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Proventi e costi da illecito e prelievo fiscale - Ricostruzione sistematica ed evoluzioni giurisprudenziali

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Pisa

FACOLTA’ DI ECONOMIA Corso di Laurea Specialistica in

“CONSULENZA PROFESSIONALE ALLE AZIENDE”

Dipartimento di Economia e Management

PROVENTI E COSTI DA ILLECITO E PRELIEVO FISCALE

Ricostruzione sistematica ed evoluzioni giurisprudenziali

Relatore: Simone LOMBARDI

Controrelatore: Nicolò ZANOTTI

Candidato: Edoardo Gianmarco BALDINI

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INDICE

Indice 3

Introduzione 6

Capitolo 1

EVOLUZIONE STORICA DEL TRATTAMENTO DEI

PROVENTI DERIVANTI DA ATTIVITA’ ILLECITE

1.1 Principi generali 16

1.2 Teorie pro e contro la tassabilità dei proventi derivanti da attività 17

illecite 1.3 Dottrina contraria 20 1.4 Dottrina favorevole 23 1.5 Orientamenti giurisprudenziali 24

Capitolo 2

ATTUALE DISCIPLINA

2.1 Legge 24 dicembre n.537/1993 31 2.2 Profili di costituzionalità 34 2.3 Co.34-Bis Art.36 D.l. 223/2006 36 2.4 Confisca e sequestro 38

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Capitolo 3

INDEDUCIBILITA’ DEI COSTI DA REATO

3.1 Interventi legislativi 46

3.2 Rilevanza azione penale 54

3.3 Rimborso 56

3.4 Efficacia temporale della norma 58

3.5 Fatture soggettivamente e oggettivamente inesistenti 59

3.5.1 Frodi carosello 63

3.5.2 Fatture provenienti da paesi “black list” 68

Capitolo 4

CASISTICHE OPERATIVE DI APPLICAZIONE DELLA

VIGENTE NORMATIVA

4.1 Proventi da meretricio 71

4.2 Tangenti 76

4.2.1 Premessa generale 76

4.2.2 Sentenza n.1058/2008 76

4.2.3 Non rilevanza del possesso 78

4.3 Attività mafiosa 80

4.3.1 Le misure di prevenzione 81

4.3.2 Disciplina fiscale applicabile ai beni sequestrati/confiscati 83

4.3.3 Excursus storico 84

4.3.4 Disciplina vigente 85

4.3.5 Modifiche dell’art.32 D.lgs. 21 novembre 2014, n.175 87

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Introduzione

Scopo della presente trattazione è analizzare gli strumenti utilizzati dal legislatore in merito alla tassazione dei proventi da reato, alla deducibilità dei relativi costi e alla loro eventuale dichiarazione.

Non si tratta di temi novelli, giacche' hanno costituito oggetto di dibattito sia per la dottrina sia per la giurisprudenza, da ormai diverse decadi.

Spesso però la loro trattazione ha portato a risultati contrastanti e posizioni poco conciliabili fra loro, scaturite da soluzioni normative che talvolta si sono rivelate inadeguate, altre volte mal collegate con le precedenti previsioni o altre volte ancora dotate di efficacia ridotta.

Il primo riferimento giurisprudenziale risale addirittura al 1871, quando la Corte di Cassazione di Firenze sancì la non assoggettabilità a tassazione dei proventi derivanti da reato a causa delle loro origine, non consona al decoro dello Stato. Questo portò alla formazione di un orientamento, che col passare degli anni, è stato consolidato da sempre più numerose argomentazioni: autorizzare l'imposizione dei proventi illeciti significava conferire loro legittimità; altri invece sostenevano che richiedere un prelievo coattivo per il conseguimento di un provento derivante da attività di reato fosse lecito, ma non a titolo di imposizione bensì a titolo di sanzione, altri ancora promuovevano la tesi secondo la quale il provento illecito potesse essere solamene oggetto di confisca, poiché il diverso trattamento della tassazione avrebbe permesso allo Stato di conseguire un beneficio economico che riconosceva la sua origine in un atto o fatto contrario alla legge penale, rendendolo "complice" del reato.

Non mancavano certo sostenitori della tesi opposta: chi sosteneva l'imposizione dei proventi illeciti basava le sue tesi sul fatto che un problema giuridico non poteva essere fatto slittare su una questione etico-morale e che fosse sufficiente

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7 la presenza di un reddito, conseguito a qualsiasi titolo, per giustificare l'imposizione tributaria.

La mancanza di un intervento deciso da parte del legislatore per molti anni ha sicuramente inasprito il dibattito.

Ai fini del cambiamento di pensiero della giurisprudenza ha sicuramente giocato un ruolo decisivo la sentenza della Corte di Cassazione del 30 luglio 1952 che ha ammesso, per la prima volta, la tassazione dei proventi da reato, sostenendo che l’unico elemento rilevante ai fini dell’imposizione fosse il conseguimento di una ricchezza che rientrasse nella disponibilità del soggetto e che se questa fosse stata confiscata, l’imposizione non sarebbe più stata una strada percorribile. Come però abbiamo accennato inizialmente, la giurisprudenza di rado ha pedissequamente seguito una linea di pensiero uniforme sull’argomento.

Incoerenza che emerge già nel 1986 quando la Cassazione, con la sentenza del 29 gennaio n.179, conferma sì il precetto secondo il quale si ammette la tassazione dell’incremento patrimoniale proveniente da qualsiasi attività, ma che tale disposizione debba essere recepita all’interno del contesto dei principi generali sanciti dall’ordinamento, rapportandola, quindi, solo a quelle attività sorrette da un titolo giuridico legittimo.

L’incoerenza che ha da sempre contraddistinto l’attività del legislatore in materia, risulta lampante nel 1993, con riferimento a due distinti interventi, rispettivamente della giurisprudenza e del legislatore.

Il primo proviene dalla Corte di Cassazione, riunitasi in Sezioni Unite, la quale respinge di nuovo l’imposizione dei redditi illeciti con la sentenza del 12 novembre. I motivi del rifiuto risiedono nel fatto che, anzitutto, il reddito deve poter essere riclassificato in una delle categorie previste dal D.P.R. n.917/1986 (TUIR), elencazione che, chiaramente, non riporta i proventi da reato.

In aggiunta si vogliono evidenziare le misure ablatorie come contrapposte alla tassazione; perciò il reddito illecito non dovrebbe essere sottoposto a tassazione,

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8 bensì oggetto di confisca o restituzione.

La mancanza di uniformità risiede nella pronuncia stessa dal momento che pare ammettere la tassazione dei redditi illeciti derivati da un’attività lecita, esercitata senza la necessaria autorizzazione, a meno che il giudice non abbia esercitato il potere discrezionale della confisca.

Ma la tassabilità di un provento dovrebbe essere una sua caratteristica intrinseca, e non può dipendere dalla discrezionalità di un giudice.

Il secondo intervento a cui voglio far riferimento è la Legge 24 dicembre 1993, n.537, emessa sull’onda del fenomeno “tangentopoli”.

Costituisce il primo vero intervento del legislatore teso a disciplinare la tassazione dei proventi illeciti.

Cruciale è l’art. 14 co.4 di tale legge, il quale dispone:

“Nelle categorie di reddito di cui all'articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria.”

Ha sicuramente il merito di porre fine alle argomentazioni che censuravano la tassazione dei proventi da reato sulla base di una questione etico-morale.

Sancisce il principio di “neutralità” del reddito rispetto alla fonte, rinnegando orientamenti dottrinali e giurisprudenziali del passato che talora ammettevano o negavano la tassazione a seconda del tipo di reato commesso.

La legge 537/1993 non è in grado, purtroppo, di risolvere tutte le problematiche relative al tema dell’imposizione tributaria dei proventi illeciti, ma sposta la

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9 questione su un altro piano: pretende il collegamento della ricchezza ottenuta illecitamente con una delle categorie previste dell’art.6 del TUIR, per cui, un’eventuale lacuna di collegamento comporterebbe l’esclusione dalla tassazione.

Non sono certo mancate critiche all’intervento del legislatore; alcuni hanno rimproverato l’aver previsto solo 2 strumenti ablatori tralasciando risarcimento del danno e restituzione; altri il fatto che non sia stato chiarito la precisa collocazione temporale di confisca o sequestro affinché siano in grado di impedire la tassazione.

Difficoltà applicativa che verrà risolta solo da un ulteriore intervento legislativo, tramite la previsione dell’art 36 co.34-bis D.L. 4 luglio 2006, n.223, il quale dispone:

“i redditi illeciti ivi indicati, se non classificabili nelle categorie dell’art.6 TUIR, sono comunque considerati redditi diversi”

Anche la deducibilità dei relativi costi ha subito modifiche sostanziali nel corso del tempo.

Il primo intervento di spessore è da ravvisarsi nella legge 27 dicembre 2002, la quale tramite l’art.2 co.8 ha previsto il co.4-bis dell’art.14 Legge 537/1993. Il quale recitava: “Nella determinazione dei redditi di cui all'art. 6 comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l'esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti. “

Disposizione che lasciava ampi, forse eccessivi, margini di manovra all’Amministrazione Finanziaria.

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10 Legge n.16 del 2 marzo 2012, convertito dalla Legge 26 aprile 2012 n.44, che ha sostituito l’ormai obsoleto art.4-bis con:

”Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6,comma1, del testo unico delle imposte, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’articolo 530 del codice di procedura penale ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 529 del codice di procedura penale , compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi.”

Viene posto sull’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare la sussistenza del vincolo che lega il costo sostenuto al compimento del reato. La non uniformità alla previgente normativa concerne le attività che sono legate a comportamenti illeciti solo in parte; infatti, i costi sostenuti per il compimento di un’attività non direttamente riconducibile al reato si possono considerare completamente deducibili.

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11 trattato, ovvero l’uso di fatture oggettivamente e soggettivamente inesistenti. Reati previsti dall’art.2 del Decreto Legislativo 74/2000, che hanno il fine di evadere le imposte sul valore aggiunto o sul reddito, tramite l’utilizzo di fatture “false”.

La fattura è soggettivamente inesistente quando nella fattura vengono indicati soggetti diversi da quelli effettivi tra i quali avviene l’operazione; mentre si parla di fattura oggettivamente inesistente quando la fattura viene emessa nonostante non sussista alcun tipo di operazione.

Alla qui discussa tematica, la Corte di Cassazione ha dedicato numerose pronunce, tra le più recenti citiamo, per quanto riguarda la fattura soggettivamente inesistente, l’ordinanza n. 25538 del 27 ottobre 2017, la quale ha stabilito che grava sull’amministrazione finanziaria l’onere di provare l’interposizione fittizia del cedente nonché’ la conoscenza o conoscibilità da parte del cessionario della frode realizzata. Spetta invece al contribuente che intende esercitare la detrazione, l’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale ingenerato dalla condotta del cedente.

Indirizzata alle fatture oggettivamente inesistenti è invece la sentenza della Corte di Cassazione 29 novembre 2017 .28572, nella quale pronuncia leggiamo:

“Quanto all’IVA, la ratio della sua indetraibilità in caso di operazioni inesistenti risiede nella considerazione che il diritto del cessionario/committente alla detrazione dell’imposta addebitatagli a titolo di rivalsa dal cedente/prestatore è soggetto – quando si tratti di acquisto effettuato nell’esercizio dell’impresa – ad una duplice condizione: 1) che l’acquirente del bene rivesta la qualità di imprenditore; 2) che sia ravvisabile l’inerenza del bene acquistato all’attività imprenditoriale, ovverosia la strumentalità del bene stesso a tale attività, l’onere della cui prova grava sull’interessato (Cass. nn. 3518/06, 16730/07, 2362/13, 27718/13); ebbene, in caso di operazioni oggettivamente inesistenti, il

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12 diritto alla detrazione dell’IVA non può in alcun modo essere ritenuto – anche sul piano probatorio – sulla base del solo fatto dell’avvenuta corresponsione dell’imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, come detto, l’inerenza dell’operazione all’impresa, che è certamente mancante in relazione al pagamento dell’IVA corrisposta per operazioni (anche parzialmente) inesistenti, in quanto di per sé inidoneo a configurare un pagamento a titolo di rivalsa, trattandosi di costo non inerente all’attività istituzionale dell’impresa, ed anzi potenziale espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse, tali da rompere il detto nesso di inerenza (Cass. nn. 735/10, 6973/15, 18118/2016).”

Nella trattazione della tassazione dei proventi illeciti ritengo che non ci si possa esimere da riservare una particolare menzione per i proventi derivanti da attività mafiosa.

La mafia, secondo l’ultima commissione parlamentare antimafia (presidente Giuseppe Pisanu), avrebbe un fatturato, cioè ricavi pari a 150 miliardi di euro all’anno. C’è chi sostiene che il fatturato sarebbe più basso. Sono stime, non siamo in grado di dirlo con esattezza. Ma prendendo per buone queste stime, possiamo affermare che con i suoi 150 miliardi “Mafia Spa”, una ipotetica holding sotto la quale ci sarebbero tutte le attività delle organizzazioni criminali, sarebbe di gran lunga la prima società italiana per il giro d’affari: avrebbe 40 miliardi di ricavi in più rispetto al primo gruppo italiano, Exor, che ha al suo interno Fiat-Chrysler, Ferrari, Cnh, le assicurazioni Partner Re, la Juventus (111 miliardi il fatturato 2016 di Exor).

Nonostante l’introduzione dell’art.51 del D.lgs. 6 settembre 2011 n.159 (codice delle leggi antimafia), non esiste una disciplina tributaria ad hoc, che si occupi del trattamento da applicare ai beni oggetto di confisca e sequestro.

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13 provvedimento e relativi beni venga recisa, col fine di affidarli ad un custode-amministratore giudiziario.

Significativa, al riguardo, è stata la Circolare 156/E del 2000, la quale stabilisce: “In primo luogo, a scanso di ogni equivoco, è opportuno ricordare che i redditi derivanti dall'amministrazione dei beni sequestrati sono soggetti a tassazione. Non è sostenibile, infatti, la tesi che vorrebbe escludere i suddetti redditi dalla tassazione, sulla base di una forzatura interpretativa dell'articolo 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537. Quest'ultima norma, come è noto, stabilisce che devono intendersi ricompresi nelle varie categorie reddituali di cui all'articolo 6 del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con DPR 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. Come è evidente, la norma appena richiamata non è applicabile alla fattispecie in oggetto: infatti, pur se la provenienza dei beni sequestrati è illecita, l'impiego degli stessi, da parte dell'amministratore giudiziario e sotto la vigilanza del giudice delegato, costituisce attività non soltanto lecita, ma dovuta, in forza delle norme di legge e del decreto di sequestro. Ne consegue che i redditi prodotti dai beni sequestrati non possono beneficiare di particolari esenzioni, ma devono essere assoggettati a tassazione, facendo riferimento alle ordinarie categorie reddituali previste dal TUIR. Diversamente ragionando, si perverrebbe alla paradossale conclusione per cui, in caso di successiva revoca del sequestro, il soggetto indiziato verrebbe a godere di una ingiustificata esenzione fiscale per i redditi prodotti durante la fase cautelare. “

Col la Legge 537/93 il legislatore ha escluso la tassazione dei redditi illeciti “se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”; la previsione del “sequestro penale” causa alcune difficoltà dal momento che quella scaturita dal sequestro è

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14 una situazione provvisoria e sottoposta a mutazioni anche a favore dell’imputato. Nel tal caso non ci sarà più motivo di esclusione da imposizione dei proventi sequestrati e vi sarà la necessita di

stabilire le modalità di pagamento dell’imposta dovuta per il periodo relativo alla durata del sequestro.

Sull’onda di questa disposizione, l’orientamento di alcuni giudici della prevenzione era il non assoggettamento dell’amministrazione giudiziaria a tassazione in relazione ai redditi prodotti dai beni sequestrati/confiscati.

Di diverso avviso l’Agenzia, che tramite la circolare precedentemente nominata, assimilava l’amministratore giudiziario al curatore dell’eredità giacente e prevedeva l’assoggettamento ad imposta.

L’intervento del legislatore del 2001 si pone quindi in linea con la circolare relativa all’anno precedente.

In conclusione, il legislatore ha disciplinato un sistema generico di tassazione provvisoria a carico del patrimonio sequestrato senza tuttavia disciplinarne nello specifico i contenuti.

Diverse incertezze e dubbi richiedono un ulteriore intervento normativo: la norma non chiarisce, ad esempio, chi sia il soggetto che deve emettere le fatture, se queste devono essere emesse a nome dell’amministrazione giudiziaria; né il soggetto a cui devono essere notificati gli atti di accertamento, né quello legittimato ad impugnarli.

Intervento normativo che giunge con il D.lgs. 21 novembre 2014 n.175; la cui finalità è circoscrivere l’ambito di applicazione del regime fiscale speciale per i beni immobili oggetto di sequestro e confisca non definitiva ed evitare che l’amministrazione giudiziaria anticipi il versamento di somme in una fase del procedimento di prevenzione in cui non è ancora chiara la destinazione finale dell’immobile che è stato appreso.

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15 un’esenzione da imposte, tasse e tributi per gli immobili soggetti a sequestro/confisca, in luogo dell’esenzione viene prevista la “sospensione del versamento”.

Essendo sospeso il solo versamento, permangono gli obblighi dichiarativi e liquidatori durante la vigenza dei provvedimenti di confisca non definitiva e sequestro.

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Capitolo 1

Evoluzione storica del trattamento dei proventi derivanti da

attività illecite

1.1 Principi generali

"Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”

È quanto dispone l'art.53 della Costituzione, stabilendo che ogni cittadino deve adempiere al pagamento delle imposte sulla base della propria possibilità economica. Il co.2 stabilisce un principio ancor più circoscritto nel momento in cui prevede:

" il sistema tributario è informato a criteri di progressività"

La progressività tributaria relaziona il pagamento richiesto alla sua capacità di farvi fronte. Dovere tributario, quindi, sancito dal già citato articolo e ribadito dall'art.2 della Costituzione stessa:

"la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale"

Già questi primi due articoli costituzionali ci forniscono un’interessante spunto di riflessione ai fini della nostra trattazione: la mancanza di riferimento alcuno

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17 alla fonte che genera la capacità contributiva.

La tassabilità o meno dei redditi derivanti da attività illecita è stato oggetto di ampia discussione giurisprudenziale in passato.

1.2 Teorie pro e contro la tassabilità dei proventi derivanti da

attività illecite

Ritengo sia utile ricordare come il problema dell’imposizione dei proventi illeciti avesse acquisito considerevole importanza agli inizi degli anni ’90, con lo scoppio dello scandalo Tangentopoli.

Il riferimento cronologico può rappresentare un ausilio per comprendere le ragioni per le quali si fossero costituite le impostazioni giuridica ed economica. La tesi giuridica basava le sue conclusioni su un piano maggiormente tecnico: negava la tassabilità a causa della lacuna di una giusta causa di imposizione del tributo, più precisamente, riteneva non potesse essere considerato come elemento costitutivo del presupposto del tributo un elemento non conforme al diritto.

La tesi economica, invece, considerava ingiusto riconoscere all’autore dell’attività illecita il fatto che potesse anche godere dei frutti di questa. A questa asserzione veniva riconosciuto un carattere sanzionatorio che si sarebbe andato inevitabilmente a scontrare con il carattere secolarizzato e laico che dovrebbe ispirare un moderno sistema giuridico1.

Il crearsi di diverse posizioni è dovuto al ritardo con cui il legislatore ha disciplinato la materia, compiendo un intervento decisivo solo nel 1993, lasciando che si rafforzassero delle posizioni contrastanti fra loro, seppur legittime.

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18 tassazione delle attività illecite o che le escluda dalla possibilità di rientrare fra i redditi tassabili.

Come avremo modo di osservare, la giurisprudenza che si opponeva alla tassazione dei proventi illeciti basava le proprie tesi su tre capisaldi principali:

1- incompatibilità tra la previsione di un fatto come imponibile e la previsione dello stesso fatto come illecito

2- non previsione, da parte del legislatore fiscale, dell’attività illecita tra le fonti di reddito

3- inidoneità, del reddito illecito, ad essere oggetto di possesso (in quanto soggetto a confisca, restituzione, sequestro, etc…)

Il loro punto di debolezza, però, era rappresentato dal fatto che giustificavano la non imponibilità facendo riferimento a valutazioni di tipo etico-morali piuttosto che giuridiche.

Nella prima giurisprudenza sull’argomento, molti esponenti della dottrina erano soliti ricorrere a una triplice classificazione degli illeciti, i cui redditi generavano dubbi riguardo la relativa tassazione:

1- Illeciti amministrativi 2- Illeciti civili

3- Illeciti penali

Lo Stato predispone degli strumenti repressivi dei fatti illeciti mediante l’attuazione di sanzioni personali e pecuniarie al fine di rimuovere le conseguenze dell’illecito, prima fra tutte, l’arricchimento indebito.

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19 Un primo riferimento normativo che nega la tassazione dei proventi illeciti è rappresentato dalla pronuncia della Corte di Cassazione di Firenze del 25 marzo 1871. La causa riguardava la possibile imposizione dei proventi realizzati da una casa di tolleranza; la sentenza ebbe esito negativo in quanto lo Stato, assoggettando a tassazione quei proventi, si sarebbe reso “complice” dell’iniquità intrinseca in quell’attività.

Ammettendoli ad imposizione, si sarebbe creata una contraddizione per la quale sarebbero stati consentiti a partecipare alla spesa sociale anche redditi che non avrebbero dovuto esistere in quanto sorti con l’intenzione di aggirare lo Stato e le sue norme.

La sentenza fu oggetto di critiche già all’inizio del ‘900: Fasolis e Quarta ne contestarono il fatto che un problema giuridico non possa in alcun modo essere risolto o fatto scivolare su un piano etico, morale o politico.

Griziotti e Morselli vedevano invece, nell’agire dello Stato, la necessità di muoversi secondo dettami etico-morali.

L’argomentazione più articolata in proposito alla questione, per così dire, etica della liceità della tassazione dei proventi da natura illecita è probabilmente quella contenuta nella trattazione di Forte2, che in un suo studio del 1952

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1.3 La dottrina contraria

Nel concetto di “reddito” sono state rinvenute le basi teoriche a sostegno della non tassabilità dei proventi di natura illecita: se la definizione di reddito, infatti, non può prescindere dalle norme e dai principi generali del nostro ordinamento, appare evidente che non si possa assegnare al reddito un significato giuridico, dal che deriva l’impossibilita di accogliere fra i redditi tassabili, quelli per i quali in qualche modo si sia ricorsi in atti illeciti.

Dopo un periodo di crisi, è emerso un orientamento che riteneva opportuno tassare tutti quei proventi derivanti da attività che potevano configurare un illecito civile o amministrativo, mentre perdurava il rifiuto di ammettere a tassazione i proventi che si costituivano come reati penali.

Appare scontato che i proventi derivati da un illecito civile debbano rientrare nella base imponibile, in quanto l’obbligazione risarcitoria determina solamente l’entità del reddito formatosi e non ne impedisce la formazione.

Per quanto riguarda gli illeciti amministrativi, sia la dottrina sia la giurisprudenza erano concordi nell’affermare la possibilità che i redditi da essi provenienti dovessero essere tassati, in quanto la mancanza delle relative autorizzazioni non cancella in modo alcuno la percezione del corrispettivo per la prestazione fornita.

Perciò risulta lampante che l’eventualità o meno di sottoporre a tassazione le risorse provenienti dalle varie tipologie di reato dipende dal fatto che quelli penali sono completamente contrari al sistema.

Una tesi più composita, che comunque segue il principio di fondo di negazione dell’imposizione fiscale per la ricchezza illecita, è quella di Falsitta3 il quale

compie una distinzione delle varie forme di illecito. Individua quattro categorie di illecito:

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21 • Attività civilmente illecite

• Attività contrarie a norme di polizia • Attività contrarie a norme fiscali • Attività penalmente illecite

Nella prima tipologia sono ricomprese le attività che sono contrarie al buon costume, all’ordine morale e all’ordine pubblico.

La seconda categoria tratta di attività lecite, dove il carattere illecito risiede nella mancanza di relativa autorizzazione o licenza: si configurano come illecito amministrativo.

La terza tipologia è composta da atti illeciti che risultano contrari ad interessi dello Stato, per i quali sono previsti sia sanzioni penali sia il pagamento dei tributi non versati.

Nella quarta categoria, infine, troviamo gli illeciti che si configurano come reati penali.

Falsitta sostiene che le prime tre tipologie sono da considerarsi come tassabili, mentre la quarta, essendo totalmente illecita, non può rappresentare un’entità imponibile.

Sulla stessa linea si posiziona anche Croce4, il quale ritiene che assoggettare ad

imposizione questo tipo di proventi avrebbe come diretta conseguenza quella di legittimare la differenza fra profitto illecito e imposta.

Boria5ci fornisce una tesi più innovativa: quella per cui i redditi da proventi

illeciti, ancorandosi all’istituto della confisca, il quale autorizza l’eliminazione del reddito imponibile con la conseguenza di impedire il manifestarsi dell’obbligazione tributaria, si suddividono in tre tipologie:

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22 • Redditi che nascono da attività in sé lecite, ma che mancando delle autorizzazioni necessarie, danno origine ad atti illeciti ai quali non è applicabile la confisca penale, non rappresentando reati in senso stretto • Illeciti amministrativi soggetti a confisca amministrativa (art.20

L.689/1991)

• Proventi derivanti da reati e quindi passibili di confisca obbligatoria o facoltativa

Il carattere facoltativo o obbligatorio della confisca dipende dal fatto se il reato costituisca “profitto” del reato oppure “prezzo” del reato; in quanto, nel primo caso, essendo la confisca subordinata alla discrezionalità del giudice, la tassazione rimane un’opzione possibile; mentre nel secondo caso l’imposizione non è applicabile nel modo più assoluto.

Un primo spartiacque sull’argomento è sicuramente costituito dal DPR 29/09/1973 n.537, con il quale il legislatore ha, perlomeno, tentato di chiarire lo scopo dei suoi interventi.

All’art.1 veniva fornita una definizione del presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche:

“il possesso di redditi, in denaro o in natura, continuativi od occasionali, provenienti da qualsiasi fonte”

L’art. 80 ribadisce: “alla formazione del reddito complessivo [..] concorre ogni altro reddito diverso da quelli considerati dalle disposizioni del presente decreto”.

Parte degli studiosi e della giurisprudenza giudicarono che la linea fornita dai suddetti articoli non permettesse di arrivare ad una soluzione univoca in merito

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23 alla tassazione o non tassazione di questi proventi, in quanto interpretarono come implicito il concetto di “purché lecito”.

Un punto a favore di quest’ultima tesi è innegabilmente costituito dall’emanazione, nel 1986, del DPR 22 Dicembre n.917, nel quale l’espressione “da qualsiasi fonte” viene invalidata a favore della puntuale casistica fornita dall’art.67 TUIR.

1.4 Dottrina favorevole

Anche tra coloro che concordano in merito alla tassazione dei proventi di natura illecita, le posizioni sono diverse, ma concordano tutte su un assunto di base: la separazione fra tematiche etico-morali e tematiche fiscali.

Una delle prime teorie che ha formulato questa conclusione è sicuramente quella di Forte, il quale sostiene che qualsiasi tipo di ricchezza è idonea ad incrementare la “capacità contributiva” dell’individuo.

Il concetto fondamentale risiede nella neutralità della capacità contributiva rispetto alla fonte del reddito: è chiaro che tale interpretazione giustifica a pieno titolo l’imposizione dei proventi illeciti.

Si basa, invece, su elementi diversi la tesi di A. Mangione, secondo il quale l’assoggettamento ad imposizione risponde al principio di uguaglianza a parità contributiva6: non sottoporre al pagamento del tributo coloro che si sono

arricchiti in modo illecito sarebbe contrario al principio di uguaglianza secondo il quale lo stesso soggetto, se avesse agito secondo legge, sarebbe stato sottoposto a tassazione.

Queste conclusioni escludono, quindi, quei presupposti secondo i quali lo Stato sarebbe passibile di favoreggiamento piuttosto che di ricettazione in quanto richiedente una parte dei proventi ottenuti dagli illeciti; dal momento che il

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24 favoreggiamento richiede che l’autore del reato abbia avuto un concreto aiuto nell’opera delittuosa volta al perseguimento di un vantaggio, non ex-post, come sarebbe, nel momento in cui lo Stato chiede di tale arricchimento il pagamento dell’imposta.

Anche l’intervento del legislatore negli anni Settanta pare sostenere la loro tesi. Dalla combinata lettura degli artt. 1 e 80 del DPR 597/1973 si evince la decisione di abbandonare il concetto di prodotto a favore del concetto di reddito-entrata, facendo divenire superflua la discussione sulla fonte del reddito che può essere anche illecita.

1.5 Orientamenti giurisprudenziali

Storicamente, la posizione della giurisprudenza riguardo l’imposizione dei proventi da reato è stata confusa e, in alcuni casi, contraddittoria.

È possibile individuare un “filone di pensiero” di fine ottocento che concorda nell’escludere da tassazione un reddito legalmente non dovuto, se ottenuto illegalmente o se prodotto da attività contrarie alla morale o pubblico decoro. Una prima svolta è rappresentata dalla sentenza della Corte di Cassazione del 30 Luglio 1952 (Cassazione civile):

“la legge organica prende in considerazione solo la manifestazione economica nella sua obiettività, indipendentemente da ogni riferimento alla natura dell’attività che genera il reddito. I caratteri di tale attività, compresa la liceità o meno, sono rilevanti per il diritto a esigere l’imposta, che sorge per il solo fatta dell’esistenza di un reddito. Il reddito qualunque sia la fonte per il solo fatto della sua esistenza materiale, è soggetto ad imposta. L’illiceità penale o civile dell’attività che la produce o la mancanza di una specifica licenza o

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25 autorizzazione non fa venir meno la manifestazione economica nella sua oggettività e, quindi, l’esistenza stessa del reddito”

Tale sentenza ha due indubbi meriti: innanzitutto consente la conciliazione delle posizioni tra coloro che ritengono che la tassazione dipenda dal solo possesso e chi ritiene che laddove vi sia azione penale, non vi possa essere imposizione tributaria; in secondo luogo salvaguardia la possibilità, nel caso in cui non si possa procedere con la confisca, che il soggetto sia assoggettato almeno all’imposizione tributaria.

Due ulteriori pronunce sono indicative per rendere conto degli orientamenti che la giurisprudenza ha avuto nelle ultime decadi: Corte di Cassazione del 15 Ottobre 1984 n.5170 e del 29 Gennaio 1986 n.179.

Nella sentenza del 1984 si è ribadita una linea di pensiero già conosciuta: che l’obbligazione di restituzione si sostituisce a quella del tributo.

Più’ interessante la seconda pronuncia nella quale si stabilisce che l’incremento patrimoniale debba provenire da un’attività che rispetti la condizione della legittimità.

Fornisce indubbiamente numerosi spunti di riflessione la sentenza del 12 Novembre 1993 della Corte di Cassazione. Il primo è rappresentato dal fatto che la Corte ha respinto la tassabilità dei proventi da reato facendo riferimento alla definizione di reddito, la quale, fondandosi sul concetto espresso nel DPR 597/1973 e del DPR 917/1986, non prevede i proventi da reato. I giudici ritengono che si debba leggere l’art.53 della Costituzione in correlazione con gli arti.1, 2 e 41. Questi richiamano il lavoro che si costituisce statutivamente come un lavoro lecito. Il legislatore, attraverso “la restituzione, il risarcimento del danno, l’obbligatorietà della confisca e l’esercizio del potere discrezionale di disporla” non avrebbe lasciato spazio ad altre soluzioni. Lo scopo delle Sezioni Unite è di esaltare le misure ablatorie come contrapposte alla tassazione; il

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26 principio di capacità contributiva verrebbe qui leso dalla Corte, in quanto verrebbe assoggettato a tassazione un reddito che non è nella disponibilità’ del percettore; perciò’ il reddito del soggetto che ha compiuto l’illecito non andrebbe decurtato attraverso la tassazione, ma andrebbe trasferita allo Stato l’intera sua ricchezza. In talune parti la sentenza della Corte appare piuttosto sommaria: sembra cadere in contraddizione nell’ammettere la tassabilità dei redditi illeciti derivati da un’attività lecita, ma esercitata senza la necessaria autorizzazione. Sebbene in linea di massima la Corte sia giunta ad affermare il principio della non tassabilità dei redditi illeciti derivati da un’attività lecita, ma esercitata senza la necessaria autorizzazione. Sebbene in linea di massima la Corte sia arrivata a sancire la non tassabilità dei proventi da reato, in questo caso sembra consentirla, a patto, però, che il giudice non abbia deciso di applicare la confisca facoltativa. Non convince neanche la soluzione secondo la quale si dovrebbe rendere legittimo il possesso del provento in caso di confisca non disposta; l’imposizione di una ricchezza non può’ sottostare alla discrezionalità di un giudice.

Il primo decisivo intervento da parte del legislatore è costituito dalla Legge 24 Dicembre 1993, n.537.

L’ art.14 comma 4 della suddetta legge stabilisce che:

“nelle categorie di reddito di cui all’art.6, comma 1, del TUIR, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n.917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi da fatti, atti o attività’ qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, se non già’ sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria.”

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27 L’intervento del legislatore, seppur auspicato, è giunto tardivo e non chiaro nella formulazione.

L’illiceità perciò diviene irrilevante nei confronti dell’identificazione della base imponibile delle imposte sul reddito. Pare opportuno puntualizzare che la confisca esclude la tassazione in quanto opera sul presupposto soggettivo del tributo, privando l’autore dell’illecito del possesso della ricchezza e non in ragione dell’incompatibilità fra imposta e sanzione penale.

Come si evince dalla pronuncia, non si fa riferimento alcuno alla suddivisione fra i vari tipi di illecito (penale, amministrativo, civile) alla quale era molto legata, come abbiamo potuto notare, la giurisprudenza e dottrina degli anni ’80. Questo ha portato senz’altro a semplificazioni riguardo la determinazione della categoria di illecito.

Un ulteriore aspetto che desta dubbi e indeterminatezza è il richiamo alle categorie di legge di reddito previste dal TUIR: solo nel caso in cui l’attività illecita produca un reddito identificabile in una ben specifica categoria del TUIR sarà’ possibile assoggettarlo a tassazione.

Un concetto sul quale ritengo sia opportuno focalizzare l’attenzione risiede nel già’ citato art.4 della Legge 537:

“….se non GIA’ sottoposti a sequestro o confisca penale..”

Così facendo, la ragione giustificativa della tassazione viene fatta risiedere nella disponibilità materiale del provento da parte dell’autore dell’illecito, piuttosto che sulla sua origine.

Dopo aver sancito il principio secondo il quale la natura reddituale non subisce modificazioni o svanisce per il solo fatto che l’attività che l’ha generata sia viziata da illecita’, il legislatore per poterle assoggettare a imposta ha fissato due condizioni:

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28 1- riconducibilità ad una delle categorie reddituali del TUIR

2- non già sottoposti a sequestro/confisca

Come abbiamo già detto in precedenza, questo intervento del legislatore non fu certo esente da critiche.

Una prima critica che è stata mossa è stata quella di aver ammesso solo due tipi di provvedimenti ablatori tralasciando soluzioni come:

- il risarcimento del danno (di cui all’art.2509 c.c. e art.185 comma 2 c.p.) - restituzione (di cui all’art.2403 c.c. e all’art.185 comma 1 c.p.)

- provvedimenti ablativi amministrativi (che producono effetti simili alla privazione del possesso del reddito)

Altra parte della critica ha fatto notare che il legislatore non fa chiarezza su quale sia il momento in relazione al quale confisca e sequestro devono essere intervenute al fine di impedire l’imposizione, né se sia necessario che la confisca sia stata applicata una via definitiva o piuttosto sia sufficiente una sentenza non passata in giudicato.

È possibile ipotizzare che l’intervento oblatorio debba avvenire entro la chiusura del periodo di imposta. La norma perciò fa riferimento a due possibili soluzioni: o le misure oblatorie intervengono entro il termine del periodo di imposta o occorrono successivamente.

Nel primo caso non sorge alcuna obbligazione tributaria, nel secondo, invece, non solo essa nasce, ma l’individuo deve presentare anche la dichiarazione dei redditi, assolvendo anche al debito di imposta.

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29 Un ultimo problema, una volta affrontati i precedenti, è quello della determinazione della base imponibile sulla quale calcolare l’imposta. Dal momento che il provento illecito deve essere trattato come quello lecito, dovranno essere rispettati i criteri di cassa e competenza indicati nel stesso testo unico al fine di individuare il periodo di imposta al quale imputare i vari componenti. Bisogna segnalare che in ogni caso per le attività’ illecite non dovrebbero valere le agevolazioni previste per le norme tributarie; le attività’ illecite, infatti, devono essere inseguite e disinserivate, non agevolate.

Il secondo intervento, costituito dall’art.36, co.34-bis del D.L. n.223/2006, da parte del legislatore nasce dall’esigenza di trovare una soluzione univoca alle difficoltà riscontrate nell’applicazione del co.4 dell’art. 14 L.537/93:

34-bis.” In deroga all’articolo 3 della legge 27 Luglio 2000, n.212, la disposizione di cui al comma 4 dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n.537, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all'articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n.917, sono comunque considerati come redditi diversi. “

Anche questa norma interpretativa non è esente da contraddizioni. Nella legge del 2006 la scelta operata è in netto contrasto con l’azione fin qui condotta: viene infatti chiesto di considerare redditi i proventi illeciti che sua sponte non lo sarebbero. In questo modo, l’imposta viene ad ammantarsi di connotati sanzionatori e ciò in contrasto con l’art. 53 della Costituzione.

La portata innovativa della norma è significativa, ancorché accolta non senza critiche, in quanto, con riferimento al principio di uguaglianza che deriva direttamente dalla Costituzione, statuisce che ogni attività illecita idonea alla

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30 produzione di ricchezza può’ venire a costituire presupposto del costituirsi dell’obbligazione tributaria a prescindere dalla possibilità che essa possa rientrare nella classificazione prevista dal TUIR per i redditi leciti.

NOTE:

1. O. Di Giovine, Rassegna tributarian.6 di novembre-dicembre 2012

2 F. Forte, “Sul trattamento fiscale delle attività illecite”, Rivista di diritto tributario e Scienza delle finanze, 1952

3 G. Falsitta,” La tassazione dei proventi da reato nell’analisi della giurisprudenza dell’ultimo decennio”, Rassegna Tributaria 2001

4 D. Croce, “In tema di illecite attività, falsa fatturazione e frodi petrolifere, intassabilità dei relativi proventi”, Bollettino tributario, 1982

5 P. Boria, “La tassazione delle attività illecite”, Rivista di diritto tributario,1991

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Capitolo 2

Attuale Disciplina

2.1 Legge 24 dicembre n.537/1993

La legge 537/1993 rappresenta il primo e indubbiamente più significativo tentativo con cui il legislatore ha inteso disciplinare il tortuoso tema della tassazione dei redditi derivanti da attività illecita, a cui dedica espressamente il comma 4 art.14:

“Nelle categorie di reddito di cui all'articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n.917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria.”

Se da un lato, a questo provvedimento legislativo va sicuramente riconosciuto il merito di aver stabilito per la prima volta, in modo esplicito, il fatto che i proventi illeciti debbano essere soggetti ad imposizione, sancendo il principio della “neutralità della tassazione rispetto alla fonte”, dall’altro non presenta caratteri di certezza che lo rendono immune da critiche e limiti di applicabilità1.

Come possiamo desumere dal tenore letterale della norma, l’imposizione veniva condizionata dall’occorrere di tre condizioni simultanee:

1) conseguimento effettivo di redditi derivanti da attività illecite 2) infruttuosa applicazione della confisca o del sequestro

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32 3) inquadramento della ricchezza novella in una delle categorie individuate dall’ art.6 TUIR.

Ed è proprio l’obbligatoria compresenza dei tre succitati vincoli che ne comprometteva irrimediabilmente l’agevole applicazione pratica: solo nel caso in cui l’attività illecita produca un reddito identificabile in una specifica categoria del TUIR sarà possibile assoggettarlo a tassazione, viceversa ne resterà escluso.

Come già accennato in precedenza, la qui trattata legge non fu esule da critiche e dubbi relativi alla sua natura.

A lungo è stato discusso se l’art.14 dovesse essere inteso come norma di interpretazione autentica oppure come norma innovativa.

La classificazione, infatti, non avrebbe inciso solo a livello “teorico”, ma avrebbe avuto implicazioni significative sulle modalità d’applicazione della disposizione2.

Le conseguenze operative sono evidenti; attribuirgli valore meramente interpretativo avrebbe un duplice effetto: il primo e più rilevante, connoterebbe la norma con l’elemento dell’irretroattività, assoggettando a tassazione i profitti contra legem anche precedenti alla disposizione, sempre se non sottoposti a sequestro o confisca; il secondo riguarda il dubbio relativo all’onere di dichiarazione del reddito o meno.

La risposta pare tutt’altro che scontata; l’eventuale obbligo di dichiarazione, infatti, avrebbe come conseguenza la relativa sanzione penale stabilita dall’art.1 DL 429/1982, sottoponendo a sanzione un atto compiuto prima della vigenza della norma, casistica proibita dal principio di irretroattività della legge.

Riconoscendole, invece il valore di norma innovativa, avrebbe causato la nascita di un nuovo regime fiscale per i proventi illeciti non sottoposti a confisca o sequestro.

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33 La stessa relazione d’accompagnamento del provvedimento legislativo recita: “per quanto attiene all’efficacia temporale della norma è indubbio che essa debba avere portata retroattiva, in quanto il principio della tassabilità dei proventi derivanti da attività illecita è già insito nell’ordinamento tributario”3.

La giurisprudenza è tornata recentemente ad occuparsi della questio: ci si doveva pronunciare sulla legittimità o meno sull’applicazione operata da un giudice di secondo grado del disposto dell’art.14, legge n.537/1993 anche a periodi di imposta precedenti all’entrata in vigore di detta normativa.

Nella sentenza del 24 luglio n.17953/2013, il Collegio giudicante ha ritenuto legittima l’applicazione della legge 537/1993 anche a periodi di imposta precedenti alla sua entrata in vigore, uniformandosi ad un proprio precedente indirizzo giurisprudenziale (Cassazione 16 aprile 2007, n.8990; Cassazione 10 giugno 2009, nn.13360,13361 e 13363), secondo il quale l’articolo 14, comma 4, costituisce un’interpretazione autentica della normativa contenuta nel TUIR. Nello statuire ciò, la Corte Suprema ha anche escluso che all’applicazione retroattiva del disposto dell’articolo 14 possa ostare il principio di non retroattività delle norme tributarie introdotto dallo Statuto del Contribuente. Ciò in quanto, per propria costante giurisprudenza, le disposizioni della legge n.212/2000 non hanno efficacia retroattiva, in base al principio di cui all’art.11 disposizioni generali, a eccezione delle norme che costituiscono attuazione degli articoli 3, ,23, 53 e 97 della Costituzione, in quanto espressione di principi costituzionali vigenti4.

L’art.14, quindi, rende tassabili i proventi da reato precedenti alla sua entrata in vigore, ma non configura retroattivamente il reato di cui all’art.1 del DL.429/1982 per omesse o infedeli dichiarazioni.

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2.2 Profili di costituzionalità

È stato sollevato anche il dubbio di costituzionalità relativamente all’art.14 co.4. Il centro della questione è il seguente: considerare la partecipazione alle pubbliche spese come un dovere basato su una ricchezza comunque prodotta; oppure come obbligo legato a ricchezze che rispettino i principi generali dell’ordinamento5.

Per poterne capire il motivo dobbiamo prima procedere a svolgere una sintetica analisi sui principi costituzionali richiamati, implicitamente, dal tema della tassazione.

L’art.53 della Costituzione stabilisce che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, senza far riferimento alcuno alla natura del reddito da sottoporre a tassazione.

Quindi sembrerebbe che l’unico elemento rilevante sia il possesso di una novella ricchezza che comporti l’attitudine alla contribuzione, in modo da soddisfare anche il precetto dell’art.2 Costituzione.

Molti esponenti della dottrina, invece, consideravano il legislatore come “intrappolato” fra un doppio vincolo: dover sottoporre a tassazione quei fatti che indubbiamente comportavano una maggiore capacità alla contribuzione e al tempo stesso, che rispettassero gli interessi sanciti dall’ordinamento6.

Veniva fatto riferimento ad una “dimensione della legalità” sancita dall’art.54 della Costituzione che imponeva il rispetto della Costituzione e della legge ai consociati, ma allo stesso tempo vincolava lo stesso legislatore ad osservare detta dimensione, compiendo un richiamo all’art.41 Costituzione secondo il quale l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

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35 Ed è per questo che a due anni di distanza dalla legge 537, il legislatore ha avvertito l’esigenza di puntualizzare la disciplina della qui trattata tematica con la sentenza 20 Marzo 1996, n.408 della Sezione III Penale7.

In questa sentenza viene condotta un’accurata analisi dei numerosi articoli costituzionali interessati dal tema, in particolare gli artt.1-2-41 e 53, con l’intento di dimostrare l’inesistente conflitto fra valori costituzionali e tassazione dei proventi illeciti.

Per quanto riguarda l’art.1 della Costituzione, la tutela riservata al lavoro lecito non implica la non imposizione dei redditi che provengono da attività contra legem.

La sentenza vede nella possibilità di richiedere l’adempimento tributario anche a coloro che abbiano ottenuto nuova ricchezza da occupazioni non riconosciute dall’ordinamento, un rafforzamento degli artt. 2 e 53 della Costituzione, essendo il dovere di solidarietà economica inderogabile, non si può escludere neanche per attività contrarie alla legge.

Viene sostenuta la tesi secondo la quale affermare la non tassabilità dei redditi da attività illecita sarebbe difficilmente giustificabile se paragonato con il trattamento previsto per i redditi leciti ma esenti da tassazione: si esclude che il reddito da illecito possa essere sottoposto ad una disciplina migliore di quella riservata ad un precettore di un reddito lecito di pari importo.

Viene quindi dimostrata l’assoluta compatibilità fra la Costituzione e la tassazione dei redditi provenienti da reato.

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2.3 Co.34-Bis Art.36 D.l. 223/2006

Come già illustrato in precedenza, secondo quanto disposto dall’art.14 co.4 Legge 537/1993, i redditi provenienti da attività illecite per poter essere assoggettati a tassazione dovevano poter essere configurabili in una delle categorie reddituali previste dal’art.6 del TUIR, e questo era causa di notevoli limitazioni sul piano dell’applicabilità.

E proprio l’esigenza di rimuovere questo ostacolo ha portato il legislatore a compiere un ulteriore intervento tramite l’introduzione del co.34-bis nell’articolo 36 del D.L. 4 Luglio 20068.

“in deroga all’art.3 della legge 27 Luglio 2000, n.212, la disposizione di cui al comma 4 dell’art.14 della legge 24 Dicembre 1993, n.537, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’art.6, comma1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 Dicembre 1986, n.917 sono comunque considerati come redditi diversi”

Questo provvedimento aggiuntivo non fa che sottolineare la sterilità del comma 4 art.14, dal momento che se i redditi illeciti fossero stati passibili di agevole inquadramento in una delle categorie dell’art.6 TUIR sarebbero state tassate secondo la disciplina ordinaria.

Al fine di evitare dibattiti come era accaduto in passato con l’emanazione dell’art.14 legge 537, in quest’occasione la norma si presenta esplicitamente come norma interpretativa autentica: lo si può evincere sia dal tenore letterale (“..in deroga all’art.3 legge 27 luglio 2000..”) sia dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate 4 agosto/2006, la quale dispone che

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37 “interpretando autenticamente il testo della disposizione riportata, il co.34-bis dell’art.36 stabilisce che qualora i proventi illeciti non siano classificabili nelle altre categorie di cui all’art.6, comma 1, sopra richiamato, i medesimi vengono inquadrati, anche a fini della determinazione, nelle categorie dei redditi diversi di cui agli artt. 67 e Ss del TUIR”

Sia prima che dopo l’emanazione della norma interpretativa, la giurisprudenza della Suprema Corte era intervenuta per qualificare l’appartenenza di alcune tipologie di proventi illeciti ad una delle categorie reddituali previste dal TUIR; a titolo esemplificativo:

- per il reato di usura si veda la sentenza n.15984 8 Maggio 2002

- per il reato di concussione si veda la sentenza n.1058 23 Novembre 2007

La portata innovativa della norma è lampante: stabilisce che qualsiasi ricchezza generata da reati è idonea a causare il generarsi dell’obbligazione tributaria, a prescindere dalla sua esatta collocazione in una delle categorie sancite dall’art.6 TUIR.

Come le sue predecessore, anche questa disposizione non è stata accolta senza critiche.

Parte della dottrina ha voluto mostrare il carattere innovativo della norma; nonostante il suo intento di presentarsi come norma interpretativa autentica, in quanto, mentre la legge 537 confermava che l’arricchimento dovesse essere tassato secondo le regole ordinarie previste dal DPR 917/1986, l’intervento legislativo del 2006 ne modifica il regime: è come se si volesse aggiungere un’ulteriore sotto-casistica alla categoria dei redditi diversi, la quale comprende i redditi illeciti non sottoposti o sequestro o confisca.

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38 La critica che è stata mossa è che la norma, ponendosi come norma di interpretazione autentica, assume efficacia retroattiva e sanzionatoria, violando esplicitamente il principio di irretroattività della legge penale.

2.4 Confisca e sequestro

Nessuna specifica è stata fornita circa confisca e sequestro. Per capire la loro rilevanza ai fini operativi, andiamo ad analizzare il contenuto dell’art.14 co.4 della Legge 537/93:

“..se non già sottoposti a sequestro o confisca penale..”

Il solo tenore letterale, anche questa volta, non fornisce informazioni dettagliate sul momento in cui debbano intervenire sequestro o confisca per evitare che la novella ricchezza venga sottoposta a tassazione.

Innanzitutto, però, ritengo sia necessario fornire qualche delucidazione sulla disciplina della confisca all’interno del nostro ordinamento.

È possibile distinguere una duplice tipologia di confisca: una obbligatoria, relativa al prezzo del reato, una facoltativa, a discrezione del giudice, adibita al prodotto/profitto del reato9.

In caso di compimento di reato penale, il nostro ordinamento predispone sanzioni idonee a colpire sia la sfera personale che quella economica del colpevole. A tal fine occorre impiegare strumenti in grado di agire sulla manifestazione del reato in diverse fasi: in via preventiva e in via di attuazione della condanna.

Nella prima casistica sono ricomprese le varie forme di sequestro e confisca aventi carattere preventivo definite da leggi speciali; nella seconda, invece, è

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39 ricompresa la confisca di cui all’art. 240 c.p. e le varie forme di sequestro tipiche del c.p.p.10.

Gran parte della dottrina ha criticato la scelta operata dal legislatore, che fa esplicito riferimento al solo confisca/sequestro penale, tralasciando altre tipologie di strumenti ablatori11.

La giurisprudenza di legittimità, in particolare la Cassazione Penale, aveva sempre negato la possibilità di sottoporre a tassazione i proventi illeciti, proprio a causa della possibilità di ricorrere a strumenti ablatori. Ad esempio si può citare la sentenza n.2798 del 7 Marzo 1994, secondo cui il profitto del reato non può essere considerato come un dato capace di dare vita contemporaneamente, all’obbligazione tributaria e all’obbligazione restitutoria: le due pretese, tributaria e restitutoria, non possono coesistere e insistere sul medesimo elemento genetico.

La Cassazione, solo con la sentenza n.7337 del 13 Maggio 2003, ha fornito carattere di definitività alla questione, stabilendo che “il provvedimento ablatorio deve intervenire entro il periodo d’imposta cui il provento è riferibile, risultando irrilevante il successivo intervento di provvedimenti di sequestro o confisca, anche se anteriore alla presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all’anno entro cui i proventi illeciti sono stati percepiti o all’emanazione dell’avviso di accertamento.”.

La sentenza prosegue: “da un lato, infatti, il principio di cui all'art. 53 non risulta violato nell'arco temporale in cui è chiamato ad operare e dal quale non è dato prescindere, dall'altro, si evitano ingiustificate disparità di trattamento tra i percettori di proventi illeciti ed i possessori di redditi

leciti, per i quali - secondo i principi generali del sistema tributario - i redditi medesimi sono

esclusi da imposizione solo se perduti nello stesso periodo d'imposta considerato”.

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40 La mancanza di una disciplina chiara ed univoca ha affetto anche l’aspetto della dichiarazione dei redditi provenienti da attività illecite, tanto da portare ad un aspro dibattimento circa l’identificazione del soggetto sui cui ricadono gli obblighi dichiarativi nell’arco di tempo intercorrente fra la confisca/sequestro che non ha ancora assunto carattere di definitività e il provvedimento finale. La causa generatrice di questo scontro dottrinale risiede nel fatto che la disciplina tributaria non fa riferimento alla definizione civilistica di possesso del reddito12, bensì alla sua concreta disponibilità, altrimenti tali obblighi

ricadrebbero sull’amministratore giudiziario.

In linea teorica, il soggetto che vedesse le proprie ricchezze sottoposte a confisca/sequestro ancora non definitivi, dovrebbe provvedere all’obbligazione dichiarativa dall’inizio del periodo d’imposta fino al provvedimento definitivo. Per ciò che concerne, invece, l’amministratore giudiziario, egli detiene un’autonoma soggettività passiva ai fini dell’imposte dirette, ai sensi dell’art.73, comma 2 TUIR, in base al quale sono ricompresi tra i soggettivi passivi Ires: “anche le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti dei quali il presupposto dell’imposta si verifica in modo unitario ed autonomo”13.

Soluzione alternativa che è stata proposta è stata quella di prevedere una sorta di “sospensione” dei redditi nel periodo che intercorre fra misura provvisoria e misura definitiva, ma si porrebbe in contrasto col principio di unitarietà del periodo d’imposta14.

Ai nostri fini ritengo sia opportuno richiamare l’interrogazione parlamentare n. 5-07247 del 4 Luglio 2012,

nella quale è stato analizzato il caso di un immobile oggetto di misure conservative-cautelari, nell’ambito di

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41 un procedimento a carico di persone indagate. Nella risposta si fa riferimento alla sentenza 6 ottobre 2010 della Corte di Cassazione, n.35801, la quale afferma:

“i poteri che competono al custode sono attinenti alla mera custodia a fini conservativi delle cose in sequestro, la cui disponibilità è opportuno che sia sottratta alla persona sottoposta alle indagini, nulla vieta – ed anzi ora l’articolo 104-bis disp.att. c.p.p espressamente consente- che nella sfera dei poteri del custode rientri anche l’amministrazione dei beni in sequestro, con esercizio di poteri di vera e propria gestione...”.

Perciò è ragionevole pensare che il giudice, esercitando il suo potere discrezionale, attribuisca all’amministratore giudiziario, l’amministrazione dei beni oggetti di misura ablatoria, con esercizio di poteri di gestione, compreso quindi, anche quello di dichiarazione e pagamento tributi15.

Così come confermato ulteriormente dal provvedimento del Tribunale di Taranto del 2002, per il quale il tributo deve essere assolto da proprietario del bene immobile16.

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2.5 Direttiva Europea 2014/42/UE

In merito al tema confisco-sequestro ritengo sia meritevole di apposita menzione la Direttiva Europea 2014/42/UE, intitolata al “congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’ Unione Europea”.

Partorita come risposta ad un crescente bisogno di cooperazione internazionale in materia di recupero dei beni e di reciproca assistenza giudiziaria, ritrova negli artt.82 par.2 e 83 par.1 TFUE la sua base giuridica, i quali consentono al Parlamento e Consiglio di fissare una disciplina minima al fine di consentire una maggior collaborazione fra Stati in materie penali “avente dimensione transnazionale “o “in sfere di criminalità particolarmente gravi”.

Il ricorso a questo provvedimento da parte dell’Unione Europea è spiegato dal fatto che gli strumenti fino a quel momento predisposti in materia di confisca/sequestro, e mi riferisco in particolare al 2001/500/GAI, 2003/577/GAI, 2005/212/GAI e 2006/783/GAI, si sono rivelati scarsamente efficaci; e proprio per questo il suo obiettivo consiste nel modificare ed ampliare le disposizioni delle decisioni quadro 2001/500/GAI e 2005/212/GAI.

L’elemento innovativo della disposizione risiede in ciò che viene considerato “reddito da reato”:

secondo la tesi della qui trattata direttiva, andrebbero ricompresi non sono quelli prodotti

direttamente dall’azione criminale, ma anche quelli che hanno origine indiretta (reinvestimento, trasformazione successiva in proventi leciti etc..), viene configurata una sorta di “confisca estesa”17.

La disciplina minima è riferibile al congelamento di beni, in vista di un’eventuale successiva confisca, e alla confisca di beni in materia penale (art.1 c.1).

(43)

43 Per facilitarne l’applicazione, agli art. 2 c.1 lett.4) e 5), vengono fornite le definizioni di “congelamento”, come il “divieto temporaneo di trasferire, distruggere, convertire, eliminare o far circolare un bene o di assumerne temporaneamente la custodia o controllo”, e di “confisca”, come “la privazione definitiva di un bene ordinata da un’autorità giudiziaria in relazione ad un reato”. La direttiva si applica a tutti i reati elencati nell’art.3, individuati con riferimento alle fattispecie criminose già oggetto di provvedimenti dell’Unione: la convenzione relativa alla lotta contro la corruzione dei funzionari, corruzione privata, traffico di stupefacenti, criminalità organizzata.

Quindi viene previsto che entro il 4 Ottobre 2016 gli Stati membri adottino le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, di beni strumentali e proventi da reato, o di beni di valore corrispondente a detti beni strumentali o proventi, in base a una condanna penale definitiva, che può anche essere pronunciata a seguito di un procedimento in contumacia (art.4 c.1). Gli Stati membri adottano le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, dei beni che appartengono a una persona condannata per un reato suscettibile di produrre, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico, laddove l’autorità giudiziaria, in base alle circostanze del caso, compresi i fatti specifici e gli elementi di prova disponibili, come il fatto che il valore dei beni è sproporzionato rispetto al reddito legittimo della persona condannata, sia convinta che i beni in questione derivino da condotte criminose. (art.5 c.1).

La direttiva disciplina poi la confisca contro terzi, tenuti in debita considerazione i diritti per i soggetti in buona fede; riversando l’onere della prova non più sull’ Amministrazione finanziaria, bensì sul soggetto sottoposto a verifica.

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44 NOTE:

1 S. Guadalupi, Questioni controverse sulla tassazione dei proventi illeciti, in Corr. Trib. 1997, n.34, p.2482

2 a riguardo: G. Calloni “l’interpretazione della legge con particolare riguardo al rapporto tra interpretazione autentica e interpretazione giudiziale” milano , giuffre 1995; L. Zingales “ancora in tema di interpretazioni autentiche” foro amministrativo, 1982, p.172

3 Relazione ministeriale di accompagnamento alla legge 24 dicembre 1993, n.537, in banca dati Fisconline

4 Fiscoogg.it, 31 ottobre 2013, Giurisprudenza delle imposte edita da ASSONIME

5 A.Giovannini, Provento illecito e presupposto dell’imposta personale, Milano, Giuffrè 2000

6 Al riguardo: S. Pugliatti, Beni e cose in senso giuridico, Milano, 1962 e A.Giovannini, Provento illecito e presupposto dell’imposta personale, Milano, Giuffrè 2000

7 Cassaz. Sez. III pen, Sentenza 2 Maggio 1996 (20 Marzo 1996), n.408, in banca dati Fisconline e riscontrabile nel commento di P.Corso “Tassazione dei proventi illeciti: ancora una pronuncia della cassazione

8 convertito in L.248 del 4 Agosto 2006. C.d. Decreto Bersani – Visco. 9 Ai sensi dell’art. 240 c.p.

10 I. Cerchi, La tassazione dei proventi illeciti (1990-2005), in Dir. e Pr. Trib., 2005, Vol 76 p.427 11 A. Giovannini, Provento illecito e presupposto dell’imposta personale, Giuffrè, Milano, 2000 12 art. 1140 c.c.

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45 14 I. Cherchi, La tassazione dei proventi illeciti (1990-2005), in Dir. e Pr. Trib., 2005, vol.76 p.433 15 P. Mirto, Manuale operativo per l’applicazione della UIC, 2014

16 Tribunale di Taranto Ufficio misure di prevenzione P.S. 29 Luglio 2002

17 Una prima lettura della Direttiva 2014/42/UE in tema di sequestro e confisca, Camerepenali.it, 27/8/2014.

(46)

46

Capitolo 3

Indeducibilità dei costi da reato

3.1 Interventi legislativi

L’obiettivo del legislatore è sempre stato quello di promuovere interventi che permettessero il recupero, per lo meno parziale, delle imposte sulle ricchezze di origine illecita. Questa è stata la ragione che ha portato alla formulazione dell’art. 14 della Legge 24 dicembre 1993; ma non è stato l’unico strumento fornito con quell’intento.

Il proposito è stato confermato da un secondo intervento, ovvero il comma 4-bis nel medesimo articolo della già citata legge, introdotto tramite l’art.2, comma 8 della legge 27 dicembre 2002 n.289, il quale sancisce l’indeducibilità dei costi sostenuti relativamente al compimento di un reato, disponendo che:

4-bis: “Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del presidente della repubblica 22 dicembre 1986, n.917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti”

Come avremo modo di leggere durante la trattazione, questa prima versione è stata oggetto di aspre critiche e di dubbi relativi alla sua conformità alla Costituzione. Critiche dovute soprattutto ad una evidente vaghezza testuale che ha autorizzato interpretazioni alquanto intransigenti sul principio di inerenza.

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