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L’ausilio degli storici, almeno per quanto riguarda l’Italia, vede nei processi condotti dalla Procura militare di La Spezia il loro apice. Ma già nel 1996, nel primo processo contro Erich Priebke conclusosi con il rilascio dell’imputato a causa dell’entrata in vigore della prescrizione, «essendo decorso un termine lunghissimo che supera abbondantemente quello di vent’anni» previsto dalla norma vigente223, è presente la consulenza di uno storico, che inoltre ricopre anche il grado di ufficiale nella marina militare tedesca.

Tali consulenze sono ravvisabili dalle conclusioni che le varie sentenze hanno raggiunto e che sono già state riportate quando abbiamo analizzato i vari punti chiave (stato di necessità, rappresaglia, ordine superiore, zelo esecutivo, ecc.) che sono stati dibattuti nei processi.

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G. Miccoli, “I dilemmi e i silenzi di Pio XII”, Rizzoli, Milano 2000 (una nuova edizione che incorpora le correzioni apportate sulla edizione francese è uscita nel 2007), pp. X-XI.

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A seguito della comparazione tra attenuanti e aggravanti fatta dal Tribunale romano il reato imputabile all’ex capitano delle SS divenne punibile ai sensi dell’articolo 575 e quindi con la pena della reclusione non inferiore ad anni ventuno. Il che, essendo nel frattempo intervenuta la prescrizione, comportava importanti conseguenze: infatti, nel codice penale italiano i reati punibili con l’ergastolo non sono prescrittibili, sono invece soggetti a prescrizione

Nel processo contro Priebke, ma anche in tutti i processi contro i criminali di guerra tedeschi svoltisi precedentemente e successivamente, un punto nevralgico di tutta la discussione giudiziaria è stato, senza ombra di dubbio, il principio secondo cui il sottoposto (in questo caso l’imputato) è tenuto ad eseguire l’ordine del superiore. Ovviamente, come dimostrato dai rappresentanti dell’accusa, sia nel codice penale militare tedesco che in quello italiano dell’epoca, era ben chiaro l’imperativo della disobbedienza nel caso che l’ordine in questione fosse caratterizzato per la sua manifesta criminosità. Di fronte a tale constatazione la difesa ribatté che tuttavia era impossibile per il proprio assistito opporsi a tali ordini, a causa del pericolo in cui questi sarebbe incorso in caso di disobbedienza. Con “supposto pericolo” si intendeva ovviamente la possibilità di essere passato per le armi sul posto o, nelle migliori delle ipotesi, quello di finire di fronte ad una corte marziale con la seria possibilità di essere in ogni caso condannati a morte.

È questo il cosiddetto “stato di necessità” in cui sia Priebke che quasi tutti gli imputati tedeschi e i loro alleati processati dai vari tribunali europei, fecero appello per provare la loro involontarietà nell’eseguire i crimini a loro attribuiti.

È a questo punto che, per quanto riguarda il processo ad Erich Priebke, entrò in gioco la consulenza dello storico e militare tedesco Gerhard Schreiber. Questi, come addetto all’archivio militare tedesco delle SS di Friburgo, all’udienza dibattimentale del 3 giugno 1996 aveva reso significative dichiarazioni e soprattutto aveva prodotto sufficiente documentazione per poter concludere che, in molti casi analoghi di disobbedienza anche da parte di ufficiali, nessuno era mai stato punito con la pena di morte, ma soltanto con provvedimenti amministrativi più o meno rigorosi o con condanne a pene lievi. Come provvedimenti più o meno rigorosi lo storico tedesco riportò la punizione disciplinare, il trasferimento al fronte e la compromissione della carriera224. Fu generalmente quest’ultima che spaventava gli ufficiali appartenenti alle SS (ma anche molti appartenenti all’esercito) che cercavano continuamente di mettere in mostra il loro zelo e la loro assoluta fedeltà con l’intenzione di arrivare il più in alto possibile nella scala gerarchica. Salire di grado spesso voleva dire, oltre a maggiori elargizioni economiche e a un maggiore prestigio, entrare a far parte del personale degli alti comandi con la conseguenza di evitare il più possibile la partecipazione diretta ai combattimenti. Inoltre, in caso di prigionia, gli ufficiali in generale,

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Come si può vedere dalla documentazione scritta, dalle testimonianze dei reduci, dai filmati e dai film sugli eventi della seconda guerra mondiale, come trasferimento al fronte si intendeva quasi sempre il trasferimento sul fronte russo, ormai riconosciuto come un mattatoio.

ma in particolare chi godeva di posizioni gerarchiche più elevate, aveva diritto a determinati privilegi da parte del nemico che lo deteneva225.

Tuttavia, il Tribunale romano espresse riserve in merito alle «precisazioni» di Schreiber e osservò che «non poteva ritenersi del tutto infondato il parere del consulente tecnico della difesa (Angelozzi Gariboldi), secondo il quale non si potevano escludere conseguenze molto negative [il corsivo è mio] non solo per l’indisciplinato ma anche per i suoi familiari»226.

Tale conclusione, oltre ad essere in contrasto con Schreiber, è contraddetta da un altro storico, il professore Paolo Pezzino dell’Università di Pisa che è stato consulente del Tribunale militare di La Spezia per quanto riguarda il processo conclusosi nel giugno del 2005 sui fatti di Sant’Anna di Stazzema, contro il sottotenente Gerhard Sommer e altri sottufficiali e soldati che parteciparono al massacro, e anche per il processo conclusosi nel gennaio 2007, tenuto dallo stesso tribunale per l’eccidio di Marzabotto.

Infatti anche nel procedimento su Marzabotto, gli imputati tedeschi si erano appellati all’obbligo di esecuzione di un ordine superiore, pena il rischio di essere passati per le armi. Il professor Pezzino invece, dichiarò di non essere a conoscenza di casi di fucilazione per disobbedienza ad ordini illegittimi nelle Forze armate tedesche. Inoltre dichiarava che certamente non ve ne erano stati in Italia, dove l’unico caso di esplicito rifiuto di eseguire tali ordini, da parte del comandante del reparto di polizia che aveva subito l’attentato di via Rasella a Roma, non diede luogo a sanzioni di sorta (stessa conclusione riportata nel processo su Sant’Anna). Il consulente era addirittura a conoscenza di un caso, verificatosi nella Polonia occupata, in cui una parte degli uomini di un battaglione di polizia, il 101°, ottennero di non partecipare ad azioni di sterminio di ebrei senza che subissero alcuna conseguenza disciplinare. Anzi, fu proprio il comandante del battaglione a invitare chi, fra i suoi uomini, non se la sentisse di partecipare a quelle operazioni, a farlo presente per essere destinato ad altri incarichi227.

Agli stessi sostanziali risultati pervenne anche l’Ufficio centrale delle Amministrazioni giudiziarie regionali per l’accertamento dei crimini nazisti di Ludwigsburg, che dal 1958 esaminò centinaia di casi in cui era stato affermato che la mancata esecuzione avrebbe causato un pericolo mortale, senza però individuarne nemmeno uno. E difatti, alla luce di quelle

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Oltre al fatto di avere pasti migliori, e possibilità di godere di spazi più ampi (quando era possibile), la Convenzione di Ginevra imponeva che gli ufficiali fossero esentati da lavori manuali che, in caso di necessità, potevano essere imposti alla truppa e ai sottufficiali.

È da rilevare che in caso di cattura da parte dei sovietici gli ufficiali tedeschi rischiavano maggiormente, rispetto agli uomini di truppa, di essere passati per le armi. Questo era il risultato della condotta criminale tenuta dai tedeschi nella guerra contro i sovietici e contro i prigionieri caduti nelle loro mani durante quella guerra.

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Sentenza del Tribunale militare di Roma del 1° agosto 1996.

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Su tale caso vedi: Christopher R. Browning, “Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final

Solution in Poland”, Harper Collins Publishers, Tacoma 1992; trad. it. “Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale in Polonia»”, Einaudi, Torino 1995.

“deludenti” ricerche, a partire dai processi celebrati dagli anni ’70, anche le difese degli imputati hanno, quasi sempre, rinunciato a battere una strada rivelatasi impercorribile.

Il tribunale spezzino, a differenza del primo tribunale romano che giudicò Priebke, accolse le dichiarazioni del professor Pezzino ed inoltre, confermò (sempre su indicazione dei consulenti) che il racconto di un soldato tedesco che sarebbe stato fucilato per essersi rifiutato di eseguire ordini criminosi, non è nient’altro che una leggenda. Tale leggenda inoltre, è riaffiorata relativamente ad altre stragi naziste. Infatti, sempre il professor Pezzino, durante il processo di La Spezia su Sant’Anna di Stazzema, ridimensiona le voci dei testimoni raccolte nel saggio “Tra

Storia e Memoria” curato da Marco Palla, dove si riporta ad esempio una testimonianza indiretta

(di tale Giannelli) di cui non è però mai stata accertata la fonte, secondo la quale «fra i morti (dietro la chiesa) fu trovato anche un soldato tedesco riconoscibile dai colori e dalla tuta mimetica, probabilmente uno che si era rifiutato di sparare contro tutti quegli innocenti». Al riguardo il professor Pezzino aggiunse che lo stesso particolare era stato riferito anche da testimoni ben individuati, per esempio Alderano Vecoli, il quale, sentito nell’ambito del processo Reder, ha detto e sostenuto di aver visto sulla piazza della chiesa, in cima al mucchio di cadaveri attorno all’albero, i cadaveri di due militari tedeschi, da lui riconosciuti, però, soltanto dai lembi della divisa perché il resto era bruciato. Al loro riguardo si sentì dire che erano austriaci, e che erano stati giustiziati perché si erano rifiutati di sparare contro le donne. Nel corso del processo di La Spezia, anche il testimone Avio Pieri dichiarò che quando il mattino successivo alla strage tornò a Sant’Anna, sul lato destro della catasta di cadaveri, due avevano la divisa dell’esercito tedesco, gli stivali, l’elmetto e il fucile “Mauser”. Anche lui, in seguito, sentì dire che erano soldati che si erano rifiutati di sparare agli abitanti. Pezzino però ritiene improbabile la circostanza, dato che in quasi tutti gli episodi di strage si è diffusa la voce di uno o più “tedeschi

buoni” che, essendosi rifiutati di partecipare all’eccidio, sarebbero stati giustiziati dai

commilitoni. Una voce simile, per esempio, si era diffusa anche per la strage di Civitella Val di Chiana, dove peraltro non vi è mai stata una reale prova che simili episodi fossero veri.

È da rilevare che questa leggenda del “tedesco buono” riporta spesso il dato che tale soldato fosse di nazionalità austriaca. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che tale cittadinanza sia sempre stata collegata al cattolicesimo. Infatti a volte si contrapponeva l’austriaco cattolico al suo fratello tedesco luterano, tedesco che era il “cattivo” per eccellenza.

Nella società passata e in particolare nelle piccole comunità locali, la religione cattolica era estremamente radicata e seguita, e si faceva faticare a capire come mai degli uomini di un Paese sostanzialmente cristiano potessero commettere tali barbarie verso degli innocenti che per di più erano cristiani come loro. Si ricordi poi che la religione cristiana è stata il primo elemento che

unì i popoli d’Europa, divisi fino ad allora da un forte sentimento di appartenenza nazionale. Solo in seguito arrivò un ulteriore elemento unificante, ovvero il socialismo per quello che riguardava l’unione delle classi lavoratrici di tutta Europa in un primo momento e di tutto il mondo in seguito.

Sempre il professor Pezzino228 è stato interpellato dai giudici spezzini durante il processo su Sant’Anna di Stazzema per quello che riguardava la causa scatenante del massacro ad opera dei soldati del Terzo Reich. Subito dopo il massacro si diffuse la voce che qualche giorno prima della strage nei dintorni della zona un ufficiale tedesco era stato ferito da un colpo di fucile, presumibilmente ad opera di qualche partigiano. Le voci di quel ferimento, evidenziate nel Rapporto britannico del settembre 1944 a firma del maggiore Cromwell, trovarono conferma nelle indagini sfociate nel processo Reder del 1951. Ma nel procedimento di La Spezia la tesi della reazione al ferimento di un militare tedesco venne addirittura smentita dalle dichiarazioni di due imputati. Tale tesi era già stata messa in dubbio dal professor Pezzino, il quale aveva rilevato come fosse poco plausibile attribuire ad un gruppo di partigiani, o anche ad uno solo di essi, quel ferimento. Infatti i partigiani si erano ritirati da quella zona sin dall’8 agosto229, ed è probabile che quei pochi visti a Sant’Anna dopo la strage, fossero soltanto degli sbandati che non facevano parte delle formazioni conosciute e che, muovendosi probabilmente al di fuori di esse, ben difficilmente avrebbero assunto l’iniziativa di opporsi a quell’enorme dispiegamento di forze. In ogni caso, secondo il consulente storico, la tesi appariva già poco convincente alla luce di un episodio analogo, questa volta verificatosi a Farnocchia (vicino a Sant’Anna), descritto da un uomo che era stato catturato e incaricato di portare le cassette delle munizioni. Infatti, nonostante lo scontro tra tedeschi e partigiani fosse costato il ferimento di cinque militari, il comandante ordinò che questi fossero portati più a valle con delle barelle di emergenza, ma non seguì alcuna rappresaglia nei confronti dei civili che li avevano portati fino a valle (mentre i giovani che, come l’uomo che ha riportato tale fatto, avevano portato le cassette di munizioni furono fucilati due giorni dopo a Camaiore).

Si pensò che allora la causa della strage poteva ricondursi all’uccisione di alcuni fascisti da parte dei partigiani, e che quindi fosse stata la vendetta il movente delle truppe tedesche, dopo la sollecitazione dei parenti delle vittime fasciste. Ma il Collegio condivise le perplessità espresse

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Si ricordi che le sentenze analizzate in questa ricerca sono quelle emesse da tribunali militari italiani, ad eccezione della sentenza del Tribunale di Coblenza sulla strage di Caiazzo. Ecco perché i consulenti riportati fino adesso sono piuttosto limitati. Inoltre, nelle sentenze il professor Pezzino gode di uno spazio maggiore rispetto ad altri anche perché ad usufruire della sua collaborazione è stato il Tribunale militare di La Spezia che, grazie in particolare al procuratore militare Marco De Paolis, è riuscito ad istruire e a portare a termine la maggior parte dei procedimenti penali contro i criminali di guerra tedeschi rispetto a tutte gli altri tribunali militari italiani messi assieme.

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dal professor Pezzino rispetto ad un’operazione motivata dal solo scopo di vendicarne la morte, sia per il tempo trascorso da alcune di quelle uccisioni (il 4 agosto per esempio), sia per la sproporzione della strage con altri episodi di rappresaglia, eccessiva anche per delle truppe che avevano dimostrato di non avere alcun rispetto per i valori umani e per la vita.

Anche nel caso della strage di Caiazzo l’imputato si rifece a un attacco partigiano per giustificare le proprie violenze, ma in fase di dibattimento anche questo attacco partigiano risultò inesistenze. Un’altra motivazione addotta a suo tempo per trovare una motivazione alla strage di Sant’Anna fu il mancato sfollamento del paese, imposto dai tedeschi con un ordine affisso nella piazza della chiesa. Tuttavia, per un lungo periodo non fu trovata alcuna conferma dell’esistenza di quell’ordine. Ma nel processo di La Spezia si dimostrò che quell’ordine ci fu davvero. Parte della popolazione lasciò il paese, ma stette via solo per pochi giorni. Infatti ritornò, un po’ perché rassicurata dai partigiani, un po’ perché molti non sapevano dove andare, e molti altri perché avevano saputo che al comando tedesco avevano detto che la popolazione poteva rientrare. Il riferimento alle rassicurazioni tedesche, le considerazioni che il 31 luglio a Farnocchia erano saliti dodici militari tedeschi per far evacuare direttamente la popolazione (per giunta dopo un termine di ventiquattro ore concesso per intercessione di Don Lazzeri230) e il fatto che a Carrara l’opposizione delle donne aveva addirittura impedito lo sfollamento senza che succedesse niente di grave, fanno ritenere poco probabile, secondo il professor Pezzino, un nesso diretto tra il mancato sfollamento e la strage. Secondo il consulente pertanto, l’ipotesi non valse, da sola, a giustificare la strage, anche se il mancato esodo potrebbe aver assunto un significato diverso in quel particolare momento, in cui i tedeschi ritenevano che la popolazione fosse direttamente coinvolta nella lotta partigiana.

Altra questione che ha riguardato le stragi di popolazioni civili in Italia da parte delle truppe tedesche è stata la presenza di italiani nelle fila tedesche al momento dei massacri. La presenza di italiani, fascisti e collaborazionisti nell’attuazione degli eccidi è stata provata storicamente. Molti sono i testimoni che riconobbero italiani del luogo che parteciparono alle mattanze e molti di loro trovarono in seguito la morte al momento della Liberazione per mano partigiana o di semplici cittadini (generalmente paesani delle vittime). Inoltre, non mancarono fascisti che operarono come delatori e fomentatori delle stragi. Quest’ultimo punto, ovvero l’istigazione del fascista di paese a far sì che i tedeschi attuassero i massacri, divenne uno mito riscontrabile in quasi tutte le stragi compiute dai tedeschi in territorio italiano. Tale mito ricorda quello del “tedesco buono” presente in quasi tutte le stragi. Tuttavia, numerosi furono i casi di fascisti che

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Don Innocenzo Lazzeri, parroco di Farnocchia, fu massacrato insieme alla popolazione di Sant’Anna davanti alla chiesa, nonostante avesse avuto la possibilità di fuggire. Gli fu insignita la memoria d’oro al valor civile.

infierirono sui propri paesani, soprattutto se tali fascisti facevano parte delle camicie nere o peggio ancora se si erano arruolati direttamente nelle SS231.

Il professor Pezzino, sempre nel processo di La Spezia sulla strage di Sant’Anna, riferì che all’interno della 16ª Divisione corazzata SS Panzer-grenadier militavano diversi cittadini italiani accettati come volontari232, di cui è stata trovata conferma anche nelle liste dei militari visionate dagli storici negli archivi militari tedeschi di Berlino e Friburgo. Alcuni provenivano dal presupposto disciolto esercito italiano233, molti dei quali erano stati prima nei campi di concentramento in Germania, e poi, sotto la spinta della propaganda tedesca e fascista scelsero di entrare a far parte di quei reparti di SS italiane che, seppure sotto il Comando di un corpo ufficiali tedeschi e di un corpo sottufficiali misto, decisero di scendere al fianco dei nazisti. A questi ultimi, per esempio, è stata attribuita la strage dei minatori di Niccioleta (Castelnuovo di Val di Cecina, Pisa) del 13 giugno 1944. Altri provenivano dai reparti combattenti della Repubblica Sociale o dalle Brigate Nere e parteciparono a episodi di stragi tra le quali quella di Vinca (Fivizzano, Massa Carrara) del 24 agosto 1944, come risulta dagli studi del professor Pezzino che hanno messo in luce la partecipazione di membri del battaglione “Mai Morti” del generale Lodovisi234.

Inoltre ci furono i cosiddetti collaborazionisti, coloro che parteciparono alle azioni sotto forma di informatori o di guide e su cui è stato più difficile fare una verifica anche da parte degli storici. Come i processi che lo avevano preceduto, anche quello su Sant’Anna dovette affrontare il problema della “rappresaglia”. Così, il professor Pezzino toccò il campo che spetta in linea teorica ai giuristi ma che è da sempre oggetto di studio anche da parte degli storici, ovvero il diritto internazionale. Infatti Pezzino ricordò, tra l’altro, che era fortemente discusso, nell’ambito

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Terribilmente nota era la “Legione Autonoma Mobile Ettore Muti” che operò in tutto il territorio della Repubblica Sociale, ma principalmente nel milanese, dove su ordine del capitano delle SS Theodor Saevecke fucilò quindici detenuti politici italiani a Piazzale Loreto il 10 agosto 1944. Ma tale reparto coadiuvò generalmente le truppe tedesche nelle loro azioni contro i partigiani e si rese responsabile di numerosissimi atti di violenza (omicidi, torture, saccheggi, distruzioni).

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La mancanza di personale sarà sempre una costante nei reparti militari tedeschi nell’ultimo anno e mezzo di guerra su tutti i fronti. Le SS non facevano eccezione.

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È opinione comune, anche nei tra molti storici, che dopo l’8 settembre 1943 le Forze armate italiane siano disciolte a causa dell’abbandono in cui erano state lasciate dal Re e da Badoglio che fuggirono verso Brindisi incontro agli alleati lasciando i militari senza ordini, se si eccettua il blando e per niente chiaro ordine dato via radio al momento dell’annuncio dell’armistizio con gli anglo-americani dove si ordinava che le truppe italiane avrebbero