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57-64. praeterea... negitant: questi due termini racchiudono la sezione del poemetto

dedicata alla fama poetica. Pascoli concentra in questo punto l’attenzione sua e del lettore con una similitudine complessa, e illustra la differenza tra la ‘grande’ poesia e la poesia effimera. La similitudine è preparata da Pascoli con lo scambio di battute tra Pompeo e Furio (la stessa similitudine è affidata alle parole di Bibaculo): Varo ha appena chiesto a Bibaculo «Hic quanti liber est?», esprimendo il suo duplice dubbio sul prezzo del libro e sul valore dell’opera letteraria, mentre Bibaculo ha taciuto sul valore di Orazio e ha pregato Varo, che lo ha riconosciuto come autore di vecchi lazzi su Cesare, di dimenticare quelle poesiucole, perché di scarso valore letterario e pericolose per l’autore. Sono poesie morte. Detto questo, Bibaculo apre la similitudine con praeterea, nesso proprio dello stile didascalico (solo in Lucrezio 78 occorrenze in apertura di verso). La similitudine ha un valore particolare, perché è una rielaborazione pascoliana di un topos poetico longevo e fortunato, che confronta la generazione delle foglie e la vita degli uomini. La figura è già presente nell’epos omerico (Il. 6,145-149: Τυδεΐδη μεγάθυμε τί ἢ γενεὴν ἐρεείνεις; / οἵη περ φύλλων γενεὴ τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν. / φύλλα τὰ µέν τ᾿ ἄνεμος χαμάδις χέει, ἄλλα δέ θ᾿ ὕλη / τηλεθόωσα φύει, ἔαρος δ᾿ ἐπιγιγνεται ὥρη· / ὣς ἀνδρῶν γενεὴ ἣ µὲν φύει ἣ δ᾿ ἀπολήγει. «Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe? / Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini; / le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva / fiorente le nutre al tempo di primavera; / così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua (trad. Calzecchi Onesti)»; Sider 1996 indica il modello di Omero in un passo di Museo riportato da Clemente Alessandrino), e attraversa la storia della letteratura occidentale, quella greco-latina (Mimnermo, Simonide, Virgilio, Orazio; per Orazio Valgimigli 1951, 601 ricorda ars, 60: ut silvae foliis pronos mutantur in annos, prima cadunt), quella italiana, da Dante a Carducci, fino appunto a Pascoli, e infine quella europea (Shelley, Tjutčev, Rilke). La similitudine è rielaborata in chiave analogica dagli autori che la ereditano da Omero (il parallelo è tra la caducità della vita umana e quella delle foglie) fino a Bacchilide che, nell’epinicio III, propone per primo il contrasto tra l’inalterabilità della vegetazione e la corruttibilità dell’uomo. Il fenomeno naturale è ciclico, la vita umana lineare. Questa nuova interpretazione sta

alla base della visione di Leopardi (Cantico del gallo silvestre)107. Pascoli recupera il sistema analogico omerico108, ma ne offre un’interpretazione nuova: la similitudine, infatti, non è costruita sulla somiglianza tra foglie e uomini, ma su quella tra foglie e poeti. La specificità ‘dell’essere poeta’ riduce quindi lo spettro di confronto, ma ha anche valore tematico, perché piega la similitudine a una riflessione sulla poesia. La prima parte della comparazione pascoliana risponde tuttavia allo schema di quella omerica (della quale si noti l’equilibrata geometria chiastica): le vecchie foglie cadono, nuove foglie le sostituiscono, ma et ipsae / aevo peiores et tempestate futurae: la vicissitudine, in Pascoli, non si risolve nel ritmo di morte e rinascita109. Un ulteriore scarto rispetto alla tradizione è rappresentato dal doppio paragone che complica il secondo elemento della similitudine. Con un gioco di assonanze, Bibaculo scambia il termine poeta con boletus e rubeta, allo scopo di illuminare in maniera negativa i poeti, protagonisti di questo processo di rigenerazione (non sappiamo ancora chi essi siano). Boletus fa intendere come sia numerosa questa schiatta, che nasce dalla polvere dopo un temporale, mentre il gioco fonico con rubeta suggerisce che nell’intenzione di Bibaculo questi poeti, inutilmente numerosi, siano pure gracidanti. Il v. 63 racchiude la novità maggiore dell’espressione pascoliana. Il complemento logico del paragone – ovvero il fatto che le foglie vecchie cadono e che a primavera nascono quelle nuove – vorrebbe anche i poeti soggetti alla stesse legge di natura. Tuttavia, quella è una legge che vale per l’umanità in generale, non per i poeti della similitudine, sorti al principio di una

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Per la questione cf. Fantuzzi 1987, 101-110.

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Il motivo delle foglie è trattato anche nell’introduzione alla prima edizione di Lyra (1895, VIII): «L’uomo sente allora per quali misteriose fibre sia congiunto all’umanità che fu e a quella che sarà, e comincia a consolarsi non solo dell’esser nato come tanti altri, che morirono, ma anche del dover morire lasciando tanta parte di sé ad altri, che nasceranno. Due foglie dello stesso grande albero, a primavera, l’una, fogliolina gommosa e tenera che spunta dalla gemma, l’altra, vicina a lei, foglia accartocciata e scabra che si stacca dal nodo, se pensassero di essere e avessero la coscienza di appartenere all’albero, forse potrebbero sentire e pensare l’una di nascere e l’altra di morire? L’albero nasce e muore; gli uomini spuntano e si staccano, appariscono e spariscono: foglie, anch’essi, che sentono però di vivere della linfa di cui vissero le altre foglie che ingiallano, che marciscono, che si dissolverono a’ piedi dell’albero» (questo passaggio sarà poi ripreso nella prolusione all’incarico di Grammatica greca e latina all’Università di Bologna, pronunciata il 21 gennaio 1896).

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La polarizzazione sulla morte risalta se si indaga l’aggettivazione del termine ‘foglia’ nella poesia italiana di Pascoli. In un totale di 95 occorrenze (sostantivo + aggettivo), in 22 casi l’aggettivo è ‘secco’ e in 14 ‘morto’. Per i Carmina si sono esaminate le occorrenze di folium e frons: per folium (usato sempre al plurale) 7 ricorrenze su 10 hanno valore di ‘morto’, ‘secco’, ‘caduco’ (aridus e aridulus, tritus, proiectus, caducus). Per frons, usato al singolare e al plurale (al plurale ha il chiaro valore di ‘fronde’ o ‘frasche’ se usato in opposizione a folia), il risultato è diverso, poiché su 22 ricorrenze 5 rimandano all’autunno (veter, lapsus e lapsurus, caducus), mentre le altre riguardano la classificazione botanica (quernus, populeus), oppure hanno a che fare con l’alimentazione degli animali (opportuna, oblata) o con il loro riposo: frondes come giaciglio. Nella poesia latina civile non possono mancare aggettivi come perennis o memor, usati rispettivamente per il corbezzolo e l’acanto.

nuova stagione di poesia, vere novo (una ripresa dell’incipit del poemetto). I poeti (che sono dunque Virgilio e Orazio, come Bibaculo dirà qualche verso più in basso, irridendoli con i soprannomi Parthenias e Flaccidus) negano di essere sottoposti al ciclo della vita, negano quindi di poter morire, e soprattutto negano che possa svanire il ricordo della loro opera, così come, invece, andava svanendo il ricordo dei νεώτεροι compagni di Catullo, soppiantati dalla nuova generazione di geni. Questa eccezione è presentata in maniera mirabile e sintetica da Pascoli con un gioco di opposizioni temporali: in un solo verso trovano posto sunt, fuimus, fore, ovvero il presente – l’eterno presente della poesia augustea – che supera quello che è stato e che non avrà mai decadenza. Pascoli dunque recupera il materiale letterario della tradizione, richiamandosi addirittura a Omero, ma lo rinnova con una scelta mirata, garantendo alla similitudine uno spettro espressivo più ampio e moderno, pertinente al tema del poemetto. Il procedimento di selezione e riduzione di uno dei termini della similitudine è confermato dal confronto con una sezione di un poemetto italiano, N. Poem., I due alberi, II,1-15. Una delle ipotesi di datazione di questo carme lo colloca nel periodo in cui Pascoli attendeva ai Sosii110. In I due alberi il motivo centrale è quello della generazione delle foglie, trattato dall’autore in maniera analoga a quella appena considerata.

N. Poem., I due alberi, II,1-15 Viene col vento un canto di preghiera e di tristezza, e vanno via le foglie con lui, stridendo in mezzo alla bufera:

«Noi di noi siamo le fugaci spoglie: la nostra vita è sempre là dov’era.

Il vento in vano all’albero ci toglie: là rinverzicheremo a primavera».

Col vento via le vane foglie vanno; gemono, mentre intorno si fa sera.

«Non torneremo al rifiorir dell’anno: noi ce n’andiamo avvolte nell’oblìo.

Non fu la vita che un fugace inganno. L’albero è morto. Addio per sempre! Addio!»

È morto il giorno, ed anche muor la sera, ed anche muore il canto tristo e pio. E il cielo splende su la terra nera.

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Nei versi citati non c’è una similitudine, tuttavia è evidente come il quadro naturale si riferisca all’esperienza umana: le foglie parlano. Il motivo della rigenerazione viene presentato dapprima sotto una luce di speranza: «la nostra vita è sempre là dov’era» significa che il movimento della vita è circolare, e che quindi è garantito il perpetuarsi dell’energia vitale. Pascoli, che vuole esprimere il suo dubbio sulla garanzia universale di rinascita, opera una selezione, per smentire quello che si è affermato in precedenza e per chiarire che una legge generale non vale sempre per tutti. Virgilio e Orazio sono sottratti al declino della loro fama e all’opposto la rigenerazione non è garantita per tutti gli alberi. L’albero che ha perso le foglie nella stagione fredda non le rivedrà più sui suoi rami, perché è morto: nell’insieme rassicurante del regno vegetale, Pascoli ha scovato una tetra eccezione. Il procedimento è identico a quello operante nei Sosii, diverso è il senso della selezione, diretta all’annientamento e non all’eternità.

BIBLIOGRAFIA