a morte dal Tribunale militare internazionale di Norimberga perché attraverso le colonne del suo giornale, il “Der Stürmer”, e da altre pubblicazioni, istigò all’odio razziale.

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Secondo il “Patto Briand-Kellog” del 1928, che dichiarò fuori legge la guerra, l’aggressione era un atto illegale soltanto da parte di uno Stato, ma non un atto criminale per cui fosse possibile processare gli individui.

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vane per una riduzione della pena. Rimane però un precedente che poteva e potrebbe pesare nel futuro, non solo per i pochi tedeschi accusati di crimini di guerra rimasti ancora in vita, ma anche per qualsiasi imputato per crimini di guerra in generale. Infatti giudici bolognesi dichiarano che: «Non può infatti ignorarsi il particolare stato d’animo in cui può essersi trovato ad agire l’imputato che ormai da tempo, con la marcia a ritroso del suo battaglione batteva le tappe della ritirata; quando ormai doveva rendersi conto della inevitabilità di una immane catastrofe nazionale e militare». Questo rimane una semplice supposizione, visto che all’inizio dell’autunno del 1944 molti nazisti e un certo numero di militari credevano che la vittoria fosse ancora possibile, o almeno una tregua armata con gli angloamericani, questi infatti erano rimasti bloccati sull’Appennino tosco-emiliano e in Francia la loro avanzata iniziava a rallentare sempre più. Inoltre tra gli stessi anglo-americani c’era chi iniziava a vedere con un forte timore l’avanzata di un’Armata Rossa che pareva invincibile e non si scartava l’ipotesi di un accordo con i tedeschi in funzione antisovietica196. Infine, si parla sempre più insistentemente di nuovi “armi segrete” in mano ai tedeschi capaci di ribaltare le sorti della guerra. Anche gli americani iniziarono a credere a queste notizie ed accelerarono sensibilmente le ricerche scientifiche per arrivare a costruire il più velocemente possibile la bomba atomica.

Un’altra conclusione abbastanza discutibile, è quella del Tribunale militare di La Spezia riguardo al tenente della Wehrmacht Heinrich Nordhorn per l’eccidio di San Tomè (Forlì). Tra le persone che furono impiccate pubblicamente a seguito di un attacco partigiano vi erano due cittadini italiani ebrei, padre e figlio, che secondo la Corte furono uccisi perché ebrei. Sicuramente il fatto che fossero ebrei non giocò a loro favore e probabilmente proprio il fatto che fossero ebrei fece sì che rientrassero facilmente nella lista degli ostaggi da uccidere, ma insieme a loro furono uccisi anche altri quattro cittadini italiani che non erano ebrei. Questa rimane quindi una supposizione dei giudici che, per quanto molto probabile, non è sorretta da prove certe. Per tentare di avvallarla gli stessi giudici affermano che Nordhorn non poteva non riconoscere che i due erano ebrei perché in quel momento un sacerdote cattolico impartì una benedizione cattolica e sicuramente loro, per il fatto di essere ebrei cercarono di sottrarvisi, forse recitando una preghiera ebraica, magari accompagnandola con il movimento del corpo, o cercando di coprirsi il capo, secondo una ritualità facilmente riconoscibile. E a questo punto nella sentenza si giunge a una conclusione alquanto imbarazzante: «Va considerata anche la presenza ebraica, prima della persecuzione, nel Ruhrgebiet197, zona d’origine dell’imputato, e anche nelle terre sovietiche

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Su questo punto, Winston Churchill non era totalmente contrario, anzi. Ma l’unica possibilità era che Hitler fosse messo fuorigioco e che il potere in Germania passasse almeno nelle mani dei militari. Questa conclusione è stata provata dalla pubblicazione di documenti segreti alla fine degli anni ’90 da parte del governo britannico.

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Il Ruhrgebiet è la zona nord della Ruhr dove si trovano anche i maggiori centri industriali (Dortmund, Duisburg, Essen) di quella che è l’area più industrializzata d’Europa.

invase, in cui l’imputato aveva militato. Egli, persona di cultura superiore, certamente sapeva riconoscere (senza bisogno che fosse al corrente dei dettagli) la gestualità rituale propria di un ebreo». Anche queste dichiarazioni insomma, si basavano solamente su supposizioni che, seppur plausibili, sempre supposizioni rimanevano. La gravità di tali dichiarazioni sta nel fatto che queste furono utilizzate come aggravanti, confermando che ci si trovava di fronte a «fatti

politicamente motivati»198.

Qui i giudici fanno quello che in teoria non è permesso neanche all’Accusa durante lo svolgersi del dibattimento processuale, ovvero parlano di fatti che non hanno un benché minimo riscontro probatorio e che quindi, come già detto, rimangono nell’alveo delle supposizioni.

Supposizioni che in questo caso sembrano essere più consone ad uno storico che ad un giudice, visto che il primo non si deve limitare a registrare i fatti ma deve soprattutto capire il perché