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Le prime due fasi fanno emergere, nell’approccio alla diversità, un conflitto di valore, che nasce dall’incontro tra culture portatrici di valori differenti; la fase della negoziazione dovrebbe gestire questa diversità quando la distanza tra il modello della società di accoglienza e quello della persona portatrice di altra cultura è troppo grande e/o è fonte di conflitti.

Si tratta di una fase necessaria nell’ambito dell’operatività dei Servizi sociali, essendo quella che permette di aiutare gli utenti a trovare soluzioni efficaci ai problemi che vivono.

Alcuni autori – utilizzando altre terminologie per la definizione delle fasi dell’approccio interculturale - definiscono questo momento come «fase della coordinazione», con ciò indicando il passaggio “…attraverso il quale si perviene ad una sintonizzazione con l’altro (sul piano cognitivo e sociale) necessaria per muovere da una mera interazione sociale a un’integrazione (seppur non lineare, problematica e conflittuale) dei diversi punti di vista, delle strategie e delle pratiche…”50

Si tratta della fase più complessa, perché è quella che pone gli operatori dinanzi a dei dilemmi, da affrontare, molto spesso, in solitudine e quasi sempre senza un’adeguata formazione in merito, senza il sostegno dell’Istituzione di riferimento e, ancora, con la necessità di esperire una soluzione in tempi brevi e con poche risorse a disposizione.51 I dilemmi nascono dai conflitti di valore, comunemente definiti come “…elementi di giudizio che esprimono ciò che ha importanza. (Soonkindt, 2003)”52, e dal fatto che è necessario interrogarsi su quale comportamento si debba tenere o quale scelta si debba ritenere più idonea. Ciò ricade immediatamente nell’operatività dei Servizi, il cui mandato è quello di aiutare le persone a superare i momenti di difficoltà, ma

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Castiglioni, I. (2009), op.cit., pp. 69-72.

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D’Antone, A. (2014). La dimensione metodologica: i processi. Il conflitto: dal decentramento alla coordinazione. In Ellerani, P. (cur.). In Intercultura come progetto pedagogico (pp. 145-161), op.cit., p. 155.

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Cohen-Emerique, M., op.cit., pp. 381-382.

dentro una cornice di formazione professionale e soprattutto di impostazione istituzionale che corrisponde, normalmente, ai valori della società di accoglienza. Alcune società, consapevoli della portata dei dilemmi derivanti dai flussi migratori, hanno tentato di individuare delle possibili risposte: è il caso del Canada ove una legge, già nel 1985, introduceva il concetto di «accomodamenti ragionevoli», ed imponeva “…in caso di discriminazione […] di elaborare delle soluzioni ragionevoli per trovare un punto d’accordo…”53 “L’accomodamento ragionevole si fonda sui principi fondamentali di uguaglianza ed imparzialità. Ha l’obiettivo di contrastare alcune forme di discriminazione legate alla religione, alla disabilità, alla differenza di genere, ecc. […]. L’idea classica di uguaglianza, che si basa sul trattare tutti allo stesso modo, lascia spazio ad un altro pensiero, più attento alle differenze, che è alla base del dispositivo giuridico degli accomodamenti ragionevoli.”54 Il rapporto Bouchard-Taylor, del 2008, è il risultato di un lavoro in cui è stato affrontato – tramite una specifica Commissione - il malcontento che si sarebbe generato nella popolazione canadese sul concetto di accomodamento ragionevole; se ne sono approfonditi i contenuti ma soprattutto, considerando che l’ordinamento giuridico può occuparsi di una minima parte dei conflitti di valore, si è valutato come “…sviluppare una convivenza che si basi su un ideale di armonizzazione interculturale, che tenga in considerazione modalità e ritmi diversi. Il rapporto propone che la regolamentazione dei conflitti di valore […], possa basarsi su misure di convivenza interculturale elaborate dagli stessi soggetti interessati, appartenenti a enti locali, imprese o scuole, attraverso processi di negoziazione.”55 In questo caso la negoziazione, che viene posta in gioco in una seconda fase, assumerebbe il nome di «adattamento co-costruito»56

Il Consiglio d’Europa ha colto l’importanza del lavoro di riflessione e normativo realizzato in Canada e nel 2009 – a seguito dell’emanazione del Libro Bianco sul dialogo interculturale – ha promosso, in partenariato con il Governo del Quebec, una Conferenza dal titolo Interagire con la diversità per favorire la coesione sociale: contesti e riferimenti per adattare l’organizzazione e le competenze dei servizi sociali con le esigenze di una società plurale, nell’ambito della quale riconobbe che il rapporto stilato in Canada “…invita a riflettere sulla necessità di trovare delle soluzioni ai conflitti di valore, riconoscendo esplicitamente l’esistenza di controversie che è fondamentale «accomodare», risolvere e conciliare. Si tratta di problemi urgenti, di cui i Paesi occidentali hanno il dovere di interessarsi sia da un punto di vista ideologico che istituzionale, per non lasciare i professionisti disorientati di fronte a dilemmi etici destabilizzanti…”57

In particolare, questi dilemmi generano facilmente negli operatori una situazione di disagio interiore, che tendono a superare talvolta spronando “…gli utenti al

53 Ivi, p. 385. 54 Ivi, p. 386. 55 Ivi, pp. 386-387. 56 Ivi, p. 387. 57 Ivi, pp. 385-386.

cambiamento o, qualora esista una legge, di ricordarla e di farla applicare: la legge è giusta, stabilisce che i membri di una comunità sono tutti uguali e, per questo motivo, li tratta tutti allo stesso modo…(Soonkindt, 2003)”58, altre volte – in nome del relativismo culturale - accettando i valori ed i principi della comunità di riferimento. In entrambi i casi, tuttavia, gli operatori non rispettano il loro mandato professionale: quello di dare ascolto alle persone, nel primo caso, e quello di accompagnarle nei processi di integrazione attraverso una loro valorizzazione e riconoscimento delle proprie specificità culturali, nel secondo. Il relativismo culturale, peraltro, è considerato l’atteggiamento più pericoloso, stante la implicita negazione del valore della diversità, quello che “…evita di affrontare la questione dei conflitti di valore che nascono quando si vive assieme…(Selim Abou, 1981)”59 Una terza possibilità è data dal non assumere scelte o decisioni, ma ciò ricade nel lavoro successivo, quando il problema verrà riportato dalla stessa persona o da altri membri del nucleo familiare, magari con maggiore enfasi o urgenza.

La negoziazione – assieme alla mediazione culturale, che spesso la accompagna - prevede invece un dialogo alla pari, dove sia il professionista che l’utente si sentono ascoltati e rispettati, e dove l’obiettivo finale, condiviso, è quello di trovare insieme la soluzione al problema. Il «dialogo interculturale» diventa, a questo punto, l’aspetto centrale della negoziazione, inteso come “…dialogo dialogico, o dialogale […], un dialogo tra individui dove l’attenzione si sposta dall’argomento della conversazione a coloro che stanno parlando, è un dialogo che si trasforma in un luogo di condivisione e di scoperta reciproca, in cui i soggetti scoprono sé stessi attraverso l’altro. (Panikkar, 1984)”60

Naturalmente esistono delle pre-condizioni ad un percorso di negoziazione. Esse sono:

 la disponibilità di entrambi i soggetti ad avvicinarsi l’uno all’altro, accettando che ciò comporterà dei cambiamenti per entrambi;

 il riconoscimento, da parte di entrambi, dell’identità e del modo di pensare specifico dell’altro, attraverso il suo quadro di riferimento;

 il decentramento da parte di entrambi, rispetto ai propri modelli culturali più profondi e non solo a quelli più esteriori;

 uno scambio sincero, nel quale si possa esplicitare ciò che è implicito od opaco, chiarire i possibili malintesi, incomprensioni e fraintendimenti.61

Per l’operatore dei Servizi il dialogo interculturale, e quindi la negoziazione, potranno funzionare se avrà chiaro che si trova davanti ad un conflitto di valori tra il modello culturale da sé rappresentato e quello rappresentato invece dall’utente, e non un comportamento da modificare perché inadeguato «a priori»; se saprà riconoscere

58 Ivi, p. 387. 59 Ivi, p. 390. 60 Ivi, p. 398. 61 Ivi, pp. 398-399.

nell’altro una persona con cui relazionarsi alla pari, se sarà disponibile a modificare anche le proprie posizioni per andare incontro all’altro, e se saprà rendersi conto della disponibilità della persona a «prendere le distanze» da alcuni suoi aspetti culturali o se, viceversa, l’altro stia compiendo una sorta di rottura con la sua cultura di origine (cosa che potrebbe condurlo dentro un percorso di emarginazione sociale).62

Un altro aspetto fondamentale è che, a fronte di un grande sforzo compiuto dagli operatori dei Servizi, ci sia anche una volontà istituzionale e politica di andare nella medesima direzione, per evitare di vivere una sorta di «schiacciamento» tra i principi fondanti della professione e la vision istituzionale, che invece richiede efficientismo, produttività, attivazione degli utenti senza ulteriori supporti/accompagnamenti nella relazione di aiuto.

Perché la fase della negoziazione abbia successo, pertanto, è necessario promuovere attività di riflessione sui conflitti di valore riconosciuti, possibilmente in maniera congiunta tra il livello degli operatori e quello dei dirigenti, che possano interloquire con il mondo politico, per costruire assieme delle nuove “…piste di analisi e di azione. (Bouquet, 2003)”63, come suggerito anche dal Libro Bianco sul dialogo interculturale del Consiglio d’Europa, ormai oltre dieci anni fa.

In tale prospettiva, infatti, la Commissione in seguito istituita era finalizzata anche ad “…aiutare i Servizi sociali a non concentrarsi solo sugli interventi di assistenza ai migranti, di stimolarli a riflettere sull’importante ruolo [che essi hanno] nel più generale processo di «integrazione-interazione» con questi nuovi cittadini europei.”64 62 Ivi, pp. 401-404. 63 Ivi, pp. 406-407. 64 Ivi, p. 407.

Capitolo 3

LE PRATICHE PROFESSIONALI

NEI SERVIZI SOCIALI E SOCIO-SANITARI

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