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Excursus: l’oggetto inerte e il cadavere, riflessione sul significato

Nel contesto generale della natura morta e dei suoi sottogeneri, c’è un particolare genere che si ritaglia uno spazio peculiare e di successo, una natura morta che presenta degli elementi tipici che la fanno identificare come la rappresentazione visiva del motto biblico “Tutto è vanità come un soffio di vento: vanità, vanità, tutto è vanità”29: la candela spenta, il libro, la clessidra e soprattutto il teschio

fanno acquisire a queste tele il nome generico di vanitas.

Sarebbe un errore pensare che gli oggetti che troviamo nelle vanitas siano solo pittorici: in realtà, come ricorda Philippe Ariès, già dal Quattrocento i letterati e gli uomini colti amavano avere nei luoghi della loro vita privata (nello studio, in camera) anche oggetti che ricordassero loro la vanità e l’insignificanza del tutto, della vita mondana, del potere e delle sue lusinghe, del piacere terreno. Oggetti e pitture che Ariès scompone in composizioni di due parti, una anedottica, che rappresenta il tema, e una simbolica che richiama il significato degli elementi attivi della disfatta, il tempo e la morte e che temporalmente vengono a insediarsi nei luoghi del tempo profano degli uomini - i luoghi quotidiani - travasandosi dai loro luoghi originari (“i muri delle chiese e degli ossari, le tombe, i libri d’ore” dice Aries) . Questo spostamento tra luoghi confinanti ha anche un significato estetico e iconologico:

Passando dalla chiesa e dal cimitero alla casa il macabro ha mutato forma e significato. Il fine del tema macabro non è più di svelare il lavoro sotterraneo della corruzione. Così l’orrido cadavere roso dai vermi, straziato dai serpenti e dai rospi, è stato sostituito dal bello scheletro pulito e spendente, la morte secca con cui ancora oggi giuo-

cano i bambini, in Italia il giorno dei morti, in Messico sempre. Non fa altrettanto paura, non ha l’aria così torva. . . . Nel Cinque-Seicento lo scheletro è finis vitae, un semplice agente della Provvidenza oggi, della natura domani.30

Il luogo del macabro non è più, o solo, la cripta umida che nasconde i resti della santità, resti comunque naturali e destinati al naturale disfacimento biologico - appena nascosto dalle pesanti tombe di pietra - ma anche nello studio, nella ca- mera, nella sala da pranzo appeso ad una parete. Solo che ora è secco, il processo di decomposizione è ormai finito raggiungendo un punto in cui la materia viva ha lasciato solo una forma. L’osso, lo scheletro non maggiormente decomponibile, ha raggiunto lo status di oggetto: il decadenza delle carni rappresenta ancora un processo di trasformazione, un mutamento, e per questo è possibile ravvisarvi ancora della vita, seppur sempre più debole e avviata a scomparire. Lo scheletro, l’osso in generale, sono invece il punto fermo che segnala la fine del processo, so- no la tappa conclusiva e destinati a perdurare nel tempo praticamente immutati, almeno nelle loro caratteristiche principali. Questo perdurare, il fatto che venga loro concessa una durata, il loro essere privi di vita, li accomuna agli oggetti, alle cose, con in più il fatto di consevare le tracce della vita trascorsa, avendone un tempo fatto parte a pieno titolo. L’osso è per questo un oggetto inanimato, ma vibrante di una vita passata di cui non può non essere testimone.

Anche in Augé troviamo dei parallelismo tra la materie inerte, bruta, inanimata e il cadavere all’interno di un sistema simbolico:

Il corpo sarebbe allora nello stesso tempo la materia e la forma del simbolismo poiché è una materia in divenire o, se si vuole, in vita. Mai

30P. Ariès, L’Homme devant la Mort, Seuil, Paris, 1977. Edizione italiana, tradotta da Maria

Garin, L’Uomo e la Morte dal Medioevo ad oggi, Laterza, Roma-Bari, 1985, pagina 378 e seguenti.

così materiale (e perciò può essere sottoposto a dissezione e autopsia) come quando è morto.31

La materia e il corpo ormai morto (soma) si trovano ormai sullo stesso piano: finito il tempo della vita, fermatosi il divenire del corpo vivo, la stasi cristallizza ciò che rimane e lo trasforma in cosa, in oggetto. Nella natura morta abbiamo un esempio di questa trasformazione nella raffigurazione tradizionale del teschio, nei quadri che comunemente vengono chiamati Vanitas (nelle pagine precedenti32

abbiamo già riferito del teschio come un elemento a confine tra l’umano e il non umano). Il teschio presenta infatti un’origine inequivocabilmente umana, anzi, ciò che più è umano e individuale, poiché il teschio in vita racchiude (e con ciò ricorda) il cervello - principio interno dell’individualità - ed espone il viso - principio esterno dell’individualità. E tra gli elementi corporei più importanti, anche a livello simbolico, è quello che ha maggiori possibilità di permanere nel tempo, al contrario dunque di cuore, cervello, fegato etc., organi di fondamentale importanza biologica e simbolica, ma che hanno una durata limitatissima una volta che il corpo di cui fanno parte si avvia alla decomposizione. Il teschio unisce la capacità di perdurare nel tempo al significato spirituale e individuale della vita. Il teschio è ciò che rimane dell’individualità dell’uomo una volta che questa biologicamente si è dissolta.

Ma il teschio che entra nello spazio pittorico della nella pittura di natura morta, è ancora un residuo di un corpo vivente o è già diventato un oggetto inerte, una cosa bruta sottratta al tempo della vita? Potremmo forse dire che, alla luce di quanto abbiamo visto, il teschio appartenga ad entrambi i campi, quello della vita e quello dell’inanimato, e per questo possa parlare il linguaggio di entrambi così da svolgere - anche linguisticamente - la funzione di ponte tra i

31M. Augé, Il Dio Oggetto, cit., pagina 106. 32Si veda il capitolo I.

due. Il teschio a volte è rappresentato completo delle sue parti e ben installato nel dispositivo pittorico; talvolta invece è disarticolato, la mandibola è scomposta o assente (fino ad arrivare al caso limite del teschio nascosto sotto forma di macchia nell’anamorfismo presente nei Due Ambasciatori di Holbein): un oggetto che quindi si fa riconoscere anche quando è celato e investe il quadro intero con un aurea pecualire, quasi la sua presenza introducesse un metasignificato generale, o più semplicemente, fungesse esso solo da principio unificatore per la comprensione del quadro.

Sembra quindi che nella lettura della vanitas intervenga un ulteriore livello di senso che si aggangia direttamente ad un contesto religioso che provvede a costruire un orizzonte significativo adatto alla lettura dell’opera. Questo contatto diretto è alla base della lettura delle vanitas proposta da Fabbri:

Se l’esatta bellezza degli oggetti è pensata, ad esempio, come Va- nitas è perché, in una certa cultura religiosa, le cose del creato man- cano di una realtà che risiede nelle entità immateriali di un mondo trascendente. In questo “cogito della Vanitas” (Marin 1990, p.28) la rappresentazione più naturalistica spetta alle cose dotate di un senso minore di realtà. Ma quando questa antifrasi viene meno, lo splen- dore delle apparenze si conventirà in elogio dell’esatta bellezza del mondo reale. I sensi, primi operatori di illusione, si convertono in un dispositivo sincretico e fedele di verità concreta.33

In questo passo viene riproposta la natura morta - nello specifico le vanitas - come elemento di risalto della differenziazione fra i due mondi, quello sensibile e quello trascendente. La vanitas acquisisce senso in quanto mette in collegamento le due istanze, o meglio, in quanto nell’alveo di “una certa cultura religiosa” mette l’accento sull’esistenza di differenti piani ontologici che esigono forme di

rappresentazione diverse. Il mondo dell’ideale, dell’ al di là, del trascendente come può rappresentarsi in forme determinate, immanenti, corporee? Lo fa cercando di elevare la realtà degli uomini sul suo piano caricandola di ulteriori sensi. I tentativi di questo salto ontologico sono ben visibili nell’arte e sarebbe riduttivo limitarsi a dire che la lettura di significati trascendenti può essere decodificata attraverso cifrari simbolici. Infatti, è la stessa presenza del teschio - anche al di là di ogni possibile interpretazione iconologica - a conferire allo spazio pittorico la sua tonalità di fondo, il suo accento.

Il teschio dunque è un doppio anello di congiunzione: da una parte unisce or- ganico e inorganico - un inorganico che è stato un tempo organico -, dall’altra, in un contesto religioso (anche in senso lato) può unire trascendente e immanente in maniera biunivoca. Nell’ambito generale di quel fenomeno artistico conosciu- to come natura morta, la rappresentazione del teschio assume quindi un ruolo peculiare, quasi paradigmatico, indicando costantemente quanto siano labili e ar- bitrari i confini tra vivente e non vivente, tra organico e inorganico, tra vita e morte e - in ultima istanza - tra soggetto e oggetto.