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Nella seconda fase è necessario capire, rispetto all’altro culturalmente differente, quali siano “… i quadri di riferimento che conferiscono un senso ai suoi comportamenti ed alle sue richieste, nel tentativo di riconoscere la diversità per ciò che realmente è.”28 Ciò significa la necessità di decodificare le difficoltà degli operatori sociali nel comprendere i quadri di riferimenti dei migranti, che non sono necessariamente differenti da quelli degli altri utenti dei Servizi, ma che indubbiamente risultano più visibili, perché mettono in evidenza uno “…scarto sociale, culturale e linguistico…”29 ben più ampio rispetto alle persone autoctone. Le principali difficoltà riscontrate e analizzate e che, si ribadisce, non sono specifiche dell’utenza straniera perché possono riguardare qualsiasi tipologia di utenza, indipendentemente dalle origini, secondo l’autrice hanno a che vedere con:

la gestione della diversità quando il divario con la cultura dell’operatore è più ampia. Questa non è una difficoltà che si può superare solo o semplicisticamente con una formazione specifica sui contesti di origine dei migranti, per diverse ragioni. La prima è che le origini degli immigrati sono le più varie, ed è impensabile che gli operatori possano conoscere in maniera sufficiente le infinite caratteristiche socio-culturali di tutte le aree di provenienza al cui interno, peraltro, esistono ulteriori innumerevoli differenziazioni e meticciamenti; inoltre nei percorsi migratori le persone incrociano altre culture con cui si confrontano, spesso modificando le caratteristiche culturali originarie; infine va considerato che le persone cambiano anche nel momento in cui entrano in contatto con la cultura della società di accoglienza. Il concetto di «confini etnici» di Barth è illuminante, da questo punto di vista, perché chiarisce quanto i cosiddetti gruppi etnici siano continuamente soggetti a cambiamenti nella misura in cui entrano in contatto con altri; di conseguenza, l’identità etnica individuale è sempre unica in quanto, seppur provenienti da società tradizionali caratterizzate da nuclei piuttosto rigidi, nel processo di acculturazione legato al progetto migratorio le

27 Cohen-Emerique, M., op.cit., p. 149. 28 Ivi, p. 319. 29 Ivi, p. 320.

persone inevitabilmente vengono a contatto con società occidentali «moderne», che lasciano “…al singolo individuo un ampio margine di libertà per definire l’ultimo gradino della sua differenziazione rispetto agli altri gruppi con cui entra in relazione.”30 I corsi di formazione dovrebbero quindi trasmettere ai professionisti delle “…conoscenze che siano dinamiche, specifiche e sistematizzate, per evitare di percepire l’altro come una copia standard di una cultura di origine monolitica, relegandolo in un’identità imposta e immutabile che non gli lascia alcuna possibilità di scelta.”31

la scarsa attenzione che gli operatori hanno nei confronti dei dati di contesto e delle origini degli utenti. Questa «mancanza» può originare interpretazioni non adeguate, capaci di influenzare valutazioni e strategie di intervento non opportune. Si tratta di un problema diffuso, dovuto non alla mancanza di interesse o disponibilità dell’operatore, quanto piuttosto:

 alla preoccupazione di varcare i confini tra lo spazio pubblico e quello privato e di violare, in questo modo, l’intimità dei migranti (quando in realtà tale preoccupazione si potrebbe superare utilizzando le tecniche dell’ascolto attivo, dimostrando interesse e partecipazione empatica ai racconti delle persone);

 alla selezione e rifiuto dei dati di contesto, a causa o di un atteggiamento semplificatorio o perché i dati riportati risultano in contrasto coi valori della propria cultura (ed è questo il caso in cui nell’operatore sociale prevale il ruolo di controllo sociale piuttosto che quello di aiuto).32

la comunicazione. Corrisponde ad un problema linguistico, costituito dalla frequente mancanza di interpreti/traduttori presso i Servizi, e ciò spesso comporta la collaborazione con persone non idonee (parenti, a volte anche figli, che si trovano ad affrontare situazioni delicate, intime, delle persone che accompagnano), ma anche ad un problema di «modalità comunicative». Quest’ultimo aspetto riguarda, in particolare, uno degli assiomi della comunicazione umana secondo la Scuola di Palo Alto (Watzlawick e Hall) che distingue tra comunicazione analogica e digitale: la prima riguarda il linguaggio verbale, e la seconda quella dei segni, o delle immagini.33 Cohen-Emerique definisce la cultura a prevalente comunicazione digitale (più tipica delle società occidentali), a «basso contesto», mentre le culture a prevalente comunicazione analogica, ad «alto contesto». Gli operatori sociali e sanitari del mondo occidentale sono formati (nella loro formazione alla professione) ad

una comunicazione fondamentalmente digitale e pertanto, pur

inconsapevolmente, avranno sempre la tendenza a non cogliere, o a cogliere in

30 Ivi, p. 323. 31 Ibidem. 32 Ivi, pp. 323-329. 33

Watzlawick. P., Beavin, JH., Jackson, DD. (1971). La pragmatica della comunicazione umana. Roma: Astrolabio.

maniera limitata, l’infinità di stimoli provenienti dalle culture ad «alto contesto», sia nel corso dei colloqui (spazio principe per la comunicazione digitale), sia nel caso di visite domiciliari, ove i segnali provenienti dal contesto sono sempre più numerosi e ricchi di contenuto. 34

Un ulteriore problema legato alla comunicazione è quello dei cosiddetti vincoli istituzionali che definiscono, o quantomeno influenzano, l’operato dei professionisti del sociale. Il comportamento assunto dai singoli professionisti non ricalca mai completamente la modalità di approccio della cornice istituzionale nel quale lavorano, in quanto ogni operatore tende a interpretare in modo differente il quadro istituzionale, e questo significa che taluni vi aderiranno completamente, “…incapaci di decodificare l’alterità35…” altri non rileveranno proprio la diversità, e “…non riusciranno a cogliere le caratteristiche specifiche né a comprendere il ruolo che esse rivestono nei processi di integrazione.”36; altri ancora vorranno considerare la complessità legata alla diversità culturale, ma potrebbero essere accusati di attribuire alla differenza culturale ogni tipo di problema, “…nascondendo i problemi sociali all’origine delle difficoltà di adattamento.”37 È importante, a questo proposito, ricordare che quando le Istituzioni non adattano i propri modelli operativi alle tipologie di utenza di cui si occupano, rischiano di esercitare degli atti di discriminazione indiretta, anche se i loro operatori non manifestano esplicitamente delle intenzioni o degli atteggiamenti discriminanti.”38

Altri problemi legati al riconoscimento del quadro di riferimento dell’altro sono:

 la tendenza, da parte degli operatori, a «psicologizzare» ciò che rilevano dai comportamenti degli utenti, ossia a enfatizzare gli aspetti di sofferenza e di difficoltà delle persone, o comunque ad attribuire spiegazioni a fattori «interni» piuttosto che a quelli di contesto nell’interpretare i fatti o i comportamenti, peraltro utilizzando il proprio quadro di riferimento e riducendo le possibili diverse letture;

 la difficoltà dei professionisti a riconoscere il sistema di credenze e di rappresentazioni collettive che vengono riportate dalle persone straniere, che si possono comprendere esclusivamente attraverso il legame della persona con il suo contesto sociale, con la natura, in una dimensione a volte trascendente, come quella del pensiero magico;

 Il rifiuto da parte degli operatori alle spiegazioni fornite dall’utente di origine straniera, soprattutto se si tratta di attribuzioni di significato al cosiddetto «pensiero magico», perché considerate superstizioni, o spiegazioni non

34 Cohen-Emerique, op.cit., pp. 330-331. 35 Ivi, p. 333. 36 Ibidem. 37 Ibidem. 38 Ibidem.

razionali; è vero che tali credenze cozzano profondamente col pensiero razionale e scientifico occidentale, ma è altrettanto vero che le persone in questo modo si sentono rifiutate o disconfermate, e l’operatore sarà a sua volta non conosciuto nel suo ruolo di accompagnatore sociale o educativo.

In ultima analisi, è di fondamentale importanza, per riconoscere il quadro di riferimento dell’altro, che l’operatore eviti qualunque atteggiamento etnocentrico o di rifiuto dei contenuti portati dal migrante o dalla persona culturalmente differente e, al contrario, si renda sempre disponibile ad accogliere e comprendere i loro processi di attribuzione, attraverso una riflessione che dovrebbe essere realizzata nel percorso formativo del professionista, precedentemente al lavoro nei Servizi.

Infine, nell’analisi del quadro di riferimento dell’altro, è importante la comprensione da parte degli operatori delle dinamiche legate ai processi di acculturazione delle persone, conseguenza dell’esperienza di migrazione o dei processi di integrazione precedentemente vissuti nel caso delle minoranze culturali. Come abbiamo già visto nella prima parte di questa tesi, per acculturazione si intende quell’“…insieme di fenomeni che si verificano quando dei gruppi o degli individui entrano in contatto per la prima volta, in maniera prolungata, causando dei cambiamenti in uno o entrambi i gruppi (Redfield, Linton e Herskovits, 1936).”39; è anche definita come “…risultato di una molteplicità di microprocessi, invenzioni, imitazioni, apprendimenti, adattamenti che si verificano nei contesti in cui gli individui o i gruppi entrano in relazione […] (Bastide, 1963).”40 L’acculturazione non avviene mai in uno scambio alla pari, non è mai un processo neutro, ma è sempre costituito – anche al netto degli atteggiamenti colonialisti, da un confronto impari e dall’“…imposizione, più o meno forzata, di uno dei due codici.”41, in quanto è sempre la società di accoglienza che definisce il processo di cambiamento, e ogni persona costruisce un proprio percorso di acculturazione individuale, unendo il vecchio con il nuovo patrimonio di esperienze, di valori e di codici comportamentali. Spesso questo processo di acculturazione individuale non viene colto adeguatamente dagli operatori, che leggono gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone come incoerenti e confusi, e in quanto tali di difficile decodifica e, talvolta, anche mal tollerati. Effettivamente quello dell’acculturazione è un processo complesso, non lineare né coerente, è legato all’identità del migrante, che a sua volta è dinamica e complessa, ed è fondamentale nel processo di costruzione identitaria, spesso conflittuale, dei giovani di seconda generazione. La difficoltà degli operatori a comprendere queste complesse dinamiche può generare interpretazioni errate e, di conseguenza, può portare a giudizi di valore e valutazioni che avranno un peso nella relazione e nei successivi interventi sociali.

39 Ivi, p. 349. 40 Ibidem. 41 Ivi, p. 350.

L’operatore tende infatti a non considerare, erroneamente, tutti gli elementi che convergono nella complicata dinamica dell’acculturazione: ad esempio, tende a vedere il migrante come «ben integrato» quando raggiunge un buon livello di istruzione o un buon posto di lavoro, quando occupa uno status sociale elevato, quando è giovane ed è stato scolarizzato nel Paese di accoglienza, quando assume modalità di vita (abiti, atteggiamenti, costumi) occidentali, e così via. In realtà non si tiene sempre conto che, anche dietro queste espressioni estetiche, è necessario considerare che il processo di acculturazione include sempre conflitti, lacerazioni, ambivalenze, confronti dolorosi con altri membri della famiglia o della comunità di origine, che continuano ad esistere e ad avere una importanza fondamentale nell’identità della persona. L’operatore spesso è invece fuorviato da un’idea di acculturazione o di integrazione totalizzante, anche a causa di una inevitabile visione occidentale secondo cui “…la moderna evoluzione materiale dovuta al progresso tecnico comporti automaticamente un’evoluzione della mentalità verso la laicità e il pensiero razionale. Questo etnocentrismo cognitivo dimentica che «lo sviluppo tecnico non crea un sentimento di appartenenza; è un processo universale ma non ha né fisionomia, né sapore né pelle» (Debray, 2007).”42 I Servizi non devono sentirsi confrontati con le espressioni/stili di vita dei migranti, e magari vivere il riferimento alle culture di origine come un fallimento del loro operato, ma considerare ciò come una ricchezza delle persone che vivono identità complesse e dinamiche. Sempre rispetto all’acculturazione, esistono studi che dimostrano l’esistenza di importanti differenza nei processi di acculturazione, tra migranti per motivi economici (che si suppone abbiano operato una «scelta») e migranti cosiddetti forzati, molto più facilmente a rischio di crisi identitarie; tra migranti di prima o di seconda generazione, dove questi ultimi riescono tendenzialmente ad interiorizzare la nuova cultura più facilmente dei loro genitori che, invece, avevano cercato di trovare adattamenti al precedente stile di vita, modificandolo il meno possibile; esistono inoltre caratteristiche specifiche nelle dinamiche di acculturazione delle donne, costrette tra l’esigenza di mantenimento del patrimonio culturale della famiglia (la donna «custode delle radici»), e il bisogno di emancipazione. Infine, va considerata con molta attenzione ogni crisi dovuta alla percezione di «fallimento» del progetto migratorio, alla perdita del lavoro ed al protrarsi della disoccupazione, ad una malattia grave di un membro della famiglia, ad un lutto, ecc., momenti cioè che producono un cambiamento importante, causando la perdita del quadro di riferimento fondamentale. Queste situazioni possono far precipitare le persone in una condizione di marginalità, talvolta facilitata dalla prossimità ad altri gruppi di persone in difficoltà socio-economica (le politiche di integrazione spesso hanno favorito la concentrazione di questi gruppi negli stessi quartieri), con il risultato di creare “…processi di acculturazione caotici e l’esclusione dalle attività cittadine.”43

42

Ivi, p. 357.

La non conoscenza di queste variabili nell’acculturazione, può indurre gli operatori in grossolani errori di valutazione, ma soprattutto ad intervenire su un piano individuale o familiare, ipotizzando problematiche specifiche di quella persona o di quel nucleo; così come eventuali cambiamenti o isolamenti dal contesto, possono essere letti secondo un’ottica occidentale, non considerando l’intero contesto in cui queste situazioni si manifestano.

Ciò che viene richiesto ai professionisti sociali e sanitari, è di “…impegnarsi in un atto autoriflessivo”44, attraverso il concetto di «empatia interculturale», che Milton Bennett definisce “…il processo di immaginazione partecipativa in un’esperienza diversa […], quella che avviene in una cultura differente.”45 Si tratta di un’esperienza comunque difficile; pur tuttavia, “…più incontriamo persone di una cultura, con le quali possiamo empatizzare, più la nostra pratica diventa specifica.”46. Secondo il modello di Milton Bennett, vi sarebbero sei fasi fondamentali che stanno alla base dell’esperienza empatica, e che permettono quindi di entrare in contatto con il quadro di riferimento dell’altro: assumere la diversità, conoscersi, sospendere il sé, consentire l’immaginazione guidata, consentire l’esperienza empatica, ristabilire il sé.47

La possibilità di non comprendere il motivo del disagio, del malessere o semplicemente delle richieste delle persone di origine straniera può inficiare tutto il percorso successivo, comprese le prestazioni offerte dai Servizi sanitari; per questa ragione gli operatori “…dovrebbero essere formati a comprendere le altre culture attraverso cornici culturali generali per imparare a imparare […], ma allo stesso tempo dovrebbero essere in grado di dare forma a tale impalcatura di ipotesi da verificare attraverso informazioni specifiche culturali.”48 L’impegno degli operatori dovrebbe essere dunque quello di avere sempre in mente entrambi i poli del culturale generale e del culturale specifico, perché persone appartenenti allo stesso gruppo etnico, potrebbero comunque far riferimento a pratiche diverse tra di loro (non è detto, ad esempio, che tutti i cinesi utilizzino la medicina fitoterapica, riconosciuta come la più efficace da molti di loro). Esistono alcune dimensioni, in particolare, che nella comunicazione in ambito sociale e sanitario sono più rilevanti, e andrebbero sempre considerate e approfondite nel rapportarsi con persone di cultura diversa; si tratta de:

 I sistemi etnomedicali, ovvero “…l’insieme delle credenze e delle conoscenze su salute e malattia possedute dai membri di una cultura.”;

 La connessione mente-corpo, costituita dal tipo di rapporto tra stati psicologici, fisiologici e «sovrannaturali» nella definizione di salute e malattia;

44

Castiglioni, I. (2009). La differenza c’è. Gestire la diversità nell’organizzazione dei servizi. Milano: Franco Angeli, p. 58.

45 Ibidem. 46

Ibidem.

47

Castiglioni, I. (2005). La comunicazione interculturale: competenze e pratiche. Roma: Carocci, p. 108.

 Il ruolo della religione, che spesso ha un’influenza importante sui comportamenti, sugli stili di vita e, in particolare, sulla malattia;

 L’individualismo ed il collettivismo, che costituiscono un orientamento valoriale che mette al primo posto la persona a livello individuale o il gruppo di riferimento;

 Gli stili di comunicazione, “…che vengono appresi all’interno del contesto familiare e spesso prescindono dalla lingua che si sta parlando” sia a livello di comunicazione verbale che non verbale.49

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