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faber: Furio ritiene che un poeta non debba valutare un altro poeta, e che, in

III 16 Interea baculo nixus se limine:

50. faber: Furio ritiene che un poeta non debba valutare un altro poeta, e che, in

generale, non ci sia equità di giudizio tra persone che praticano lo stesso mestiere. Il discorso di Furio ha carattere letterario perché riprende Hes. Erga 25-26, che Pascoli traduce e commenta nel discorso Una sagra, ora in Prose, 171-172: «Non saranno giudici dei meriti d’uno scienziato quelli che professano la stessa scienza. Vi sembra forse assurda questa previsione? vi sembra strano il dire che ciò sarà bene? Rispondo interrogando: “Vi sembra così giusto e così naturale che il vasaio giudichi del vasaio e il fabbro del fabbro e il poeta del poeta?” Sin dai tempi remotissimi si riconobbe questo fatto di debolezza umana:

“Figulo a figulo è contro, col fabbro ha ruggine il fabbro, / L’ ha col pitocco il pitocco, ce l’ha con l’aedo l’aedo”.

Sono debolezze umane, ripeto; e tutti, se vogliono un consiglio sul medico da chiamare, per un esempio, sentono che è meglio che consultino un malato che sia tornato a salute, di quello che un altro medico. Noi siamo abbastanza equanimi quando si tratta di portare avanti e magari di glorificare quelli che sappiamo o crediamo nostri inferiori; ma quando si tratta di pari? quando si tratta di superiori? Eh! via: allora non ci sentiamo provvisti di tanta virtù, e ci sentiamo propensi con tutto il cuore, tanto da essere ingannati sulla vera natura del nostro sentimento, ci sentiamo propensi per il discreto ingegno e per l’attività discreta. Ma si dirà: “Codesto caso, di giudici che debbano giudicare ingegni superiori ad essi, è raro...” Oh! io vi dico che, sia o non sia raro, raro non deve essere. Sempre, in materia di scienza, deve darsi questo caso! Noi vediamo che il mondo progredisce. E il mondo non sarebbe progredito, se a mano a mano gli scolari non fossero stati migliori dei maestri». Altre parti di questo discorso (tenuto nel giugno 1900: «Quasi riecheggiando la tragedia di Allecto, nel giugno 1900 parlava in Una sagra agli

studenti universitari»)60 rispondono a temi trattati nei Sosii, e perciò se ne consiglia la lettura integrale.

52. peregrinus... hospes: peregrinus, che al v. 20 significa ‘straniero’, qui vale

‘estraneo alle cose di poesia’. Varo non è esperto di letteratura, né di librerie, e perciò si rivolge a quello che crede essere Bibaculo (v. 54: Si tamen es), per conoscere il prezzo del liber. Per peregrinus-hospes, cf. Cic. de orat. 1,218: fateor enim callidum quendam hunc et nulla in re tyronem ac rudem nec peregrinum et hospitem in agendo esse debere. Pascoli riprende inoltre questo modello al v. 84, e usa il termine tiro. Varo, come fosse a conoscenza delle parole con le quali Pascoli lo ha descritto (cf. v. 20: peregrinum civis oleret) si giustifica: «Sì sembro uno straniero, e, nelle cose di poesia, lo sono davvero». In questa maniera Pascoli intesse rapporti non solo con il lettore, come abbiamo già sottolineato, ma anche con i suoi personaggi.

55. iocos: Valgimigli 1951, 601 nota che in Tac. ann. 4,34 Bibaculo è citato come

autore di carmi ingiuriosi su Cesare ed Augusto: carmina Bibaculi et Catulli referta contumeliis Caesarum leguntur: sed ipse divus Iulius, ipse divus Augustus et tulere ista et reliquere, haud facile dixerim, moderatione magis an sapientia. namque spreta exolescunt: si irascare, adgnita videntur. Sono parole del discorso di Cremuzio Cordo davanti a Tiberio, in cui egli, relinquendae vitae certus, ricorda gli esempi di magnanimità di Cesare e Ottaviano nei confronti di storici e poeti dissenzienti, ovvero liberi. La formula Namque spreta exolescunt dovette colpire l’immaginazione di Pascoli, perché può essere usata come sigla per il discorso sulla caducità della fama letteraria che Bibaculo fa a Varo nei versi successivi. Altre notizie sulla fama di Bibaculo satirico si trovano in Quint. inst. 10,96: iambus non sane a Romanis celebratus est ut proprium opus, <sed> aliis quibusdam interpositus: cuius acerbitas in Catullo, Bibaculo, Horatio, quamquam illi epodos intervenit, reperiatur.

60

Cf. Vicinelli 1961, 611. Conosciamo la reazione al discorso di studenti e colleghi da una lettera di Pascoli a Ermenegildo Pistelli del 7 giugno 1900: «Ieri gran discorso... E parlai de’ concorsi: odia il vasaio etc. etc.; annacquai un po’ il bicchiere... per il rispetto dei presenti, ma ne dissi! Gli studenti applaudivano, ma i professori fremevano. Oh! potersi ritirare in campagna per sempre...» (Vannucci 1950, 183-184).

St!: Pascoli usa l’interiezione «con cui si comanda di tacere, dal carattere primitivo,

(e perciò usata spesso in Plauto ancora extra metrum) [che] è attestata nel latino arcaico e in Cicerone»61 e la sistema dopo /E/ finale di Caesare, con perfetto inserimento nella struttura sonora del verso (ricorda le frequenti aferesi di est). Questa interiezione si trova 4 volte nel Pascoli italiano, cf. Myr., Un rumore, 7: «St! un rumore...», il segmento di catena fonica /STUN/ riproduce con onomatopea il rumore sentito. Quattro in tutto le occorrenze dell’interiezione nei Carmina; Laur. 36-37: quaeSivere oculoS oculi digituSque labelliS / St ait impressus e Fan. Vac. 138-139: Silvas per omneS SibiluS Sonat leviS / St ! hinc et hillinc muSSitant triSteS aveS ne mostrano l’uso in contesti notevoli dal punto di vista sonoro. Le altre due occorrenze sono nei Sosii e quindi sono considerate in maniera più ampia nelle note. «St», perciò, in entrambe le lingue è usato come eccitante fonico-fonosimbolico e come elemento pregrammaticale-onomatopeico.

55-56. St! nec / istorum quemquam iam nec meminisse iuvat me:

l’interpretazione comune del passo è «Ssh! Non giova né a nessun altro ormai né a me il loro ricordo». Pasquali traduce: «Pss! ora non fa piacere ricordarsene, né agli altri, né a me». Gandiglio: «St! niuno ricordarsene or ama, e io nemmeno». In queste traduzioni si fa dipendere istorum (isti, o meno probabilmente ista neutro, si riferisce per certa regola a una parte del discorso dell’interlocutore) da meminisse. È però possibile considerare meminisse in senso assoluto, e istorum complemento di specificazione di quemquam, che, a sua volta, è riferito a iocos: «Shh! Ormai ricordare non aiuta né me, né nessuno di questi (versi)», versi che devono essere dimenticati per sempre. Se li si ricordasse, non ritornerebbero in voga, né conforterebbero la vecchiaia del loro autore. Quemquam, dunque, non servirebbe da contrappunto generico a me (non servono a nessuno... né a me), con il risultato di rendere più espressivo il testo. Questa interpretazione è vicina alla sensibilità pascoliana, che fa del recupero di ciò che è dimenticato (o morto) un tema centrale. Qui si avrebbe un ironico e amaro, rovesciamento del tema: «Queste cose è meglio se stanno sepolte».

61

meminisse iuvat: si trova in Ovidio, Stazio e Claudiano. Nei Carmina cf. Hymn.

Taur. 342, et meminisse iuvat patriaeque exsolvere votum, e AT, Extr. T. 48, nos haec meminisse iuvabit, che ha come modello Verg. Aen. 1,203, forsan et haec olim meminisse iuvabit. Negli abbozzi dei ff.5 e 12 si trova appunto il modello virgiliano: nec iuvat ipsum me nec mox meminisse iuvabita f.5 isti nec quemquam nec me meminisse iuvabit.b f.12.

57-64. praeterea... negitant: cf. Appendice 3, p. 164.