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Fattori predittivi di mortalit` a nel campione generale

5.2 Il rischio di mortalit` a dei pazienti infetti

5.2.1 Fattori predittivi di mortalit` a nel campione generale

Nel complesso, i pazienti andati incontro a decesso gi`a in Pronto Soccorso oppure pi`u avanti, nel corso della degenza ospedaliera, sono risultati essere mediamente pi`u anziani e pi`u spesso sofferenti di patologie cardiovascolari sottostanti, oppure portatori di cateteri endovenosi. Un simile riscontro si pu`o giustificare facilmente se si pensa come tutti questi elementi rappresen- tino l’epifenomeno di una condizione di maggiore fragilit`a. Un soggetto pi`u anziano, cos`ı come uno affetto da malattie cardiocircolatorie o problematiche tali da richiedere l’impianto di un catetere endovenoso per uso quotidiano, `e infatti pi`u suscettibile allo sviluppo non solo di infezioni, ma anche di com- plicanze imputabili proprio alla colonizzazione dell’organismo da parte di microrganismi esterni.

Altrettanto comprensibile `e il rilievo di una associazione fra un incre- mento del tasso di decessi da un lato, e la necessit`a di ricovero in terapia intensiva, il bisogno di una terapia a base di amine vasoattive e la diagnosi di shock settico (posta in accordo agli ultimi criteri del 2016) dall’altro.

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E ovvio e palese come pazienti che, nel corso della degenza in ospedale, svi- luppano condizioni tanto critiche, siano pi`u probabilmente destinati a soc- combere all’infezione. `E altres`ı convinzione diffusa e unanimemente condivisa che lo shock settico rappresenti un sottoinsieme della sepsi caratterizzato da un livello di gravit`a superiore e da un tasso di mortalit`a che supera il 40% [12].

In quest’ottica si pu`o ritrovare anche la ragione per cui la prevalenza percen- tuale di soggetti che al momento dell’ammissione al Dipartimento di Emer- genza ed Accettazione avevano valori di lattacidemia superiori a 1,8mmol/l, una pressione arteriosa sistolica inferiore a 100 mmHg, oppure una pressio- ne arteriosa inferiore a 70 mmHg sia risultata significativamente maggiore fra i pazienti andati incontro ad exitus rispetto a quelli invece sopravvissuti. Tutti i parametri ora elencati, infatti, contribuiscono a definire una condizio- ne di scompenso cardio- circolatorio e metabolico piuttosto impegnativa dal punto di vista clinico, e rientrano fra i criteri diagnostici dello shock settico, che come si `e osservato nel paragrafo precedente costituisce una minaccia consistente per la sopravvivenza e le possibilit`a di guarigione del malato.

Un altro risultato piuttosto prevedibile `e rappresentato dall’associazione fra il rischio di esito infausto e la positivit`a al SOFA score: quest’ultima indica infatti la presenza di un danno d’organo sottostante e quindi una infezione gi`a in qualche modo complicata e potenzialmente pi`u a rischio. Elemento

chiave della pi`u recente definizione di sepsi, tale sistema `e ripetutamente indicato in letteratura come strumento utile nella valutazione della gravit`a di un paziente: secondo Vincent ed altri fautori della “Sepsis- 3”, un punteggio complessivo pi`u elevato al SOFA score `e infatti spia della presenza di una minaccia per la sopravvivenza sensibilmente pi`u consistente [2] [45].

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E stato inoltre calcolato che i pazienti ospedalizzati per sospetta infezione ed aventi un SOFA score pari o maggiore a 2 sono gravati da un rischio di mortalit`a superiore del 10% rispetto a quello dei pazienti infetti con SOFA uguale a zero [34].

Non stupisce nemmeno il riscontro, all’interno del gruppo di soggetti de- ceduti, di punteggi significativamente pi`u elevati di MEWS e shock index: anche questi due indici, infatti, sono noti per essere significativamente asso- ciati ad un peggioramento dell’outcome dei pazienti. In particolare, lo shock index `e stato definito come uno strumento efficace, ma allo stesso tempo di facile applicazione, per identificare gi`a al triage i soggetti a pi`u elevato rischio di evoluzione clinica sfavorevole.

Inoltre, come gi`a ampiamente discusso e puntualmente riportato nell’intro- duzione, il riscontro al MEWS di un punteggio superiore o uguale a 5 do- vrebbe costituire un campanello di allarme per il medico e tutto il personale ospedaliero; Koksal ed i suoi colleghi hanno individuato in questa scala di valutazione un mezzo efficace ed importante per il monitoraggio dei pazienti in Pronto Soccorso [34] [38].

Meno scontata, invece, appare la relazione fra la positivit`a al quick SO- FA ed un pi`u elevato tasso di mortalit`a intra- ospedaliera; come accennato nell’introduzione, il suo ruolo quale strumento di facile applicazione per la diagnosi e la stratificazione della gravit`a dei pazienti settici ha subito un im- portante processo di ridimensionamento nel corso degli ultimi due anni [34]. Tale sistema ha infatti dimostrato di avere una specificit`a buona, ma bassa sensibilit`a, nel predire la mortalit`a intra- ospedaliera dei pazienti settici [21] [25].

Lo studio di Tusgul ha inoltre dimostrato la sua inadeguatezza nel seleziona- re in maniera accurata i casi di sepsi a maggior rischio di complicanze [22], mentre Askim ed i suoi colleghi sono riusciti a provarne la scarsa capacit`a predittiva nei confronti della mortalit`a a 7 e 30 giorni dal ricovero [20]. L’analisi statistica condotta in questa prima fase del nostro studio, comun- que, indica semplicemente che la percentuale di soggetti con punteggio al quick SOFA superiore o uguale a 2 era significativamente maggiore nel grup- po dei malati andati incontro ad exitus rispetto a quelli sopravvissuti, ma non vuole avanzare pretese eccessive circa la capacit`a di tale sistema di in-

dividuare in maniera accurata i casi a prognosi peggiore. Di quest’ultimo aspetto si discute nel paragrafo successivo, dove sono analizzati pi`u detta- gliatamente e specificatamente i risultati ottenuti mediante la costruzione delle curve ROC inerenti appunto la mortalit`a. A questo dato si viene ad af- fiancare e accompagnare poi un secondo rilievo, riguardante proprio uno dei parametri valutati mediante il quick SOFA, ovvero l’alterazione dello stato di coscienza: in particolare, si `e riscontrato che il punteggio del Glasgow Coma Scale calcolato al momento dell’ammissione al DEA era significativamente superiore nei soggetti sopravvissuti rispetto agli altri.

Di tutti gli esami di laboratorio effettuati e considerati ai fini della presen- te indagine, soltanto due hanno dimostrato di avere una qualche correlazione con la mortalit`a intra- ospedaliera, ovvero le concentrazioni plasmatiche di procalcitonina e creatinina. Tale reperto `e stato confermato sia dal test di Mann Whitney per le variabili continue (considerando quindi i livelli assolu- ti dei due indici) sia da quello del chi quadrato per le variabili dicotomiche (considerando come cut off 0,5ng/ml per la procalcitonina e 1,2 mg/dl per la creatinina).

Il ruolo della procalcitonina come marcatore sfruttabile nella sepsi `e stato indagato in maniera estesa ed approfondita; in particolare, `e stato dimo- strato che il monitoraggio delle sue concentrazioni nel corso del ricovero `e il sistema dotato della migliore sensibilit`a e specificit`a nell’indicare il momen- to pi`u opportuno per somministrare e sospendere la terapia antibiotica. In particolare, quest’ultima pu`o essere sospesa nel momento in cui i valori di PCT scendono al di sotto del limite superiore (0,5ng/ml), senza che questo influenzi negativamente l’esito della malattia [46].

Inoltre, diversi lavori hanno dimostrato che la procalcitonina `e un fattore prognostico importante in corso di sepsi: nel 2014, analizzando una serie di pazienti settici ricoverati in terapia intensiva, Jain ed i suoi colleghi sono riusciti a provare che il riscontro di una concentrazione ematica di procalci- tonina al momento del ricovero in UTI superiore a 7ng/ml `e il fattore pi`u accurato nel predire la mortalit`a a breve termine [47].

3 anni dopo, nel 2017, uno studio americano ha esteso la validit`a di tali af- fermazioni anche al di fuori di un contesto ristretto come quello della terapia intensiva, fornendo valide prove a sostegno dell’efficacia della procalcitonina come fattore prognostico in qualsiasi paziente affetto da sepsi. Pi`u in parti- colare, gli autori hanno concluso che il tasso di mortalit`a dei pazienti in cui la procalcitonina va incontro ad una riduzione inferiore all’80% nei primi 4 giorni di ospedalizzazione `e pari a circa il doppio di quello dei soggetti in cui invece i livelli di tale proteina scendono pi`u sensibilmente [48].

Risulta piuttosto intuitiva e quasi scontata la presenza di una associazio- ne fra l’innalzamento della creatinina e la mortalit`a, poich´e la comparsa di un danno renale acuto quale complicanza dell’infezione pu`o far precipitare rapidamente le condizioni cliniche del paziente, andando ad incidere in modo pesantemente negativo sulla prognosi. Non a caso la concentrazione della creatinina sierica e la diuresi sono stati scelti come indici di funzionalit`a re- nale nel SOFA score.

A tale proposito, potrebbe invece stupire il mancato riscontro di una connes- sione fra l’incremento della bilirubina, parametro utilizzato nel SOFA score per la valutazione dello stato del fegato, e la mortalit`a; questo reperto si potrebbe forse giustificare in virt`u del fatto che probabilmente questo para- metro non rappresenta l’indice pi`u fedele e precoce di una eventuale altera- zione della funzionalit`a epatica. A questo scopo, potrebbero forse essere pi`u utili altre variabili, quali il tempo di protrombina (PT) e di tromboplastina parziale attivata (aPTT).

Un elemento piuttosto controverso `e costituito dal rapporto fra il rischio di mortalit`a intra- ospedaliera in corso di infezione ed il sesso; dal presen- te lavoro `e emerso che il sesso femminile risulta significativamente associato ad una maggiore incidenza di exitus fra i pazienti infetti, ma questo non `e sufficiente a qualificarlo come fattore di rischio per la mortalit`a dovuta alla sepsi. Su tale risultato, infatti, avrebbero potuto influire diverse variabili confondenti, quali, ad esempio, l’et`a e le co- morbidit`a sottostanti: le donne avrebbero infatti potuto essere mediamente pi`u anziane degli uomini oppure avere un Punteggio al Charlson co- morbidity index nettamente superiore, e questo, in caso, avrebbe sicuramente condizionato il risultato ottenuto. In assenza di una analisi multivariata `e impossibile eliminare eventuali elementi di confondimento e dunque pronunciarsi al riguardo.

In letteratura il dibattito inerente una eventuale influenza del genere sul- le possibilit`a globali di sopravvivenza nei pazienti settici `e tuttora aperto e piuttosto acceso; una review risalente al 2017 ha analizzato 7 diverse pub- blicazioni aventi per tema principale proprio questo quesito, per concludere come sia impossibile trarre conclusioni definitive circa l’esistenza di even- tuali differenze di genere in materia di possibilit`a di sopravvivenza ad un episodio settico. Secondo alcuni, il sesso maschile `e un fattore prognostico sfavorevole, mentre secondo altri questo ruolo spetta al sesso femminile; altri ancora sostengono non vi sia alcuna differenza statisticamente significativa; capire quale fra le 3 possibili opzioni prese in considerazione sia corretta `e al momento impossibile [49].

il rilievo di due fattori apparentemente correlati con un incremento delle pos- sibilit`a di sopravvivenza in caso di infezione: l’esecuzione delle emocolture prima della somministrazione della terapia antibiotica empirica ed il riscon- tro di un innalzamento della temperatura corporea al momento del triage. Il primo di questi `e un fattore cruciale, da tenere ben presente di fronte ad un sospetto di infezione in Pronto Soccorso. Come dimostrato anche dai dati emergenti da questa analisi, `e purtroppo alquanto diffusa l’abitudine di ef- fettuare il prelievo per le emocolture dopo la somministrazione della terapia antibiotica empirica; in particolare, nel campione a nostra disposizione, que- sto `e accaduto nel 26,9% dei casi, una percentuale tanto significativa quanto preoccupante.

Riuscire a posticipare la somministrazione di antibiotico fino al momento dell’esecuzione delle emocolture aumenta infatti la probabilit`a che queste ul- time risultino positive e questo pu`o essere importante per due motivi. Da una parte, garantisce una migliore accuratezza diagnostica ed un pronto ri- conoscimento di un’eventuale infezione occulta, permettendo cos`ı la messa in atto delle misure terapeutiche pi`u opportune; dall’altra, consente l’esecuzione dell’antibiogramma e il riconoscimento di eventuali antibiotico- resistenze da parte dei microrganismi infettanti, con conseguente possibilit`a di correggere in maniera appropriata la terapia farmacologica e combattere efficacemente la specie infettante.

Per quanto riguarda il secondo fattore protettivo sopraddetto, ovvero l’iper- termia, qualche considerazione fisiopatologica potrebbe aiutare a compren- dere le ragioni di un simile riscontro. `E probabile che i pazienti con infezione la cui temperatura corporea si innalza maggiormente siano quelli capaci di una risposta immunitaria pi`u efficace nei confronti dell’infezione, e dunque meno proni a incorrere in eventuali complicanze o in un decorso clinico pi`u sfavorevole. `E inoltre possibile che il riscontro di una importante elevazione della temperatura corporea costituisca una sorta di avvertimento o monito per i medici, capace di indurli ad agire tempestivamente, intraprendendo un percorso diagnostico- terapeutico adeguato ed un monitoraggio clinico pi`u attento e serrato.

Al contrario, i soggetti con una temperatura corporea inferiore al limite di normalit`a potrebbero essere anergici oppure trovarsi in una situazione di “esaurimento” del sistema immunitario, ovvero una condizione in cui le di- fese immunologiche non sono pi`u in grado di contrastare il microrganismo e la sua replicazione.

Un lavoro recente, pubblicato nel 2017 su PlosOne, ha dimostrato come le variazioni di temperatura rispetto al basale si associno ad un significativo cambiamento del tasso di mortalit`a intra- ospedaliera nei pazienti settici; nello specifico, l’ipotermia comporta un aumento, mentre l’ipertermia una

riduzione, dell’occorrenza di exitus in questa categoria di malati [50].

I risultati dell’indagine da noi condotta nei centri di Pisa e Livorno non hanno permesso di confermare questa visione dell’ipotermia come fattore di rischio per la sepsi, in quanto non si `e registrata una differenza significativa nell’oc- correnza di un abbassamento della temperatura corporea al di sotto del limite normale fra il gruppo dei pazienti sopravvissuti e gli altri (p= 0,234), ma il riscontro di febbre in pronto soccorso, in questo studio, risulta un fattore protettivo nei confronti della mortalit`a intraospedaliera nel paziente settico.

5.2.2

Stratificazione del rischio di mortalit`a

Il processo di suddivisione dei pazienti in pi`u gruppi di rischio, ognuno carat- terizzato da un differente tasso di mortalit`a e da un diverso livello di criticit`a, `

e cominciato con la costruzione delle curve ROC inerenti 8 parametri distinti. L’area sotto la curva (AUROC) superiore in assoluto si `e rivelata essere quel- la relativa alla combinazione di lattati e shock index, con il suo valore di 0,8: questo dimostra come la sua accuratezza nel predire l’evento “exitus” sia moderatamente elevata e, si potrebbe azzardare, piuttosto soddisfacente. In effetti, gi`a prese singolarmente, queste due variabili hanno dimostrato a pi`u riprese di essere indici affidabili della gravit`a delle condizioni cliniche del paziente, e di avere inoltre una buona capacit`a predittiva nei confronti della mortalit`a intra- ospedaliera associata alla sepsi, come gi`a estesamente descritto nel capitolo introduttivo di questa tesi[34] [36] [41].

Sommati fra di loro, vengono probabilmente a delineare un quadro clinico piuttosto affine a quello che in occasione della “Sepsi- 3” `e stato definito come shock settico, ovvero una “compromissione cardiovascolare e del metabolismo cellulare che determina un significativo incremento del tasso di mortalit`a”. In effetti, l’alterazione di ciascuno di questi parametri si configura come la spia di una delle caratteristiche portanti di tale condizione clinica, ovvero la disfunzione tissutale e quella cardiocircolatoria. Da un lato, infatti, l’innal- zamento dei lattati costituisce un meccanismo di adattamento o compenso ad uno stato complessivo di carenza di substrati energetici per i tessuti, ed `e probabilmente la manifestazione tangibile ed apprezzabile di un sottostante scompenso metabolico- energetico dell’organismo. Dall’altra parte, lo shock index si pu`o interpretare come un indice piuttosto fedele della condizione emodinamica in cui versa il paziente, la cui elevazione pu`o e deve suggeri- re la compresenza di una certa instabilit`a a livello cardiovascolare, anche a fronte di una pressione arteriosa apparentemente perfetta. Vi sono, in effetti, situazioni in cui quest’ultimo parametro `e mantenuto nei limiti di normalit`a, ma alle spese di un sovraccarico di lavoro per il cuore e di una marcata ele- vazione della pressione arteriosa: lo shock index `e anche utile per identificare

questa categoria di soggetti, a rischio di evoluzione verso una condizione pi`u grave in cui neppure l’aumento della contrattilit`a cardiaca riesce a garantire una adeguata perfusione periferica.

Un secondo risultato degno di menzione ricavato grazie alla costruzione delle ROC `e rappresentato dal riscontro di una AUROC inerente la somma di lattati e quick SOFA significativamente migliore rispetto a quella del quick SOFA da solo: questo significa che la combinazione di lattati e quick SOFA `

e molto pi`u accurata nell’identificare i pazienti in potenziale pericolo di vita rispetto al quick SOFA.

Un simile reperto `e piuttosto raro in letteratura: diversi lavori pubblicati in precedenza avevano infatti escluso la possibilit`a di incrementare il potere predittivo del quick SOFA nei confronti della mortalit`a aggiungendovi il ri- scontro di una iperlattacidemia come quarto parametro di valutazione [4]. Questa divergenza nelle conclusioni tratte in proposito si potrebbe per`o spie- gare in virt`u della differenza di metodologia scelta per combinare le due variabili in questione: mentre nelle analisi di Freund e dei suoi colleghi era stato costruito un indice in cui, al punteggio assoluto del quick SOFA (va- riabile da 0 a 3), si aggiungeva un quarto punto in caso di riscontro di una iperlattacidemia, in questo studio si `e deciso di sommare al valore della con- centrazione plasmatica di lattati un punto per la eventuale positivit`a del paziente al quick SOFA.

La maggiore importanza conferita in questo modo alla lattacidemia, a scapito del quick SOFA, `e probabilmente responsabile dell’incremento del potere pre- dittivo nei confronti dell’evento “exitus” dell’indice cos`ı costruito. `E pertanto forse il dosaggio dei lattati, e non il calcolo del quick SOFA, a rivelarsi un ele- mento chiave, determinante, nella stratificazione prognostica di un paziente infetto o con sospetto di sepsi.

Come anticipato in precedenza, per l’individuazione di un sottogruppo di soggetti a pi`u elevato rischio si `e scelto un valore della variabile “lattati + shock index” pari a 2,4648, avente, secondo i dati estrapolati dalla rela- tiva ROC, una sensibilit`a pari al 90.7% nei confronti dell’esito “decesso” ed una specificit`a del 50.7%. Si `e deciso di optare per un cut off dotato di una sensibilit`a superiore, anche a scapito di una specificit`a sub- ottimale, cos`ı da riuscire ad individuare il numero pi`u elevato possibile di individui a rischio di exitus: a discriminare meglio i pazienti in relazione all’end point “decesso” si sarebbe poi provveduto mediante indagini successive.

In effetti, la categoria di soggetti aventi un indice “lattati + shock index” maggiore o uguale a 2,4648 `e risultata composta da 254 pazienti, di cui 88 andati effettivamente incontro ad esito infausto: il tasso di mortalit`a `e ri-

sultato quindi pari al 35%, di gran lunga superiore a quello del campione generale arruolato nello studio.

Dei 317 pazienti rimanenti (ovvero aventi un valore di “shock index + lattati” inferiore al cut off prescelto), ne sono deceduti 39, per un tasso di mortalit`a del 12%, decisamente pi`u basso rispetto all’estremo inferiore del range in cui pu`o variare la mortalit`a per sepsi (20-40%).

L’utilizzo di questi due parametri, la lattacidemia ed il rapporto fra frequen- za cardiaca e pressione arteriosa, ovvero lo shock index, potrebbe quindi costituire un metodo piuttosto efficace per discriminare gi`a in occasione del- l’accesso in Pronto Soccorso i soggetti infetti in maggiore pericolo di vita da quelli a rischio minore. Una simile ipotesi trova riscontro e conferma in un recentissimo documento di indirizzo, stilato e pubblicato dal gruppo tecnico toscano del programma regionale di lotta alla sepsi [51]. Secondo gli autori di questa guida, il momento cruciale per l’intero iter diagnostico- terapeutico di un soggetto che accede al DEA `e il triage: `e in questa occasione, infatti, che viene assegnato il codice di priorit`a, un’etichetta dalla quale dipendono le tempistiche di valutazione del quadro clinico e dunque di intervento da parte dell’equipe medica.

La sepsi rappresenta, per definizione, una patologia tempo- dipendente: nelle fasi pi`u precoci un intervento tempestivo ed appropriato `e pi`u probabilmente efficace e capace di condurre alla guarigione, mentre in quelle pi`u avanzate qualsiasi tentativo di trattamento ha un tasso di insuccesso nettamente supe- riore. Di conseguenza, si rivela determinante e di vitale importanza riuscire ad individuare sin dal momento dell’ingresso in PS i pazienti portatori di infezione gravati da un maggiore rischio di exitus, per assegnare a ciascun

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