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Capitolo 1. Storia di un museo senza storia Verso l’individuazione dell’oggetto

1.6 Patrimoni contesi La storia locale fuori e dentro al museo

Le ragioni di questo arretramento, a dire il vero, non sono tanto interne al rapporto con gli antropologi, ma appaiono piuttosto come il portato di specifici caratteri for- mali del racconto istoriologico, nonché della non univocità dei suoi contenuti, spesso non condivisi tra i rappresentanti delle autorità tradizionali dell’area. Le ri- cerche di Pavanello (2000, pp. 237-330) avevano contribuito grandemente alla comprensione dei meccanismi attraverso cui la memoria storica viene tramandata, contestata e ricostruita nella cornice retorico-operativa della lite. La raccolta e l’analisi dei racconti di fondazione di molti villaggi del distretto di Jomoro avevano inoltre costituito negli anni un corpus di materiali etnografici sufficientemente coeso e articolato da permetterci, in sede di progettazione degli allestimenti, di te- matizzare con cognizione di causa alcune linee di tensione fondamentali nella strut- turazione della gerarchia del potere consuetudinario nella Western Nzema Traditio- nal Area. Il progetto museografico originario prevedeva infatti che la sala della sto- ria offrisse un resoconto puntuale e circostanziato delle ricerche svolte fino a quel momento facendo ampio ricorso proprio a quei materiali etnografici. Non rice- vemmo nessuna obiezione in merito a questo programma in fase di negoziazione con i partner, ma arrivati alla prova dei fatti ci scontrammo con l’evidenza che esso non aveva tenuto debitamente in conto la delicatezza dei nessi politici impliciti nella performance oratoria che raccorda il mondo dei vivi a quello degli antenati. Un paio di esempi dal campo potranno chiarire quanto sto affermando.

Ngotobia Cato I, chief di Bawia e storico chairman della commissione che ogni anno viene istituita per organizzare la celebrazione del festival nella Western Nzema Traditional Area.

La retorica del progetto di cooperazione culturale che ha dato vita al Fort Apollonia Museum incoraggiava la trasversalità del discorso museografico, intendeva cioè conferire pari dignità di “patrimonio” alle determinazioni socio-culturali e ambien- tali del territorio15. In questa cornice, nel tentativo di dare voce a quanti più attori possibile, io e Mariaclaudia pensammo fosse opportuno slargare l’orizzonte del di- scorso storiografico offrendone una duplice rappresentazione. La prima doveva ri- flettere la dimensione locale delle storie di fondazione raccolte da Pavanello attra- verso la realizzazione di piccoli dispositivi museografici da parte di bambini delle scuole primarie, opportunamente guidati nell’interpretazione delle trascrizioni e supportati nella realizzazione materiale degli oggetti da un giovane artigiano locale. La seconda rappresentazione, che sarebbe dovuta scaturire da un circostanziato con- fronto con le massime autorità tradizionali dell’area, doveva invece ricomprendere tutte quelle esperienze puntuali in un quadro più complessivo e stratificato, di di- mensione areale: l’ipotesi iniziale era infatti quella di affidare ad Annor Adjaye III la stesura di un testo che presentasse i passaggi fondamentali della storia del Regno di Apollonia dal XVIII secolo ai giorni nostri. Sulla carta il progetto sembrava poter funzionare, quindi Mariaclaudia si incaricò di seguire il primo filone, io il secondo. Nel confronto che seguì con le autorità tradizionali e con gli anziani capi-lignaggio, depositari della memoria storica delle famiglie e delle comunità di villaggio, ca- pimmo tuttavia che il nostro programma era irrealizzabile, almeno nella forma in cui lo avevamo immaginato. Per quanto riguarda la prima installazione, fummo ac- cusati di voler superficialmente dilapidare il patrimonio di conoscenze condiviso dagli anziani chiefs con Pavanello nell’ambito di una relazione privilegiata e ritual- mente connotata. Ci fu espressamente proibito di condividere i contenuti delle tra- scrizioni con i bambini, non provvisti di conoscenza (adwenle) e saggezza (nr l b ), e quindi non intitolati a udire la storia degli antenati. La seconda installazione non

15 Sul piano meramente operativo, il progetto coinvolse otto comunità, distribuite nei distretti ammini-

strativi di Jomoro ed Ellembele: Beyin, Nzulezo, Ngelekazo, Ekabaku, Ebonloa e Miegyinla nel primo; Bakanta e Baku nel secondo. Tuttavia, nella percezione dei partner le ricadute in termini culturali dell’operazione di musealizzazione del forte di Beyin dovevano trascendere i limiti territoriali del pro- getto e acquisire carattere di rappresentatività per tutta l’area, come esplicitato nel punto 1. della mis- sione del museo più sopra riportata.

ebbe fortuna migliore: non riuscimmo nemmeno a ottenere da Annor Adjaye III una versione concordata della storia dell’area. Nonostante le tante sollecitazioni che in- tenzionalmente operammo nei suoi confronti, paventando in maniera retorica il ri- schio che venisse a mancare la voce del potere tradizionale proprio nella sala che più di ogni altra l’avrebbe richiesta – visto lo stretto legame tra storia degli antenati, diritti sulla terra e articolazione del potere – egli procrastinò più e più volte la reda- zione del breve testo, fin quando il suo apparente disinteresse per la questione non ci convinse ad abbandonare il progetto e considerare opzioni alternative.

Ci fu accordato il permesso di proseguire nell’opera di coinvolgimento dei bambini solo a patto che accantonassimo i materiali messi a disposizione da Pavanello e usassimo nel corso dei workshop le tradizioni raccolte e pubblicate tra gli anni Cin- quanta e Sessanta del Novecento dal vescovo cattolico Amihere Essuah (1958; 1959; 1962). Si tratta di testi ampiamente diffusi nello Nzema, cui ho spesso sentito far riferimento anche nelle mie indagini più recenti. Il fatto che le tradizioni conte- nute in questi volumi siano state oggetto di pubblicazione editoriale, per di più in un tempo non più recente, ha consentito che acquisissero, almeno in una certa mi- sura, il crisma dell’ufficialità. Bisogna tuttavia sottolineare che nell’opera di Essuah non sono rintracciabili gli elementi metodologici necessari a qualificarla come ri- gorosamente storiografica: la mancanza del riferimento alle fonti e la genericità delle asserzioni rendono questi scritti poco attendibili sotto il profilo scientifico, e quindi, in ultima analisi, anche meno controversi. Nel caso dell’installazione sulla storia generale dell’area dovemmo invece ripiegare su tutt’altro versante. Vanifi- cata anche la possibilità di istituire un confronto tra la storiografia dello Nzema elaborata dagli studiosi occidentali e le tradizioni orali locali, negoziammo con i partner lo sviluppo di un’installazione che presentasse analiticamente le caratteri- stiche formali del racconto istoriologico. Progettai dunque un dispositivo museo- grafico composito e stratificato, che intendeva stimolare la comprensione del ca- none della tradizione mettendo in dialogo gli studi di Pavanello e le forme della memoria storico-genealogica locale condensate nella retorica sapienziale del pro- verbio (v. Immagini 2, 3 e 4 in Appendice B).

Sollevando il pannello introduttivo, intitolato “Telling the history means…”, il vi- sitatore trova una sintetica introduzione ai caratteri dell’atto performativo attraverso

il quale la storia viene rievocata e attualizzata nel presente. L’approfondimento pun- tuale di tali caratteri è però rinviato per mezzo di marcatori cromatici alle cinque finestre sottostanti, nelle quali l’argomentazione etnografica è giustapposta all’enunciazione del proverbio che viene usualmente utilizzato per esprimere meta- foricamente i concetti analizzati. L’installazione provvede così a definire un campo aperto di interpretazioni, in cui il sapere antropologico concorre alla definizione di un oggetto di riflessione tanto quanto le retoriche sapienziali locali veicolate dal proverbio.

Alla luce di questi casi credo si possa ipotizzare che tanto il disappunto descritto in relazione all’ipotesi di utilizzare per gli allestimenti le storie di fondazione raccolte da Pavanello, quanto l’apparente disinteresse mostrato da Annor Adjaye III nella vicenda del pannello sulla storia generale dell’area, costituiscano le due facce della medesima medaglia. Nel primo caso, l’implementazione del processo di patrimo- nializzazione è stata probabilmente avvertita come un elemento turbativo ed eso- geno rispetto alle consuete regole d’uso sociale della memoria storica. La condivi- sione aperta di quelle testimonianze con un pubblico non capace di ascoltarle e re- cepirne il senso – non importa che si tratti di giovani scolari o turisti arrivati a Fort Apollonia da chissà quale angolo del mondo – le avrebbe spogliate di autorità e consegnate a una condizione di sostanziale impotenza retorica: una volta entrate nel museo esse sarebbero per così dire cristallizzate, perdendo il potenziale generativo della fonte orale, per sua natura aperta a manipolazioni e contaminazioni. Di con- verso, l’atteggiamento di Annor Adjaye III rispetto alla formulazione di un testo sulla storia dell’area sembra essere dettato da una sana prudenza nel prendere uffi- cialmente posizione rispetto a una questione che – capimmo in quelle settimane – era molto più complessa di quanto potesse apparire ai nostri occhi. Sulla sospen- sione del suo giudizio pesava infatti una pluridecennale contrapposizione tra i pa- ramount chief di Eastern e Western Nzema Traditional Area e attori che ne conte- stano radicalmente l’autorità. Tale dissidio deve le sue origini a un evento storico che ebbe capitale rilevanza nella strutturazione della gerarchia del potere tradizio- nale nzema: la destituzione per mano inglese dell’ultimo re dello nzema unitario, Kaku Aka, e la successiva spaccatura del regno in due entità politiche distinte, le

attuali Western e Eastern Nzema Traditional Area. Annor Adjaye avrebbe certa- mente potuto produrre un testo, e questo sarebbe stato probabilmente coerente con la sua visione della storia locale. Avrebbe potuto persino trarre giovamento mo- mentaneo da tale operazione, in quanto la valorizzazione negli allestimenti di una ricostruzione storiografica basata sulla sua memoria genealogica avrebbe certa- mente rafforzato la sua posizione nello scacchiere della lite, conferendo il crisma dell’ufficialità alla sua versione della storia a scapito di quelle concorrenti. Ma si potrebbe legittimamente dubitare dell’efficacia che una tale iniziativa avrebbe avuto sul lungo periodo. Bisogna infatti considerare che il 2010, anno in cui le vi- cende cui faccio riferimento si sono svolte, coincise con un momento decisivo nell’evoluzione della lite tra i paramount chiefs in carica e i sedicenti eredi in linea dinastica dell’antico re Kaku Aka, per almeno due diverse ragioni: la prima è che, dopo anni di vacanza dal seggio seguiti alla morte del suo predecessore, fu final- mente intronizzato il nuovo paramount chief di Atuabo, capitale tradizionale dell’Eastern Nzema Traditional Area; la seconda era invece costituita dall’enne- sima offensiva lanciata dai contestatori della struttura di potere consuetudinario in vigore alla legittimità di Annor Adjaye III a sedere sul “seggio grande” di Beyin. Tornerò presto su questi argomenti: li accenno qui brevemente solo per evocare la dimensione di una veloce riconfigurazione dello scacchiere della contesa, che pro- babilmente convinse Annor Adjaye III ad assumere una linea di condotta prudente e attendista, preservando l’efficacia retorica delle sue proposizioni dal rischio di venire abilmente ribaltata una volta entrata negli allestimenti del museo.

Gli eventi di cui ho riferito lasciano trasparire la tensione politico-istituzionale che si genera non appena prende corpo il proposito di patrimonializzare la storia nzema. Tale tensione deriva però solo in parte dalla diversità delle posizioni in merito ai contenuti della storia. Mi sembra che a guidare gli atteggiamenti dei nostri interlo- cutori durante i mesi di lavoro a Fort Apollonia sia stata piuttosto la consapevolezza che la messa in scena delle tradizioni degli antenati li avrebbe privati di un formi- dabile strumento di intervento nel presente. Se è vero che, in Ghana come in altri contesti, l’opinione comune accorda all’istituzione museale una notevole capacità legittimante e che la creazione di un museo dalla forte connotazione storico-etno-

grafica avrebbe potuto fornire quindi l’occasione per conferire caratteri di legitti- mità ed esclusività a una tra le tante voci che si sovrappongono nella definizione dell’orizzonte storico dell’area; cionondimeno l’ipotesi di un passaggio della forma orale e performativa in cui la storia è socialmente costruita e condivisa a quella scritta/visuale che proponevamo di implementare nel museo non poteva che dare adito alle forme di resistenza che abbiamo visto. Sembrerebbe che l’iscrizione delle tradizioni orali in una cornice patrimoniale sia stata respinta per non sottrarre la memoria storica al suo naturale campo di esercizio sociale. In questo senso, ap- paiono del tutto coerenti tanto l’indicazione di utilizzare i testi di Essuah per l’in- stallazione sulle storie dei villaggi, quanto il fatto che nessun capo tradizionale si sia opposto alla realizzazione del pannello a finestre sul canone del racconto isto- riologico. La trattazione divulgativa del vescovo aveva avuto il tempo, dalla sua pubblicazione, di diventare un punto di riferimento abbastanza condiviso per gli intellettuali dell’area, pur non avendo lo spessore del rigoroso trattato storiografico. D’altro canto l’individuazione degli elementi che tipicamente compongono il rac- conto istoriologico, pur essendo scaturita dall’analisi di casi specifici, non ne costi- tuiva la diretta messa in discussione: non rappresentava cioè un tentativo di norma- lizzare la memoria storica, ma più propriamente un meta-discorso sugli elementi che ne definiscono la rilevanza per la società nzema, e come tale poteva a pieno titolo entrare a far parte dell’esposizione in Fort Apollonia.

Da queste esperienze – maturate peraltro nell’atmosfera concitata che caratterizzò i mesi precedenti all’inaugurazione del museo, quando l’approssimarsi della sca- denza per la consegna degli allestimenti rendeva impraticabile qualsiasi tentativo di approfondimento analitico delle criticità indotte dal processo di patrimonializza- zione – sembrerebbe che la storia nzema, con il suo carico di conflitti irrisolti, non possa costituire oggetto di valorizzazione all’interno di un discorso museografico complessivo sulla società nzema. Eppure, già allora si andava delineando in ma- niera abbastanza evidente una peculiare concezione patrimoniale della storia, spe- cialmente tra i capi tradizionali che più da vicino seguirono le vicende di Fort Apol- lonia. Tale concezione attribuiva grande centralità alla necessità di ordinare, cata- logare e conservare il patrimonio archivistico degli stools, nel quale, a loro dire, sarebbe condensata la vera storia dell’area.