• Non ci sono risultati.

Capitolo 4. La grande lite sul seggio dello Nzema unitario Riconfigurazion

4.1 La lite come “fatto sociale totale”

Abbiamo visto nei capitoli precedenti come le fonti d’archivio – sia quelle conser- vate presso gli archivi istituzionali, sia quelle dei Traditional Councils più recente- mente protagoniste di inediti processi di conservazione e patrimonializzazione – siano suscettibili di porre al centro dell’attenzione delle gerarchie tradizionali la sostenibilità e la consistenza di un articolato programma di ri-modulazione – se non di esplicita re-invenzione – dell’orizzonte storico locale. La loro presunta capacità di illuminare e dirimere le controversie derivanti dalla lacunosità e dalla contrad- dittorietà delle tradizioni orali è fondativa di una sorta di mitologia del documento scritto, il cui potenziale euristico sembra talvolta sopravanzare persino l’autorevo- lezza dei racconti degli anziani, che sono universalmente riconosciuti come i depo- sitari della conoscenza storica tramandata di generazione in generazione. Tale oc- correnza trova parziale spiegazione in una congerie di mutamenti storico-sociali che hanno ridefinito il potere tradizionale nzema dall’interno, attrezzandolo per il con- fronto con le economie globali e con la sfida dei processi di decentralizzazione del potere statale verso le periferie della Nazione.

Da quando ho iniziato le mie ricerche in Ghana, nel 2008, ho assistito mio malgrado alla dipartita di molti anziani capi e dignitari, rispettati e autorevoli. Protagonista dell’avvicendamento al vertice delle gerarchie tradizionali è una schiera di giovani capi, il cui statuto sembra differenziarsi da quello dei predecessori già a partire dalle logiche che ne hanno guidato l’elezione. Pur rimanendo la discendenza matrilineare all’interno del lignaggio reale il criterio guida per la selezione di un nuovo chief, è vieppiù importante che questi sia istruito e che sia abile nel guidare il dirottamento

di fondi nazionali e internazionali verso la sua area, in modo da garantirne lo svi- luppo economico. Fatalmente però, queste caratteristiche non sempre fanno il paio con una solida preparazione nei “fondamentali” della tradizione locale. I neo-eletti chiefs hanno spesso passato gran parte della loro vita in paesi stranieri, in Europa e negli Stati Uniti, dove si sono formati e hanno avviato percorsi di vita sensibilmente diversi da quelli di un giovane ghanese che non ha avuto una simile opportunità. Ciò li costringe, una volta tornati in patria e selezionati per un ruolo di spicco nella gerarchia tradizionale della loro area di origine, a re-imparare la storia degli antenati 1 e a “tradizionalizzare” il loro modus operandi, in modo da adattare le esperienze

e le conoscenze maturate negli anni passati lontani dal Ghana alle esigenze e alle

1 L’elezione di un chief nzema non è questione di facile e serena risoluzione. Alla morte, o in seguito

alla destituzione di un capo, i vertici della matrilinea reale si riuniscono per individuare una rosa di candidati adatti alla successione. È assolutamente raro che la matrilinea reale sia stanziata esclusiva- mente ed interamente nel villaggio di appartenenza; l’interazione tra le logiche della discendenza ma- trilineare e della residenza patrilocale innesca infatti la dispersione dei lignaggi in luoghi diversi, tal- volta in aree del Paese relativamente lontane dal centro in cui avrebbe avuto origine la discendenza. Accade così che con il passare delle generazioni si consolidi una struttura multipolare, che vede una matrilinea reale segmentarsi e stabilirsi in luoghi lontani da quello di origine. Questi vengono signifi- cativamente definiti nel gergo giudiziario doors, o gates, cioè le porte per accedere al seggio. La seg- mentazione della matrilinea produce inevitabilmente variabilità e differenze anche nelle tradizioni, in quanto ciascun lignaggio della matrilinea, pur potendo legittimamente ambire al seggio del villaggio di origine, sviluppa strutture di potere interne e tradizioni in parte autonome, che trovano sintesi solo nel remoto passato degli antenati, quando ancora non si era consumato lo spostamento delle donne del lignaggio a seguito dei rispettivi mariti nel quadro di politiche matrimoniali di alleanza con i vicini. Ma quando il chief verrà finalmente individuato ed eletto dai cosiddetti king-makers (primariamente la

bahema, queen mother, una sorella classificatoria del chief; e l’abusua kpanyinli, head of the family,

il capo della famiglia reale) egli dovrà essere rappresentativo dell’unità della matrilinea; dovrà, in altri termini, essere espressione di una storia comune, che ne legittimi la posizione di potere e l’azione di governo sul territorio del seggio. Per far sì che il futuro chief acquisisca le conoscenze richieste in ordine alla storia del suo seggio e della famiglia, egli è di norma costretto a una settimana di clausura forzata prima della cerimonia di enstoolment, durante la quale bahema, abusua kpanyinli e anziani della famiglia lo istruiscono sulla sua genealogia, sulla storia antica del seggio, sulle regole dell’ama-

muoo, la tradizione degli antichi, e sulle prerogative della sua posizione. Molti dei miei interlocutori

hanno tuttavia sottolineato il graduale declino di questa pratica. Secondo Solomon Amihere, fratello classificatorio di Annor Adjaye III, paramount chief della Western Nzema Traditional Area, nonché supplente abusua kpanyinli della famiglia reale fino al Novembre 2014, la pratica della clausura ha

aspettative locali legate alla nuova posizione di potere assunta nella struttura con- suetudinaria2. Se a ciò si aggiunge che tanto la formalizzazione scritta degli assetti basilari della società – sotto forma di contratti economici o di sentenze degli organi giudiziari – quanto il discorso pubblico sulla storia locale – sotto forma di pubbli- cazione di regesti delle fonti disponibili operate da intellettuali locali – hanno co- nosciuto negli ultimi decenni un deciso incremento grazie alla diffusione sempre più capillare della burocrazia statale e dell’istruzione anche nelle zone più remote del Paese, non stupisce affatto che il record scritto abbia assunto una rilevanza nuova e inedita agli occhi dei protagonisti della scena pubblica contemporanea. Ritengo tuttavia opportuno sbarazzare il campo dall’equivoco derivante da una let- tura lineare e oggettivista di questi fenomeni. Il fatto che l’informazione scritta ab- bia storicamente conquistato in area nzema un ruolo via via più centrale nella co- struzione del discorso storico non significa certamente che essa abbia sostituito in toto i saperi trasmessi oralmente, né che ne abbia definitivamente pregiudicato la rilevanza sociale e culturale. L’intero processo andrebbe letto non già nei termini di una graduale e inesorabile decadenza dell’oralità, quanto piuttosto in quelli più complessi di una continua e dinamica relazione tra le fonti scritte e le fonti orali, che consta di momenti di aperta contraddittorietà, di incolmabili lacune, ma anche di pratiche creative di reciproca appropriazione e riformulazione. Parrebbe d’altra parte erroneo inquadrare la questione istituendo una manichea opposizione tra i due tipi di fonti; sarebbe come negare il carattere costitutivamente ibrido e meticcio

perso larga parte della sua valenza educativa, in quanto la formazione del capo è di fatto affidata ai testi scritti e la clausura, molto meno rigida che in passato, è ridotta a due, massimo tre giorni (Intervista a Solomon Amihere, abusua kpanyinli della famiglia reale del paramount stool di Beyin. Beyin, 25 novembre 2014).

2 L’elezione di capi formatisi all’estero è solo una delle espressioni più recenti del protagonismo della

chieftaincy sulla scena politico-istituzionale, in Ghana (Odotei & Awedoba, 2006; Pavanello & Aria,

2012) come in altri paesi africani (Fokwang, 2009; Nyamnjoh, 2015). L’inserimento nei ranghi del potere consuetudinario di individui che hanno conosciuto i meccanismi dell’economia globale è parte di una strategia più ampia, che testimonia come la chieftaincy abbia saputo ridefinire in maniera effi- cace la sua centralità nei moderni stati africani postcoloniali proponendosi talvolta come operatrice dello sviluppo socio-economico, talaltra come elemento di mediazione nei processi di democratizza- zione della società.

delle fonti scritte africane e ghanesi in particolare, che nascono come espressione di una pratica governativa precoloniale e poi coloniale, il records keeping, ma as- sumono via via nel tempo i contorni di una produzione genuinamente africana, al- meno nella misura in cui racchiudono in sé storie, narrazioni e contesti che precipi- tano nella forma scritta a partire dalle tradizioni orali locali. Quandanche si volesse tenere fermo il fuoco sull’origine esogena delle pratiche di scrittura e sui meccani- smi di produzione delle fonti a seguito dell’“impatto” degli Europei con le entità politiche locali (con questo indugiando in maniera poco accorta, a mio parere, in una lettura che vorrebbe il mutamento culturale sostanzialmente eterodiretto nei contesti africani), non potremmo comunque fare a meno di interrogarci sul perché lo Nzema contemporaneo sia attraversato da costanti e poderosi movimenti di risi- gnificazione delle fonti storiche disponibili; sui motivi per cui, cioè, alcuni attori locali si dimostrano particolarmente abili nel selezionare, integrare e utilizzare tali fonti in vista del raggiungimento di obiettivi politici ed economici avvertiti come strategici.

Analizzando comparativamente i caratteri delle autorità tradizionali ghanesi e dei leader politici e culturali polinesiani, Pavanello e Aria (2012) rilevano come queste figure, pur nella diversità dei contesti di appartenenza, siano accomunate dalla

capacità carismatica di mediare tra due dimensioni forti della vita sociale, il politico e il sacro, e tra due condizioni della fruizione simbolica della cultura: la memoria, come campo di gestione conflittuale della storia, del patrimonio e della terra, e la sua proie- zione nel presente e nel futuro in una chiave decisamente politica». […] Nelle funzioni che questi mediatori svolgono ! i primi per una sorta di mandato legato alla supposta legittimità della loro posizione di potere; i secondi, in virtù di particolarissime qualità che vengono loro riconosciute secondo specifici processi di costruzione politica dell’identità – si condensano “in una sola volta, e di colpo”, usando la felice espres- sione maussiana del “fatto sociale totale”, autenticità e inautenticità delle tradizioni che incarnano; verità e finzione del potere che esercitano; realtà e irrealtà del potere magico delle operazioni sacrali e simboliche che, soli, hanno il potere e il dovere di compiere; verità e non verità della memoria storica di cui sono depositari ufficiali e su cui si fonda la loro legittimità, mettendo chiaramente in evidenza il ruolo creativo e generativo della tradizione (p. 340).

Per quanto riguarda il campo ghanese, che qui più direttamente ci interessa, l’agen- tività dei capi tradizionali come history-makers si esprime in massima misura nell’agone della lite. Essa rappresenta a un tempo la modalità formalizzata a livello del diritto consuetudinario di risoluzione dei conflitti interni a una data comunità e il mezzo per ristabilire l’ordine sociale turbato da un comportamento percepito come lesivo o scorretto. Può riguardare vicende di poco conto come questioni di più ampia portata; in ogni caso la sua risoluzione si estrinseca attraverso un iter giudiziale che da una parte fa appello alla capacità di discernimento del “vero” degli anziani e dei capi (che di norma compongono le commissioni di giudizio) e dall’al- tra chiama in causa le entità ultraterrene, dai numi tutelari di un villaggio o di un’in- tera area agli antenati, i quali sono esplicitamente chiamati a testimoniare la veridi- cità delle affermazioni delle parti in causa attraverso il rito preliminare della liba- gione (Pavanello, 2000). A suo modo la lite è essa stessa un “fatto sociale totale” (Pavanello, 2000, pp. 36; 237-245; 2003a), in quanto coordina su uno stesso piano di senso le dimensioni dell’economia locale, della storia e del rapporto con gli an- tenati; allestisce il setting ideale per la messa in scena del sapere storico tramandato oralmente attraverso le generazioni; e predispone le basi per la sua contestazione ed eventuale rielaborazione. Questi caratteri sono senz’altro già rintracciabili nella di- mensione puntuale delle piccole liti che nascono e si risolvono in breve tempo e senza un eccessivo inasprimento della contesa. Tuttavia, essi si arricchiscono di determinazioni di più ampio rilievo quando la lite coinvolge rappresentanti di alto livello del potere tradizionale, ovvero quando la posta in gioco è l’assetto dei poteri consuetudinari su scala territoriale ben più estesa di quella del singolo villaggio. In questi casi, inoltre, l’iter della lite può facilmente prolungarsi nel tempo e sconfi- nare in dimensioni istituzionali altre rispetto a quelle autogestite dalla chieftaincy, fino a giungere dinanzi al giudizio delle magistrature ordinarie dello Stato.

La grande lite sul seggio reale di Apollonia presenta in maniera paradigmatica tutte le caratteristiche sin qui elencate. Essa si costituisce primariamente come campo d’azione di una ristretta cerchia di capi tradizionali, alcuni di recente intronizza- zione, chiamati a produrre evidenze atte a legittimare la loro posizione di potere facendo riferimento, anche per mezzo di fonti d’archivio, alla storia degli antenati.

Essa si nutre poi di memorie genealogiche contrastanti e talvolta estremamente lacunose, e si costruisce retoricamente intorno al trauma della scissione del Regno unitario seguita alla deposizione del re Kaku Aka per mano degli Inglesi, nella seconda metà dell’Ottocento. Attraverso corsi e ricorsi giudiziari, la lite risulta attiva sin dai primi decenni del Novecento, e in questo lasso di tempo si è andata definendo come laboratorio della produzione di una storia alternativa, la cui defi- nitiva legittimazione avrebbe come conseguenza più evidente il radicale riassetto dei poteri tradizionali nell’intera area. Tuttavia, lungi dall’essere una disputa me- ramente storiografica, la grande lite affonda in maniera tentacolare le sue radici nelle strutture dell’economia e della società nzema contemporanee, mostrando in maniera chiara come la sanzione di storie e assetti di poteri nuovi per via giudi- ziaria possa essere funzionale al perseguimento di interessi economici, all’accre- scimento del potere politico e del prestigio sociale. Alla luce di queste brevi con- siderazioni, che via via argomenterò nel prosieguo del presente capitolo, ritengo che la lite sul seggio reale di Apollonia costituisca un osservatorio d’eccezione per analizzare i processi di produzione e patrimonializzazione della storia locale nel loro farsi. Più che costituire un elemento di indagine a sé stante, essa rappre- senta nella cornice della mia indagine un pretesto teorico e insieme metodologico per riflettere sulla rilevanza del discorso storico nell’arena politica tradizionale, ovvero per analizzare i caratteri dei processi di patrimonializzazione delle fonti cui io stesso ho contribuito attivando i progetti di digitalizzazione e valorizzazione degli archivi dei Traditional Councils descritti nel capitolo precedente. In fondo, proprio l’inverarsi di tali processi – che affondano le radici nell’esperienza della musealizzazione di Fort Apollonia e ancor prima nella parziale sistemazione dell’archivio del Western Nzema Traditional Council – offre una straordinaria oc- casione per leggere nella filigrana delle pratiche e delle retoriche messe in campo dagli attori coinvolti le determinazioni storiche ed etnografiche della grande lite; e per avanzare delle ipotesi rispetto all’impatto che la patrimonializzazione delle fonti scritte prodotte localmente potrebbe avere nella riformulazione dell’oriz- zonte storico dello Nzema contemporaneo.