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Etica e scelte di fine vita in epoca di COVID-19

di Giacomo Delvecchio

Per scegliere tra il male e il peggio, che nelle pieghe della medicina sono leggibili entro dimensioni valoriali individuali, non ci sono linee-guida o protocolli che tengano, perché non c’è nessuna verità epistemica qui da difendere o da far avanzare. Non esiste, infatti, una Verità bioetica (scritta con la maiuscola) e se non esiste una verità tutti i criteri sono arbitrari, compresa l’età anagrafica che tanto fa discutere oggi

La pandemia da virus SARS-CoV-2 nel nostro Paese si è diffusa improvvisa, acuta e drammatica e ha un doloroso corollario in morti altrimenti evitabili in tempi ordinari, come sembrerebbe da dichiarazioni di molti colleghi urgentisti e rianimatori di zone d’Italia particolarmente colpite. L’elevato numero di affetti da COVID-19 concentratisi in tempi e aree ristrette ha messo a dura prova la tenuta del sistema sanitario locale rivelando una certa inattualità della Sanità sia ospedaliera che territoriale e obbligando molti colleghi ad effettuare scelte penose.

In questa situazione le raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione ai trattamenti intensivi rilasciate della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI)[1], forse anche per le modalità prive di intermediazione con cui sono state presentate al grande pubblico, hanno avuto una forza dirompente nel dibattito bioetico attuale; il documento ha fatto emergere le difficoltà di una scelta allocativa discriminante in caso di risorse limitate e ha offerto una proposta per una decisione che si vorrebbe non soggettiva.

In particolare, tra i criteri di scelta nel privilegiare l’accesso ai device sanitari e ai letti di terapie intensive, si è proposto di favorire chi ha più possibilità di recupero ovverosia “come estensione del principio di proporzionalità delle cure … di privilegiare la maggiore speranza di vita” eventualmente ponendo “un limite di età all’ingresso in terapia intensiva”.

Senza considerare se siano o meno vincolabili per i professionisti e per tutti i cittadini nonché adottabili dalle strutture sanitarie, queste formulazioni sono state accolte paragonando l’attuale condizione epidemica a quella di guerra, ma, forse, non significando a sufficienza che in guerra, e segnatamente nei posti di primo soccorso a ridosso della linea del fuoco della Grande guerra, la scelta dei feriti da avviare nelle Sezioni di sanità era dettata dalla trasportabilità o meno degli stessi, ovvero di dare chance a chi aveva chance ma, altresì, dalla necessità, di pari importanza, di recuperare il più rapidamente possibile dei combattenti all’Esercito[2].

Il documento ha suscitato in breve tempo un pubblico dibattito, cui questo giornale ha dato ampio risalto, con molteplici voci come quelle, tra le principali, di Filippo Anelli Presidente FNOMCeO[3], titolare del Codice di deontologia medica, di filosofi come Ivan Cavicchi[4], di bioeticisti come Maurizio Mori[5] e Maurizio Balistreri[6]e teologi morali come Mauro Cozzoli[7] e Andrea Manto[8] ma anche medici-legali come Daniele Rodriguez[9] nonché rappresentanti di associazioni scientifiche di geriatri[10] e di palliativisti[11]. Nel dibattito che ne è seguito il criterio anagrafico, in particolare, è diventato rilevante ed è stato discusso e criticato favorevolmente o sfavorevolmente secondo diverse articolate posizioni.

Anche alla luce del documento SIAARTI questa situazione epidemica solleva due ordini di problemi inerenti chi decide e come si decide in caso di disallineamento tra domanda e offerta per allocare i beni in condizioni di risorse limitate. L’analisi di tematiche di tale importanza e gravità meriterebbero considerazioni assai più ampie di un breve scritto.

In questa condizione emergenziale viene intuitivo il concetto di minimax, ossia di massimizzazione del risultato atteso o della minima perdita per tutte le componenti del sistema. In questo concetto, d’acchito estremamente

98 accattivante per una corretta scelta, anche eventualmente bioetica, è sotteso un criterio di utilità sociale. Ora l’utilità sociale fa venire in mente ai clinici – forse sbagliando? - uno strumento come i QALYs, ossia una unità di misura che si dimostra funzionalistica se non meramente economicistica e che vuole, o avrebbe la pretesa, di misurare accoppiandoli tra loro la durata di vita con la qualità di vita raggiungibili col proseguimento dell’esistenza al fine di indirizzare scelte di razionalizzazione e di ottimizzazione da applicare alla medicina e alla medicina clinica.

Non è chiaro ai clinici-decisori finali di fronte al malato se, a questo punto e con questi più ampi scenari, la questione viene semplificata o invece si complica ulteriormente. Emergono pertanto invariate le problematiche relative proprio a chi e a come si decide in queste condizioni emergenziali.

È evidente chi decide: il medico posto in condizioni di urgenza e che quindi decide discriminando malati in solitudine o al massimo col consenso e nel conforto dei colleghi più vicini. In questo modo sembra, di fatto, recuperarsi il paternalismo medico a svantaggio del principio di autonomia del cittadino-paziente non coinvolto apertamente nelle scelte - e quali scelte! - che lo riguardano. Bisognerebbe poi considerare come vengono distribuiti i principi di non maleficità/beneficialità per chi rimane col diritto non esito di accesso alle cure che sarebbero pretese secondo i principi di uguaglianza, universalità, equità.

In breve - ma non si può fare a meno - viene meno un aspetto di giustizia distributiva. Tenendo a mente la raccomandazione anagrafica, forse viene meno anche il principio di solidarietà palesandosi una asimmetria: il paziente più anziano, a parità di condizioni, è quello che ha contribuito maggiormente al sostentamento fiscale di quel sistema che paradossalmente gli sta negando le cure nel momento del suo più estremo bisogno.

Contemplando problemi oggettivi di organizzazione assistenziale e quelli pratici di logistica sanitaria, se non si è in grado di “dare tutto a tutti” o di “dare a ognuno secondo il proprio bisogno” secondo civiltà, diritto e in ossequio ai principi bioetici di uguaglianza e beneficialità, risulta, drammaticamente, che non tutti hanno uguali diritti di assistenza e cure. E se non tutti hanno uguali diritti di fronte alle cure, allora significa, forse, portato alle estreme conseguenze, che le vite non hanno tutte lo stesso valore?

Il criterio anagrafico, ancora una volta, pure d’acchito accettabile e pure confortato dai QALYs, nasconde altre insidie. È possibile pensare che tale criterio possa sopravanzare altri criteri? E può aprire ad altri criteri più sensibili e discussi come la vita biologica o a criteri sussidiari per una casuistica infinita, che non è il caso di elencare e che potrebbero essere ulteriormente discriminanti? E, poi, cosa c’è di concreto dietro questo criterio? Forse la stima (probabilistica) di una possibile ma non certa performance futura da parte di chi è avvantaggiato dalla giovane età?

Ma soprattutto, è possibile pensare al criterio anagrafico come culturalmente mediato?

È possibile pensare che la scelta a favore di età più giovanile non sia un assoluto – quasi una proiezione “genitoriale”, si accetti la qualificazione tutt’altro che banalizzante - ma sia invece storicamente determinata? È possibile pensare che tale criterio possa riflettere una sorta di inconscio etnocentrismo occidentale?

È possibile pensare che sotto altri cieli e in altre epoche una scelta di cura privilegiante la più giovane età sarebbe o sarebbe stata assonante con quanto ora proposto? Anche appellarsi ad una “forza vitale” la cui dotazione individuale verrebbe progressivamente meno con l’avanzare dell’età non funziona; è un concetto di facile presa sul pubblico laico ma che dal punto di vista medico rimane tutto da dimostrare.

È difficile - forse impossibile perché sono troppi e troppo diversificati i fondamenti valoriali che sottendono le scelte - trovare un punto di equilibrio che vada bene per tutti, a partire dai medici ma anche dai cittadini malati che sono anch’essi direttamente interessati alla tutela della loro salute e del loro fine vita e che non sempre sono inclini a spontanee scelte oblative a favore di altri per arrivare ai loro familiari spesso, in questa specifica situazione e come recitano tante testimonianze, angosciosamente lontani e all’oscuro di quanto viene deciso nelle corsie.

99 Potrebbe essere possibile affrontare queste difficoltà partendo dalle medical education che insegnano un rispettoso modo di argomentare anche con se stessi. Questo si persegue mettendo in guardia contro posizioni dottrinarie o scolastiche o dogmatiche; in altre parole, evitando di sviluppare un ragionamento bioetico a partire da principi assolutizzati, quasi riproducendo sul malato in corsia le modalità didattiche preconcette tipiche di quando si è in aula ad ammaestrare.

Si cade in una posizione scolastica sia quando si argomenta con una riserva di privilegio per l’età sia quando si argomenta privilegiando chi arriva prima in Pronto soccorso e che, per un evento temporale del tutto occasionale e fortuito, avrebbe, quasi come un diritto di primogenitura, assegnato il posto letto in terapia intensiva.

Si può proporre in alternativa sicuramente non facile, una bioetica clinica o pratica che sta alla bioetica teorica o dei principi come la clinica sta alla patologia sistematica, ossia alla teoretica delle malattie; in breve, si può proporre una bioetica clinica sfaccettata – si passi il termine - come lo sono le malattie nei malati e in cui rispetto al testo di studio c’è sempre qualcosa di diverso dall’atteso, in più o in meno. A questo i medici sono abituati. E quest’abitudine, cioè questo modo mentale di operare, è un vantaggio educativo utilizzabile anche per favorire la disamina bioetica.

Lontano dai dogmatismi, abbiamo in mente un professionista riflessivo – la parola ha un significato preciso in pedagogia medica - che di fronte ai mutevoli contesti clinici, perché nessun malato è mai uguale ad un altro, fondi un criterio di discernimento non sul senso comune né sul buon senso bensì su un maturo giudizio clinico globale in cui, se vogliamo, l’età anagrafica figura come una delle tante componenti. Questa è la fonte razionale, cioè metodologica, di natura clinico-naturalistica che apre a una capacità previsionale e quindi a fondate attese future probabili, e per questo possibili sebbene non certe, che sollecitano la messa in opera dei comportamenti professionali più corretti.

Questa è la via dell’appropriatezza decisionale per comportamenti che non contemperino un bene astratto, dottrinario e quindi teorico, da perseguire ad ogni costo come una linea-guida preformata e ricavata da altri ma un bene concreto e tangibile, realmente perseguibile qui e ora con quel malato e su quel malato e non esportabile su altri. Solo così si costruisce il bene comune; ma al riguardo era già stato avvisato, in epoca di peste e nella finzione letteraria di Camus, il dottor Rieux che “il bene pubblico è fatto dal bene di ciascuno”[12].

Ci vuole tempo per questa decisione? Certamente; come anche in urgenza ce ne vuole per raccogliere l’anamnesi e formulare una diagnosi. Ci vuole responsabilità? Soprattutto ci vuole responsabilità ma per assumersi responsabilità ci vuole un medico che sappia scendere a compromissioni con la vita concreta, a partire dalla propria, e che ne sappia portare a lungo il peso.

Compromissioni con la vita concreta: possono turbare chi ha presunzioni/pretese di innocenza professionale. Ci vuole un grande scrittore maledetto, più famoso come dottor Destouches medico vero dei poveri che ha viaggiato fino al termine della notte della vita, a ricordarci che “nella fatica e nella solitudine il divino se ne esce dagli uomini”[13]. Ma, fuor dalla parafrasi del divino dei principi primi, viaggiare fino al termine della notte è il mestiere dei dottori, i quali sanno bene cosa vuol dire Paul Ricoeur quando afferma: “felice colui che deve scegliere tra il Bene e il Male. Ma che fare quando bisogna scegliere tra il Male e il Peggio?”[14]

Per scegliere tra il male e il peggio, che nelle pieghe della medicina sono leggibili entro dimensioni valoriali individuali, non ci sono linee-guida o protocolli che tengano, perché non c’è nessuna verità epistemica qui da difendere o da far avanzare. Non esiste, infatti, una Verità bioetica (scritta con la maiuscola) e se non esiste una verità tutti i criteri sono arbitrari, compresa l’età anagrafica che tanto fa discutere oggi.

Esistono solo le persone e un bene concreto da fare qui e ora. E di fronte alle scelte di vita che hanno a che fare con questo bene concreto nessuno è più titolato di altri a scegliere per gli altri. Chissà se, nel giorno in cui ci si attende la svolta nella curva epidemica del COVID-19, questa possa essere una lezione arrecataci da SARS-CoV-2.

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Giacomo Delvecchio

ATS Bergamo, Società Italiana di Pedagogia Medica, Fondazione Pietro Paci

Riferimenti:

[1]SIAARTI, Covid-19 raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione ai trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, http://www.siaarti.it/News/COVID19%20-%20documenti%20SIAARTI.aspx

[2] Fabi L., Le ferite della guerra. Guerra di trincea e strutture sanitarie nell’esercito italiano del 1915-1918, in AA.VV., Malattie e medicina durante la grande guerra 1915-1918, Gaspari Editore, Udine 2009 pp. 28-37

[3]Anelli F., Nostra guida resta il Codice deontologico, https://portale.fnomceo.it/anelli-fnomceo-su-documento-siaarti-nostra-guida-resta-il-codice-deontologico/

[4]Cavicchi I., Gli anestesisti-rianimatori alla prova, fallita, con l’etica medica, Quotidiano Sanità 9 marzo 2020 [5]Mori M., Le Raccomandazioni degli anestesisti e la fine dell’eguaglianza ippocratica, Quotidiano Sanità 13 marzo 2020

[6] Balistreri M., Chi salvare e chi lasciar morire? La scelta spetta alla politica, Quotidiano Sanità 26 marzo 2020 [7]Cozzoli M.,A chi dare la precedenza? Riflessioni etiche sulle raccomandazioni della Siaarti, Quotidiano Sanità 19 marzo 2020

[8]Fassari C., Coronavirus. “Una sfida immane che ci coinvolge tutti e che sollecita risposte nuove in campo medico, etico ed economico”.Intervista a Monsignor Andrea Manto, Quotidiano Sanità 16 marzo 2020

[9]Rodriguez D., Dagli anestesisti-rianimatori una difficile presa in carico di responsabilità che merita rispetto, Quotidiano Sanità 9 marzo 2020

[10]Coronavirus. Geriatri: No a Rupe Tarpea, la soluzione non è sacrificare gli anziani, Quotidiano Sanità 9 marzo 2020

[11]Coronavirus. I palliativisti: “Da Siaarti riflessione importante che non deve restare confinata dentro le sole Terapie Intensive”, Quotidiano Sanità 12 marzo 2020

[12] Camus A., La peste, Bompiani, Milano 1988 p. 67

[13]Céline L-F., Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano 2018 p. 261

[14]AA.VV., La rinascita del pianeta. Conversazioni con Paul Ricoeur, Medusa, Milano 2014 p. 41

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Terapia intensiva, principi etici ed emergenza Covid-19. Parla il prof. Spagnolo

Alessia Amore

Terapia intensiva, consenso informato e sperimentazioni in situazioni di emergenza non solo da punto di vista sanitario, ma anche bioetico. Alessia Amore, avvocato e bioeticista, ha intervistato per Formiche.net il professor Antonio Gioacchino Spagnolo, coordinatore della sezione di Bioetica e Medical Humanities del Dipartimento di Sicurezza e Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma

Se qualcuno inizialmente aveva sottovalutato il pericolo ora lo stato di emergenza è chiaro a tutti. Le terapie intensive degli ospedali si stanno affollando. Molte strutture stanno trasformando o creando altri reparti dedicati al Covid-19. Non ci sarà posto per tutti. Il problema è scegliere chi curare.

È di qualche giorno fa la pubblicazione delle raccomandazioni di etica clinica della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti). Stabiliscono di privilegiare “la maggior speranza di vita”

tra chi deve essere ricoverato in terapia intensiva, in uno squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive.

Professor Spagnolo, concorda con questa scelta? Oppure esistono altri principi etici da applicare in situazioni di emergenza, vista l’impossibilità di curare tutti nello stesso modo?

Lo hanno chiamato il “dilemma dell’ultimo letto” (the last bed dilemma) per indicare le problematiche che insorgono quando in mancanza di sufficienti risorse i medici devono “scegliere i pazienti” (di solito sono i pazienti che scelgono i medici) cioè devono definire le priorità per l’utilizzo delle risorse affinché si possano coniugare il principio terapeutico e il principio di giustizia.

Si tratta della procedura del triage, che normalmente viene svolta in pronto soccorso ma che diventa particolarmente rilevante quando la scelta implica che alcune persone non verranno trattate perché non rientranti nei criteri definiti di allocazione delle risorse, con la conseguente morte del paziente. Le linee guida della Siaarti dipingono uno scenario di guerra, dove appunto è nato il triage, e che rappresenterebbe la estrema e peggiore delle ipotesi a cui questa epidemia potrebbe portarci.

È una prospettiva che può verificarsi ma che forse avrebbe potuto essere meglio comunicata, rappresentando di fatto una posizione che anche in situazioni di emergenza riprende il concetto della proporzionalità dei trattamenti. Di fronte a questo dilemma i vari autori che hanno riflettuto sulla questione nell’ambito di quella che è chiamata la medicina dei disastri o delle catastrofi (il Consiglio d’Europa aveva pubblicato già nel 2002 un bel manuale di Etica di fronte alle varie situazioni che si potevano presentare nelle catastrofi, manuale al quale aveva collaborato il mio compianto maestro Elio Sgreccia), hanno considerato due opzioni che si potevano prendere in considerazione: può essere privilegiato il criterio della temporalità offrendo le cure a chi è giunto prima all’osservazione del medico (first come, first served), oppure un criterio prognostico, riservando le risorse disponibili a chi se ne può giovare maggiormente avendo più possibilità di essere salvato. Nel primo caso si evidenzia in modo chiaro la dedizione del medico ad ogni paziente che si trova nella situazione di bisogno e a cui offre tutte le risorse disponibili.

106 Talvolta però non essendoci la necessità di destinare la risorsa ad altri che ne avrebbero bisogno si può cadere nella tentazione di prolungare senza una reale giustificazione i trattamenti, configurando così una ostinazione irragionevole a continuarli, cosa che sarebbe eticamente negativa dal punto di vista etico-deontologico e anche legale secondo la legge 219/2017.

Nel secondo caso il medico fa i conti con le risorse disponibili ed è più impegnato a identificare subito la sproporzionalità del continuare un trattamento affinché della risorsa si possa avvantaggiare un paziente che ne ha le caratteristiche cliniche. Il che non vuol dire sottrarla ad un altro ma decidere che per l’altro non è più proporzionata. Dunque la questione è proprio quella di identificare la proporzionalità/sproporzionalità dei trattamenti in cui però non si possono definire a priori criteri come l’età, la posizione sociale o altri criteri arbitrari: la valutazione dovrò essere fatta al letto del paziente, nella singolarità del caso. Ecco perché la consulenza di etica clinica può apportare un contributo al medico che deve prendere le decisioni sostenendolo in questa scelta.

Alcuni pazienti affetti da coronavirus vengono curati con farmaci ancora in sperimentazione o con farmaci previsti per altre indicazioni terapeutiche. Attraverso il cosiddetto uso compassionevole, l’azienda produttrice può dispensare gratuitamente il farmaco se lo stesso sembri mostrare delle evidenze importanti durante la sperimentazione in corso. Oppure, con un utilizzo off label, può essere somministrato un farmaco al di fuori delle indicazioni previste. In questi casi non si tratta di pratica clinica ma di mettere in atto misure particolari nel caso in cui i farmaci a disposizione non mostrano effetti positivi. Il paziente di fatto entra in una sorta di regime sperimentale. Ma se quel paziente è in stato di incoscienza? Chi dovrebbe firmare il consenso informato? Basta un assenso di un familiare e un consenso differito nel tempo? I Comitati Etici servono a garantire la sicurezza del paziente sottoposto ad una sperimentazione ma non ci sono linee guida uniformi, né la normativa appare chiara.

Lei che è vicepresidente di un Comitato Etico come procede in questi casi?

Occorre distinguere l’uso compassionevole (che è meglio chiamare uso terapeutico di farmaco sperimentale) dall’uso off-label. Nel primo caso si tratta di farmaci che sono ancora in sperimentazione o hanno completato la sperimentazione clinica ma che ancora non sono in commercio e dunque non utilizzabili nel vasto pubblico per la patologia per cui sono stati sperimentati.

Nel secondo caso si tratta di farmaci che sono già in commercio ma con un’altra indicazione clinica e sono ritenuti dai medici utili (in base a case report o a studi preliminari) anche in situazione diverse da quelle per cui sono registrati. In entrambi i casi, e per situazioni motivate e urgenti, è utile ed etico “provarli” come anche affermato dalla Dichiarazione di Helsinki e in questo caso i Comitati etici hanno il dovere di riunirsi al più presto per esprimere il parere su tali richieste da parte dei medici per i loro singoli pazienti. Naturalmente, tutti i criteri etici devono essere salvaguardati anche in questo caso come nelle situazioni di sperimentazione

Nel secondo caso si tratta di farmaci che sono già in commercio ma con un’altra indicazione clinica e sono ritenuti dai medici utili (in base a case report o a studi preliminari) anche in situazione diverse da quelle per cui sono registrati. In entrambi i casi, e per situazioni motivate e urgenti, è utile ed etico “provarli” come anche affermato dalla Dichiarazione di Helsinki e in questo caso i Comitati etici hanno il dovere di riunirsi al più presto per esprimere il parere su tali richieste da parte dei medici per i loro singoli pazienti. Naturalmente, tutti i criteri etici devono essere salvaguardati anche in questo caso come nelle situazioni di sperimentazione