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Mere cose, mere immagini

4.2 La descrizione come presentificazione

4.2.3 Mere cose, mere immagini

Se dunque già il termine (e il concetto) paesaggio indica sia l’oggetto che la sua rappresentazione, in maggior ragione in relazione al nostro oggetto di studio dobbiamo chiederci - insieme a Arthur Danto - cosa differenzia un’opera d’arte da una mera cosa? E in più, chiedersi in cosa l’opera e l’immagine si differenzi dal suo oggetto ci può permettere di chiarire alcune domande che la natura morta

può porre.

Nel primo capitolo di The Transfiguration of the Commonplace 42, il filosofo

americano cerca di fare un po’ di luce su questa questione che assilla la filosofia dell’arte fin dalla sua nascita, per porsi con ancora più forza nel corso del XX secolo tanto da entrare esplicitamente nella riflessione artistica stessa.

È interessante notare come Danto si ponga il problema della differenza tra un’opera d’arte (mimetica) ed uno specchio:

Quale fine si otterrebbe staccando delle apparenze dal mondo per farle apparire su una superficie riflettente?43

Qualsiasi mano accademica perderà il confronto, se la battaglia si gioca sulla capacità mimetica e l’avversario è uno specchio44. In realtà Danto propone di

pensare che lo specchio sia in realtà uno strumento di autorivelazione, cioè ri- fletta non tanto delle apparenze della realtà, quanto l’altro elemento di cui lo specchio ha bisogno: l’uomo che lo osserva, e che trae piacere (una qualche sorta di piacere estetico) nell’essere consapevole che ciò che l’opera d’arte presenta non è in realtà. In altre parole, la rappresentazione che viene conosciuta come tale - come costruzione fantasiosa ma che non trova una corrispondenza effettiva nella realtà - provoca una tipo di piacere del tutto particolare:

Parte del piacere è dovuta al fatto che ciò che percepiamo non sta accadendo veramente, e non dal fatto che dall’imitazione staremmo apprendendo qualcosa, come sostiene Aristotele[...]45.

42A. Danto, The Transfiguration of the Commonplace. A philosophy of art, Harvard Uni-

versity Press, Cambridge (Mass.)-London 1981. Edizione italiana a cura di S. Velotti, La Trasfigurazionde del Banale. Una filosofia dell’arte, Laterza. Roma-Bari, 2008.

43A. Danto, La Trasfigurazione... , cit., edizione italiana, pagina 12-13.

44Specchio (o gioco di specchi) che si può anche costruire in modo da non incappare nella limi-

tazione di offrire solo un’immagine rovesciata specularmente. Tra l’altro, questa obiezione è rafforzata oggi dalla possibilità tecnica di catturare immagini della realtà che vanno ben oltre le capacità dell’occhio umano (nel visibile, oltre il visibile e anche nella rapprensentazione delle tre dimensioni).

E per questo la capacità di separare l’imitazione dal suo riferimento, la fantasia dal reale, deve essere data come presupposto del piacere estetico che il fruitore prova mentre staziona davanti l’opera, osservandola. Anche ammessa le difficoltà - epistemologica, filosofica, gnoseologica - di accertare una netta linea di separa- zione tra ciò che è al mondo (nel linguaggio di Danto, semplicemente ciò che è e che sembra essere definito come ciò che rende possibile la costruzione di regolari- tà, leggi di natura, di una scienza plausibile) e ciò che non lo è (ciò che quindi non esiste e che non renderebbe possibile una scienza delle regolarità di natura - per esempio le metamorfosi e le trasformazioni irregolari nel mondo onirico), anche ammessa questa difficoltà le mere cose non appaiono più tanto mere quando ven- gono messe davanti alla loro rappresentazione mimetica, tanto più che il concetto stesso di rappresentazione viene svolto da Danto nella sua ambiguità di fondo. Da una parte, rappresentare significa ri-presentificare, cioè rendere presente ciò che non lo è, dall’altra significa porre qualcosa al posto di un’altra, pur facendone (imitandone) ruolo e funzione. Da una parte, quella che Danto chiama appari- zione mistica, dall’altra la rappresentazione simbolica46. Nonostante “la distanza

abissale” che Danto vede tra le due forme della rappresentazione, c’è una cosa che le accumuna: entrambe sono un’apparenza. La prima richiama il senso di apparenza nei termini in cui ogni cosa che è appare necessariamente: “è la cosa stessa che appare”. Nel secondo senso invece la rappresentazione richiama il senso più spregiativo del termine, per cui l’apparenza si contrappone all’esistenza della cosa in realtà (appare sì, ma non è - o per lo meno non è come appare). Ovvia- mente ciò presuppone una scala gerarchica di valori per cui, platonicamente, la rappresentazione intesa come l’apparire di ciò che non è presente in realtà viene indicata come momento surrettizio, falso nel suo presentare agli occhi ciò che gli

46L’esempio richiamato da Danto in queste pagine è quello della lettura nietzschiana della

trasformazione dei riti orgiistici dionisiaci, che passano dal richiamare la presenza effettiva del Dio tra gli adepti alla gestione simbolica di questa presenza attraverso un surrogato che ne fa le veci. Si vedano pagine 24-25.

occhi non dovrebbero vedere.

Poiché al giudizio di valore corrisponde un giudizio di dover essere che funge da modello di riferimento, il secondo senso della rappresentazione - quello spre- giativo in quanto produttrice di “mere immagini”47 - si trova ad essere accusato

finanche di falsità poiché infrange il modello costitutivo che si è posto a base della realtà. I sogni - carichi di momenti metamorfici, oltrepassando ogni vincolo spaziale e temporale, e anche quello dell’identità del sé e delle cose con loro stesse - non possono far parte del modello costitutivo poiché irrompono introducendo uno spazio di discontinuità, di irregolarità su un corso della natura che il modello costitutivo fondamentale vuole regolare. Per Danto è palese la distinzione tra ciò che appartiene a questo modello e ciò che invece lo vuole infrangere e, con un giudizio valoriale che pone all’estremo positivo il mondo costruito da questo modello, necessariamente il mondo del sogno, o meglio, il mondo dei contenuti del sogno viene degradato come residuale e - perciò stesso - falso. Interessante è l’attribuzione di falsità a queste rappresentazioni, che si configurano come de- notazioni: la differenza che separa il referente dalla sua mimesi è una distanza ontologica e l’errore può accadere quando l’osservatore confonde i due piani - quindi credendo che l’essere rappresentato sia in realtà (quando non è) o non sia in realtà (quando invece è). Un modello di principio di non contraddizione che si basa sull’assuzione che ciò che è immaginato (anche se dipinto o raccontato) sia ontologicamente separato da ciò che in realtà è oggetto di esperienza quotidiana. La contraddizione avviene quando i due piani vengono confusi e a quel punto la conoscenza si arresta di fronte all’errore. Per questo l’opera d’arte mimetica viene racchiusa in entro una cornice48 facilmente riconoscibile dallo spettatore e

47A. Danto, ibidem, pagina 26.

48Cornice vera e propria nel caso dei quadri, ma hanno la stessa funzione le quinte e il palco-

scenico per il teatro, il piedistallo per la statua e così via. In senso lato, potremmo dire che anche la scultura rinascimentale classicheggiante - annullando i colori per lasciare emergere il bianco del marmo - voglia segnalare l’anti-mimeticità delle sue creazioni.

per questo ricosciuta come opera:

l’arte mimetica fallisce quando ha successo, quando cioè riesce a essere come la vita.

Come si è ripetuto anche nelle pagine precedenti, l’immagine completamente mi- metica è lontanta dall’arte, come dalla vita. Non riesce ad essere completamente arte, poiché non contiene quel momento di libertà, di eccedenza di senso, di svi- luppo del pensiero e delle emozioni che caratterizza l’arte. Non riesce ad essere vita poiché è solo un’immagine e non la cosa che invece compartecipa al mondo della vita entrando in relazione con le altre cose (tramite l’uomo). La natura morta è così mimetica da perdere lo statuto di genere artistico?