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Capitolo 1. Storia di un museo senza storia Verso l’individuazione dell’oggetto

1.3 Temi e prospettive dell’etnografia italiana in area nzema

Il processo di valorizzazione culturale di Fort Apollonia è intimamente connesso – come avrò modo di esplicitare a breve – tanto con i contenuti quanto con le forme dell’etnografia prodotta dagli antropologi della MEIG in area nzema. Esso si è con- figurato nelle pratiche e nelle retoriche promosse dagli attori coinvolti come l’esito condiviso di un processo di negoziazione mirato a rappresentare negli allestimenti museografici le conoscenze prodotte dagli studiosi, e ha acquisito rilevanza politica proprio alla luce della relazione di lungo periodo che di quelle conoscenze è stata fondamento essenziale.

Ho già accennato a come il rapporto di Grottanelli e dei suoi colleghi con il contesto sia stato in qualche modo segnato dal fatto che Fort Apollonia abbia costituito in maniera continuativa il baricentro della loro vita quotidiana. Su un piano più stret- tamente scientifico, bisogna evidenziare che quella stagione di ricerca fu dedicata in maniera sistematica alla documentazione degli elementi considerati più pura- mente “tradizionali” e “ancestrali” della cultura nzema, adottando una prospettiva funzionalista in grado di inscriverli in una cornice di coerenza interna e di autosuf- ficienza epistemologica fondata sull’interrelazione sistemica tra i diversi elementi della società. Gli oggetti privilegiati di tale analisi furono la lingua locale (Cardona, 1973; 1977); il ciclo di vita dell’individuo (Cerulli, 1977); i modelli abitativi e di parentela (Signorini, 1973; 1974; 1977a; 1977b); lo statuto dei bambini nella so- cietà (Wade-Brown, 1977; 1989a); le forme dell’economia (Lanternari, 1972; 1974; 1977) e del religioso (Cerulli, 1963; 1973; Lanternari, 1978; 1988); il Kundum, il

festival annuale itinerante celebrato nell’area (Wade-Brown, 1982; 1989b); la stre- goneria, il rapporto con le entità ultraterrene e i suoi riverberi sull’ordine sociale (Grottanelli, 1967; 1969; 1974; 1976; 1978; 1988).

Le risultanze di quelle osservazioni etnografiche sono ancora oggi rintracciabili in filigrana nel contesto, a riprova della competente opera di raccolta e sistematizza- zione dei dati etnografici attuata in quegli anni. Le connessioni individuate dall’et- nografia classica degli Nzema tra fenomeni socio-culturali, pur programmatica- mente analizzati nella loro singolarità, si offrono oggi alla riflessione sulla storia della disciplina antropologica come esempio paradigmatico dell’analisi integrata e olistica di una società di interesse etnologico, come si usava definirla all’epoca; la qual cosa, in fin dei conti, costituiva l’obiettivo scientifico principale di larga parte delle tradizioni di studio in auge negli anni Cinquanta del secolo scorso. Tuttavia, alla luce delle critiche indirizzate al concetto di “osservazione partecipante” a par- tire dagli anni Settanta (Geertz, 1973; Tedlock, 1991); della radicale messa in di- scussione dei paradigmi che pretendevano di produrre etnografie scientificamente solide mediante il ricorso a strategie discorsive che enfatizzavano l’oggettività e la neutralità dell’osservazione (Rabinow, 1977; Clifford & Marcus, 1986; Marcus & Fischer, 1986); e del vivace dibattito teorico scaturito dal confronto tra discipline antropologiche e storiche in ordine ai regimi di spazialità e temporalità oggetto della ricerca (Le Goff, 1979; Héritier, 1981; Sahlins, 1985), l’etnografia prodotta dalla prima fase della MEIG non può che apparire oggi desueta e manchevole, almeno sotto due profili. In primo luogo essa non conferisce nelle scritture alcuna visibilità al ricercatore; tende piuttosto a espungerlo dal campo descritto e quindi, in ultima analisi, anche dalla riflessione di chi ne legge gli scritti. Sul piano epistemologico tale pratica nega sostanzialmente l’idea che l’etnografia germogli dalla continua negoziazione del senso della ricerca – che può essere caratterizzata anche da chiu- sure e reciproche incomprensioni – tra l’etnologo e i suoi interlocutori; e genera l’illusione che la scrittura etnografica consti di un’oggettività intrinseca e inaliena- bile, quindi di pressoché totale autorevolezza. In secondo luogo, essa sembra aver programmaticamente escluso dall’orizzonte dell’analisi le forme di ibridazione e le relazioni che storicamente avevano contribuito a plasmare il campo di ricerca. Ciò

ha contribuito a rafforzare la visione di un’area “esotica” e ancestrale, in cui le ca- tegorie di “tradizionale” e “autentico” ci appaiono oggi come un anacronistico con- trappunto a quelle dinamiche di lungo periodo che pure avevano indirizzato in ma- niera decisiva la strutturazione delle entità politiche locali (Baesjou, 1998; Valsecchi, 1999a; 2002).

Di converso, lo sguardo degli studiosi della seconda stagione della MEIG si foca- lizzò sin dall’inizio su temi e articolazioni della storia e della cultura locale che erano stati ignorati dai ricercatori della fase precedente. Inoltre, anche quando le nuove indagini si dipanarono in sostanziale continuità tematica con quelle prece- denti, esse poterono comunque far riferimento a rinnovati orizzonti teorici e meto- dologici. Non si è mai attutato dunque un re-study fine a se stesso; con le genera- zioni di studiosi sul campo si erano avvicendate anche le “convenzioni di verità”, per definizione contestuali nel tempo e nello spazio, quindi solo marginalmente ri- conducibili a quelle utilizzate in precedenza:

[…] il “ritorno” etnologico nello stesso terreno a tanta distanza di tempo, e dopo che di quel terreno è stata prodotta una etnografia, diciamo, “classica”, rappresenta, più che una continuazione, una vera e propria sfida insidiosa e difficile. Avere alle spalle una solida conoscenza etnografica, prodotta in un tempo storico definito e frutto di una specifica convenzione di verità, implica anche la responsabilità di dover decostruire quella convenzione senza rinunciare al patrimonio che essa rappresenta. (Pavanello, 1997-1998, pp. 178-179).

La sistematica decostruzione degli assunti epistemologici che avevano caratteriz- zato l’etnografia grottanelliana ha prodotto almeno due risultati rimarchevoli: da una parte ha problematizzato lo statuto del concetto di “tradizione” svestendolo del manto di fissità che lo aveva caratterizzato in precedenza e definendolo come arti- colazione insieme flessibile e mutevole della memoria, intimamente legata ai pro- cessi di costruzione, conservazione o contestazione dell’ordine sociopolitico del presente; in secondo luogo ha inserito il contesto in un quadro più ampio di relazioni diffuse e stratificate nel tempo e nello spazio, tanto con le entità politiche limitrofe, quanto con l’Occidente.

Tali innovazioni trovano variegata espressione in tutte le esperienze di ricerca rea- lizzate durante la nuova stagione della MEIG. Berardino Palumbo, arrivato in Ghana insieme a Pavanello nel 1989, rielaborò la teoria della parentela su cui aveva focalizzato il suo sguardo Signorini connettendola al funzionamento del sistema fondiario locale e inscrivendola in una più ampia e articolata analisi del dinamismo culturale di una società sempre più impegnata nella ridefinizione dei suoi asset eco- nomici e produttivi (1991a). Su un piano più marcatamente metodologico, in un saggio apparso sulla rivista L’Uomo nel 1991 lo studioso propose un’inedita lettura riflessiva del posizionamento del ricercatore sul campo, dedicando ampio spazio all’analisi degli interessi che gli “informatori” ereditati dalla prima fase promuove- vano nel gioco della relazione instaurata con i nuovi arrivati (1991b); per la prima volta nella lunga esperienza di ricerca della Missione nello Nzema, in questo con- tributo la tensione descrittivo-interpretativa della scrittura si incarica di evocare la complessità delle relazioni interpersonali e la consistenza delle aspettative recipro- che, derubricando dall’agenda del ricercatore l’annosa questione dell’oggettivismo reificante dell’osservazione e collocandolo in un campo di forze politiche all’in- terno del quale egli agisce da co-protagonista insieme ai suoi interlocutori. Questo programma scientifico fu ulteriormente sviluppato e raffinato in un saggio succes- sivo (1994), in cui la riflessione sulla natura retorica e strumentale dei racconti di fondazione raccolti presso gli anziani di due matrilignaggi del villaggio di Nge- lekazo (Western Nzema Traditional Area) si inscrive in un orizzonte analitico final- mente slargato, che prende a riferimento il corposo dibattito sui sistemi fondiari di altre aree del Ghana e del continente africano in generale (Hart, 1982; Arhin, 1984; Austin, 1987; Downs & Reyna, 1988; Mizzau, 1988; Okoth-Ogendo, 1989). Questo contributo è rappresentativo di una sensibilità alla ricerca che abbandona ogni vel- leità di reificazione dell’oggetto di indagine per sondare di converso le aporie, i conflitti latenti e le strategie di dissimulazione o legittimazione messe in campo dagli interlocutori nel farsi dell’incontro etnografico. Inoltre, per la prima volta esso pone, insieme alle indagini di Pavanello su cui tornerò più avanti, i temi relativi alla gestione della terra e agli usi della memoria genealogica – di cui le storie di fonda- zione sono una manifestazione emblematica – al vaglio di una sistematica e conti-

nuativa indagine etnografica. Come si vedrà, il graduale coinvolgimento del ricer- catore in dinamiche profondamente attive nella società costituirà una delle tappe fondamentali nel percorso di avvicinamento a un’ipotesi di patrimonializzazione di Fort Apollonia, che non ha rappresentato una forma fine a se stessa di restituzione etnografica, ma un evento dall’importante caratura politica nell’economia globale delle relazioni tra locali e antropologi.

Anche la riflessione sull’ampio dominio delle forme indigene di medicina tradizio- nale e di rapporto con le entità ultraterrene – che pure era stata assai presente nell’et- nografia precedente – venne sottoposta già a partire dagli anni Novanta a una pro- fonda critica. Se Grottanelli aveva speso un intero volume della monografia da lui curata per argomentare come i binomi salute/malattia e vita/morte costituissero la più autentica e credibile metafora del sistema di pensiero e dell’ordine sociale nzema, gli studi più recenti hanno mostrato come essi si definiscano in realtà nel costante lavorio di appropriazione e ribaltamento di immaginari esogeni da parte degli attori locali. Nella riflessione di Pino Schirripa, l’aggettivo “tradizionale” che accompagna la parola medicina tradisce la sua connotazione ideologica e diventa il luogo in cui prendono forma pratiche e rappresentazioni niente affatto esenti da “contaminazioni” con la biomedicina occidentale, nel quadro di politiche di rivita- lizzazione e armonizzazione delle pratiche terapeutiche autoctone attuate dal go- verno nazionale a scopi propagandistici (1998). D’altra parte, l’analisi delle moda- lità di trasmissione del potere spirituale, dentro e fuori il matrilignaggio (1995); dei percorsi di professionalizzazione dei guaritori; e delle strategie integrate di accesso a risorse terapeutiche differenziate a seconda delle patologie rende manifesta l’agentività del paziente e lo colloca all’interno di un sistema medico complesso e plurale (Schirripa & Zúniga-Valle, 2000; Schirripa, 2005), decostruendo al con- tempo la solida rappresentazione del sistema di credenze ontologicamente autosuf- ficiente che emerge dalle pagine di Grottanelli. Nell’ambito della critica serrata al concetto di “medicina tradizionale” e della graduale affermazione della più cauta locuzione di “saperi terapeutici”, altri contributi hanno, in anni più recenti, appli- cato queste nuove prospettive all’analisi dei mercati della farmacopea locale (Quarta, 2008), alla categorizzazione dei terapeuti (Gullà, 2008), alla tematizza- zione del rapporto tra categorie nosografiche e scelta dei percorsi terapeutici

(Vasconi, 2008) e alla ricostruzione delle tappe del riconoscimento istituzionale della medicina indigena (Vasconi & Owoahene-Acheampong, 2010).

Le esperienze di ricerca fin qui brevemente presentate hanno perseguito un preciso obiettivo programmatico, ossia il rovesciamento della rappresentazione essenzia- lizzante della marginalità e della immobilità dell’Africa precoloniale e coloniale, condannata a subire passivamente l’impatto di processi di modernizzazione indotti giocoforza dall’esterno. Il cambio di prospettiva ha fatto invece emergere le effer- vescenze e il dinamismo della società nzema, restituendole un ruolo centrale nei processi entro cui essa si è autodeterminata nel confronto/scontro con attori esterni, compreso l’Occidente bianco. A questo programma ha dato un contributo fonda- mentale anche la ricerca storiografica di Pierluigi Valsecchi, non istituzionalmente afferente alla Missione ma attivo negli stessi anni proprio nelle aree frequentate dagli antropologi italiani. La sua storiografia dello Nzema, disseminata in un nu- mero di articoli (1986; 1994; 1999a; 1999b; 2001) e quindi sistematizzata in una monografia (2002), restituisce l’immagine vivida di un contesto a geometrie varia- bili, che è stato in grado nel corso dei secoli di esprimere e riconfigurare le sue strutture di potere in relazione alla preponderanza di interessi economici, politici e militari di volta in volta cangianti. La ricerca di Valsecchi si distingue per il ricorso integrato a fonti archivistiche precoloniali e coloniali presenti negli archivi europei (segnatamente inglesi, francesi, olandesi, portoghesi e italiani) e ghanesi; a reso- conti di viaggio e cartografie; alla produzione di intellettuali e storici locali; e a fonti orali raccolte nel tentativo di conferire profondità e pregnanza storica alla “tradi- zione”, qui intesa come l’insieme dei «poderosi strumenti ideologici di auto-legit- timazione» localmente utilizzati per costruire retoricamente un’“identità nzema” e proiettarla, all’occorrenza, nel passato (Valsecchi, 2002, p. 25).

La storicizzazione e la relativizzazione delle categorie di interpretazione usate per indagare il contesto Nzema sono forse i lasciti più rilevanti sotto il profilo scienti- fico dell’etnografia di Mariano Pavanello. Immaginando di ripercorrere a volo di uccello la sua produzione credo di poter individuare – non senza qualche minima forzatura – tre momenti di riflessione principali, che si distinguono per la natura degli argomenti indagati e, parzialmente, anche per il maturamento di un’attitudine via via più esplicita alla promozione di progetti di sviluppo sul campo. Di questi

momenti propongo di seguito una sintesi ragionata, in quanto le acquisizioni teori- che e metodologiche da essi scaturite sono, a vari livelli, centrali nella mia espe- rienza di ricerca. Negli anni Novanta, lo studioso intraprese l’elaborazione di una nuova interpretazione del sistema di parentela, informata dalla riflessione sui mo- delli produttivi dell’economia locale (1992; 1995a; 1995b; 1996; 1997). Nei con- tributi di quel periodo si delineano i tratti di una vera e propria teoria economica nzema, che nella scrittura etnografica assume la forma di una plastica autorappre- sentazione dell’ordine sociale da parte degli interlocutori. Assumo come rappresen- tativo di questo programma scientifico il primo dei contributi del 1995, in cui l’ana- lisi dei regimi di ereditarietà e usufrutto dei terreni destinati a cultura viene svilup- pata parallelamente a quella delle diadi concettuali lavoro/profitto (in lingua nzema gyima e nvaso ) e sforzo/perdita (rispettivamente v l e kak ), tenendo sullo sfondo le complesse tensioni che animano il rapporto tra continuità genealogica (matrili- neare) e modello di residenza (viri-locale) praticati nel contesto. L’argomentazione proposta da Pavanello – sostenuta dall’analisi retorico-linguistica dei termini con cui i concetti in esame vengono impiegati nella lingua locale nelle più svariate oc- correnze – individua il carattere fondante della teoria economica nzema nell’idea che i vivi traggano profitto dal lavoro fatto dagli antenati, il quale è a sua volta concepito come la premessa ideologica di un diritto esclusivo dei discendenti a la- vorare la terra; e il vettore attraverso il quale si realizza la trasmissione dei mezzi di produzione da una generazione all’altra. Da una prospettiva più marcatamente epistemologica, questi contributi avviano una riflessione profonda – che rimarrà costante anche nella produzione successiva – sulla natura per così dire “convenzio- nale” e situata dei processi interpretativi messi in atto dall’antropologo sul campo. Secondo questa impostazione, la conoscenza che egli acquisisce nel gioco della re- lazione con l’interlocutore non può avere il crisma della “verità” incontrovertibile, come, specularmente, non possono averlo nemmeno le affermazioni delle contro- parti indigene. Ciò accadrebbe perché il rapporto tra le parti si articola intorno a performance retoriche che possono rispondere a “convenzioni di verità” diverse; che fanno riferimento a vissuti e a esperienze del mondo difficilmente sovrapponi- bili; e che per di più si situano in un orizzonte di interessi e di aspettative reciproche

che quasi mai coincideono, talvolta neanche all’interno dello stesso contesto cultu- rale (Pavanello, 1997).

Queste riflessioni sembrano mettere decisamente in discussione le fondamenta del paradigma interpretativo di stampo oggettivista che anni addietro aveva consegnato alle stampe la narrazione di un contesto coerentemente avviato all’osservanza di un set di principi indiscutibili e ampiamente condivisi, che gli etnologi avevano osser- vato e documentato. Quel paradigma, svuotato com’è della possibilità di produrre verità oggettiva, appare ormai inservibile. Risulta invece rafforzata la visione di una pratica etnografica che si pone il più realistico obiettivo di esercitare un confronto critico, quantunque da una prospettiva che rimane fatalmente – è bene ricordarlo – culturalmente e storicamente situata, tra diverse rappresentazioni del mondo, nel cui novero sono certamente ricomprese anche quelle dell’antropologo.

La produzione più recente di Pavanello – quella che caratterizza il secondo mo- mento della sua impresa etnografica – volge lo sguardo alle declinazioni locali dei concetti di “tradizione” (2000) e “storia” (2003a; 2007b). Converrà subito eviden- ziare come la lingua nzema identifichi le due concezioni con parole che si rifanno a domini semanticamente ben distinti, eppure intensamente correlati. La tradizione è amaamuo, cioè il «legato spirituale degli antenati, il modello ideale ereditato su cui è saggio conformare la propria condotta. […]. Amaamuo identifica quindi una sorta di ordine che è insieme sociale e morale, ed è una nozione che si situa su due piani: quello del sapere e quello della morale» (Pavanello, 2000, p. 178). L’idea di storia è invece connessa con una processualità che ha il compito primario di dare continuità nel presente all’ordine sociale, o al limite contestarlo, o ristabilirlo in caso di discontinuità. La storia produce se stessa nel racconto: la sua declamazione è un atto al tempo stesso performativo-retorico (perché governato da regole cano- niche di enunciazione formale) e perlocutivo (perché in esso si rende manifesta l’intenzionalità di chi parla). L’espressione ka edw k significa appunto “dire la storia”, o “raccontare un fatto”, e fa riferimento all’idea di un racconto puntuale che non necessariamente ha a che fare con la storia antica, quella tramandata dagli an- tenati. Per riferirsi a quest’ultima si usa piuttosto la locuzione iterativa tete edw k (letteralmente, “ascoltare e riascoltare un fatto”), che identifica appunto la storia

detta e ascoltata più volte, che ha viaggiato cioè di generazione in generazione (Pavanello, 2007b, pp. 54-64).

L’esito forse più rilevante delle riflessioni di Pavanello sul rapporto tra tradizione e storia risiede nella centralità attribuita al momento retorico-performativo del di- scorso storico nella costruzione dell’orizzonte di senso entro cui la parola pronun- ciata diviene atto perlocutivo, suscettibile di incidere profondamente nell’assetto sociale di una comunità. Questa tensione è già ricompresa nella duplicità semantica del termine edw k , che si traduce sia con “parola”, “racconto”, che con “fatto”, “accadimento”, “disgrazia”, o “caso” (giudiziario). Ma essa trova ulteriore con- ferma nella capacità degli enunciati di produrre, sul piano operativo, un effetto sul contesto mediante la sapiente alchimia di elementi di merito (ciò che si è appreso dalla storia tramandata) e del dominio formale delle regole dell’enunciazione (frutto dell’osservanza dell’amaamuo). Proprio nella congiuntura tra questi due ordini di pensiero complementari si colloca la pratica quotidiana, che vede impegnati indivi- dui e gruppi nella continua rimodulazione della loro memoria storica a seconda delle contingenze e degli interlocutori. Manifestazione paradigmatica di quest’opera di rimaneggiamento creativo del sapere storico è il dispositivo della lite, il manzonle, che fornisce il set giuridico-istituzionale all’interno del quale nar- razioni eterogenee e concorrenti (riguardo, per esempio, alla priorità di stanzia- mento in un dato territorio, o alla legittimità delle rivendicazioni di un matriclan a sedere sul seggio, cioè a governare in luogo di un altro una comunità) inventano retoricamente il passato per costruire un presente diverso (Pavanello, 2000, p. 267 e sgg.). Sarebbe tuttavia ingenuo immaginare che tali narrazioni dispongano di uno spazio di assoluta autonomia nella definizione dell’orizzonte storico che fa da sfondo alla lite. La costruzione di enunciati “veri”, o quantomeno “verosimili” è infatti processo complesso e articolato, che solo in minima parte può essere com- preso alla luce del principio aristotelico di non contraddizione. Articolando la ri- flessione di Wiredu (1996) Pavanello individua nei proverbi nzema gli enunciati basilari di una teoria indigena della conoscenza, che in linea teorica prevede la «pos- sibilità fattuale di verità contraddittorie», ma che al contempo riconosce al saggio che giudica la lite la capacità di discernere quale delle verità concorrenti emerga,

rispetto al panorama dei fatti di cui si è a conoscenza, con maggiore solidità e coe- renza dai discorsi delle parti in causa. I proverbi nzema conferiscono cioè una du- plice caratterizzazione al concetto di verità: 1) sul piano retorico la collocano all’in- terno delle pratiche discorsive, che selezionando e componendo gli enunciati pos- sono produrre «parole di verità» alternative ma non necessariamente in contraddi- zione con i fatti; 2) sul piano operativo, invece, ne subordinano il riconoscimento all’esercizio di una forma più avanzata e raffinata di conoscenza, la saggezza degli anziani (nr l b ), la sola che permetta di addivenire a un responso equilibrato dopo aver coordinato l’analisi del discorso con quella delle evidenze fattuali (Pavanello, 2000, pp. 217-234). Rispetto a questa biforcazione concettuale, Pavanello argo- menta altresì che esiste una correlazione tra questi due piani, in quanto la ricerca