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3.5 Fatture soggettivamente e oggettivamente inesistenti

3.5.2 Fatture provenienti da paesi “black list”

L’articolo 4 del Decreto crescita ed internazionalizzazione (D.Lgs. 147/2015) è intervenuto modificando la disciplina in merito alla deducibilità dei costi

derivanti da operazioni intercorse con soggetti residenti, ovvero localizzati in Stati aventi regimi fiscali privilegiati di cui all’articolo 110, commi 10 – 12- bis, Tuir.

Come noto, il suddetto articolo, nella precedente versione statuiva

l’indeducibilità delle spese/costi derivanti da operazioni tra imprese residenti e imprese in Stati o territori rientranti nella black list, salva l’ipotesi (comma 11) in cui il contribuente residente fosse stato in grado di fornire la

prova all’Amministrazione finanziaria circa l’effettivo esercizio di attività commerciale da parte del fornitore estero, del concreto interesse economico per l’impresa residente e la concreta realizzazione dell’operazione.

Una prima novità del D.Lgs. 147/2015 consiste, tramite una modifica del comma 10, nel passare da una presunzione relativa di indeducibilità di tali costi (salva la prova precedentemente citata) ad una presunzione

legale di deducibilità nel limite del valore normale determinato ai sensi dell’articolo 9 del Tuir.

Solo per la parte di costo che eccede il valore normale è necessario fornire prova delle circostanze esimenti per garantirne la deducibilità. Le modifiche al comma 11 hanno inoltre variato tali circostanze esimenti necessarie esclusivamente al fine di dedurre la parte di costo eccedente il valore normale.

È sufficiente fornire la prova che le operazioni rispondano ad un effettivo interessi economico e che abbiano avuto concreta attuazione.

Non è, invece, più prevista la prova dell’effettivo svolgimento, da parte del soggetto estero, di un’attività commerciale in via prevalente, difficilmente

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reperibile e documentabile quantomeno senza la collaborazione del fornitore estero.

Resta ferma la necessità che il soggetto residente indichi i componenti negativi in questione in modo separato in dichiarazione, in modo da “segnalarli”

all’Amministrazione finanziaria, sia con riferimento all’ammontare compreso entro il valore normale che per quello eccedente.

In particolare si tratterà di indicare il totale dei costi black list (entro e oltre il valore normale) come variazioni in aumento/diminuzione in dichiarazione, sempre per l’ammontare compreso entro il valore normale e per l’ulteriore parte eccedente, solo se il contribuente ritiene di essere in grado di fornire le prove “ridotte” di cui al novellato articolo 110, comma 11, Tuir.

Si ricorda che la mancata separata indicazione in dichiarazione, pur non

comportando l’indeducibilità dei costi, comporta l’irrogazione di una sanzione pari al 10% del relativo ammontare, con un minimo di 500 € ed un massimo di 50.000 €13.

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NOTE:

1 B. Santacroce – D. Pezzella, Il decreto sulle semplificazioni fiscali prova a fare chiarezza sull’indeducibilità dei costi da reato, in Corr. Trib., 2012

2 O.di Giovine, Rassegna Tributaria n.6 nov-dic 2012

3 O. Di Giovine, Rassegna Tributaria n.6 nov-dic 2012,pag.1383 4 Circolare AdE n.32/2012

5 S.Screpanti, “l’indeducibilità dei costi da reato”, in Rass.Tribut.,2004 6 S.Capolupo, Il Fisco, n.12 del 2017, pag.1-11

7 it.wikipedia.org/wiki/Costo

8 al riguardo, si veda, ad esempio, Cassazione, sentenza n.12503/2013 9 Studiocerbone.com, Deducibilità dei costi da reato

10 F.Tundo, Indeducibilità dei costi da reato: i difficili rapporti fra processo penale e tributario, Corriere Tributario, 22, 2012, p.1682

11Agenziaentrate.gov.it

12 Cassaz. Civ., sez. trib., 23 febbraio 2010 n.4306

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Capitolo 4

Casistiche operative di applicazione della vigente normativa

4.1 Proventi da meretricio

Negli ultimi 20 anni, sempre maggiore è il numero di pronunce sull’argomento dei proventi da attività di prostituzione, dovuto anche ai “numeri” che porta con sé suddetta professione: il relativo volume d’affari pare aggirarsi, solo in Italia, intorno ai 5 miliardi di euro annui1.

La rilevanza economica dell'argomento nasce dalla circostanza che specifiche attività "illegali" sono incluse nella stima dei conti nazionali e, quindi, nel prodotto interno lordo già dall'anno 1995, secondo quanto stabilito dal Sistema europeo dei conti nazionali e regionali(Sec)in base al quale, per stabilire il reddito di una nazione bisogna tenere conto anche di attività vietate dalle leggi nazionali, ma che hanno caratteristiche di scambio volontario tra i soggetti. Per molti anni “ha fatto legge” una pronuncia della Corte di Cassazione risalente al 1986, dove si sanciva la non tassazione dei proventi da meretricio in quanto venivano assimilati a dei risarcimenti danno subiti dalla prostituta “a causa della lesione dell’integrità, della dignità di chi abbia subito l’affronto della vendita di sé”.

Inoltre, veniva ricollegata ad una questione etico-morale: l’attività in questione, ponendosi in contrasto col buon costume, non poteva dar vita a redditi di lavoro autonomo o dipendente.

Filone ideologico che è stato confermato dalla Commissione Tributaria di Milano nel 2005: la pronuncia riguardava il caso di una contribuente che manifestava palesi incrementi patrimoniali che non risultavano dalla relativa dichiarazione dei redditi. I giudici hanno ritenuto di confermare la tesi della natura risarcitoria del provento.

72 Tuttavia, la soluzione espressa in giurisprudenza ha generato dubbi in dottrina, in quanto è stata sottolineata l’esistenza di una libera contrattazione fra le parti contraenti.

La medesima sentenza, è stata rinviata in sede regionale nel 2007: la commissione tributaria regionale ha formulato la richiesta di produrre, ai fini della prova contraria, i documenti idonei a dimostrare l’origine delle disponibilità e la loro precisa qualificazione.

L’impossibilità di produrre prove documentali a testimonianza dell’ammontare ha portato i giudici a confermare l’accertamento.

Un’ulteriore pronuncia che ha avuto un impatto rilevante sull’argomento è sicuramente costituita da quella della Commissione tributaria provinciale di Firenze2, la quale ha optato per la tassazione come “redditi diversi” ai sensi

dell’art.67, comma 1, lett 1) del DPRn. 917/1986.

L'attività, fiscalmente, deve essere considerata alla stregua di qualsiasi servizio fornito a fronte di una retribuzione: la natura particolare del servizio non deve distogliere e deviare l'attenzione dall'aspetto economico rilevante (prestazione/controprestazione) che la rende fonte di reddito imponibile.

Nella stessa direzione si è mossa anche la Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia3 nel 2009 e dalla Suprema Corte nel 2010, confermando che

l’attività, pur essendo “moralmente discutibile” non può essere considerata illecita.

Ai fini dell’imposizione diretta, la tassazione dei proventi da prostituzione può essere individuata sotto la species della tassazione dei proventi illeciti (ex art. 14, comma 4, della L. 537/1993), nel senso di civilisticamente illeciti.

Laddove l’illiceità civilistica del negozio stipulato tra prostituta e cliente deriverebbe dalla contrarietà delle prestazioni pattuite al “buon costume”. L’art. 2035 del codice civile dispone del resto che “Chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisce offese al buon

73 costume non può ripetere quanto ha pagato”. La relativa sanzione a questo tipo di illiceità è, quindi, riconducibile alla categoria civilistica della nullità contrattuale. Comunque, sia che i proventi da meretricio siano di natura lecita o sia che siano di natura civilisticamente illecita, non vi è dubbio che essi vadano dichiarati fiscalmente.

La questione, quindi appare possibilmente risolvibile, sul piano delle imposte dirette; la cosa cambia quando si deve valutare la rilevanza di tale attività ai fini dell’imposta indiretta (IVA), in quanto la struttura dell’IVA, richiede la predisposizione di documenti formali. All’attività di meretricio, naturalmente, non sarebbe possibile associare un codice-attività, quindi sarebbe contraddittoria una eventuale contestazione da parte dell’amministrazione finanziaria per omessa certificazione.

Il tema dell’imponibilità, ai fini Iva, dei proventi da attività di meretricio è stato oggetto di autorevole pronuncia della Corte di Giustizia europea, la quale, nel 2001, ha stabilito che “la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita, la quale rientra nella nozione di attività economiche” e, in quanto tale, è da classificare tra le attività svolte in qualità di “lavoro autonomo, qualora sia dimostrato che (tali attività) sono svolte dal prestatore di servizio: senza alcun vincolo di subordinazione per quanto riguarda la scelta di tale attività, le condizioni di lavoro e retributive; sotto la propria responsabilità; a fronte di una retribuzione che gli sia pagata integralmente e direttamente”. Questa disciplina trova applicazione a patto che l’attività in oggetto non sia configurata come illegale nel Paese di riferimento. Non paiono dunque sussistere, ormai, dubbi in ordine all’imponibilità dei proventi in parola. E quindi, più che nuove proposte normative, bisognerebbe semplicemente applicare la disciplina già esistente.

Anche la Cassazione, tramite la sentenza n.15596 del 27 luglio 2016, aveva

74 proventi risultanti da conti correnti bancari, sarebbe stata soggetta alla tassazione degli stessi, in quanto attività configurabile come lavoro autonomo se svolta in forma abituale, oppure ricompresa nella categoria dei redditi diversi se svolta, sempre autonomamente, ma in forma occasionale.

La Corte di Cassazione, poneva l’accento sul fatto che il TUIR non fornisse una definizione unitaria di “reddito”, ma numerose categorie accoumante dall’elemento dell’origine della ricchezza da una fonte produttiva.

Osserva, quindi, la Corte, che “la natura reddituale attribuita ex lege ai proventi delle attività illecite, con la conseguente tassabilità quali ‘redditi diversi’, comporta, a maggior ragione, che venga riconosciuta natura reddituale all’attività di prostituzione, di per sè priva di profili di illiceità.”

Una puntuale disciplina regolante l’attività di meretricio è invece presente in numerosi Stati europei, nei quali è prevista espressamente l’obbligazione tributaria per coloro che traggono proventi da detta attività.

Si tratta del c.d modello regolamentarista, il quale fornisce regole di natura amministrativa per l'esercizio della prostituzione, la delimitazione delle aree o dei locali in cui può essere praticata l'attività e la tenuta di apposti registri con l'indicazione dei nominativi delle esercenti la professione.

È il caso di paesi come Paesi Bassi, Austria, Germania, Lettonia, dove le sex workers hanno diritti e doveri analoghi ai comuni prestatori di lavoro, con possibilità di accesso alla previdenza sociale e di riunione in sindacati. Lo stesso, all'interno dei confini europei ma al di fuori di quelli dell'Unione, accade anche in Svizzera.

L’ultimo disegno di legge, in ordine cronologico, avente la finalità di regolamentazione dell’attività di meretricio è stato la proposta di legge n. 3890 presentata il 9 giugno 2016 a firma della deputata Bini, la quale contiene una modifica all'art. 3 della L. n. 75/1958, (cd. “legge Merlin”).

75 Avrebbe previsto l’introduzione all’interno dell’ordinamento di una nuova fattispecie penale: quella dell'acquisto di servizi sessuali, prevedendo per coloro che si fossero avvalsi di prestazioni sessuali da parte di soggetti che esercitano la prostituzione, una multa da 2.500 a 10.000 euro, salvo che la condotta non costituisca più grave reato, e, in caso di reiterazione, la reclusione fino a un anno e la multa da 2.500 a 10.000 euro, concedendo, però la possibilità di sostituire la pena con quella del lavoro di pubblica utilità su richiesta del condannato. Le relative origini giurisprudenziali risalgono, indubbiamente, al cd. modello nordico, vigente in Paesi come l’Irlanda del Nord e la Svezia, il quale prevede sanzioni per il cliente e non già per l'esercente il meretricio sul presupposto che tale attività costituisca sempre ipotesi di violenza dell'uomo nei confronti della donna.

Numerosi studi internazionali dimostrano che la legalizzazione porta a un aumento della domanda e dunque a un aumento della prostituzione, ma essendo la nostra una trattazione di stampo tributaristico e non morale, la nozione sulla quale deve ricadere la nostra attenzione riguarda il fatto che tale regolamentazione non ha portato alle entrate fiscali sperate: da un lato, a causa dell’indole delle persone, le quali, subendo i giudizi morali della società, non vogliono essere associate alla prostituzione, per cui non pagano le tasse, dall'altro perché, anche laddove è regolamentato, il fenomeno della prostituzione rimane in gran parte gestito dalla criminalità organizzata, la quale evade le tasse.

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