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L’obiettivo del legislatore è sempre stato quello di promuovere interventi che permettessero il recupero, per lo meno parziale, delle imposte sulle ricchezze di origine illecita. Questa è stata la ragione che ha portato alla formulazione dell’art. 14 della Legge 24 dicembre 1993; ma non è stato l’unico strumento fornito con quell’intento.

Il proposito è stato confermato da un secondo intervento, ovvero il comma 4-bis nel medesimo articolo della già citata legge, introdotto tramite l’art.2, comma 8 della legge 27 dicembre 2002 n.289, il quale sancisce l’indeducibilità dei costi sostenuti relativamente al compimento di un reato, disponendo che:

4-bis: “Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del presidente della repubblica 22 dicembre 1986, n.917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti”

Come avremo modo di leggere durante la trattazione, questa prima versione è stata oggetto di aspre critiche e di dubbi relativi alla sua conformità alla Costituzione. Critiche dovute soprattutto ad una evidente vaghezza testuale che ha autorizzato interpretazioni alquanto intransigenti sul principio di inerenza.

47 L’Agenzia delle Entrate, con la circolare 26 settembre 2005, aveva provato a fornire elementi chiarificatori puntualizzando che, con decorrenza dal 1 gennaio 2003, l’intenzione del legislatore tributario era introdurre una deroga al principio dell’inerenza tramite l’irrogazione di una sanzione indiretta nei confronti del soggetto passivo d’imposta che avesse sostenuto costi correlati ad attività penalmente rilevanti.

Questa confusione legislativa ha reso necessario un ulteriore azione da parte del legislatore: il Decreto legge n.16 del 2 Marzo 2012, convertito con modifiche dalla legge n.44 del 26 aprile 2012, con il quale si è proceduto alla riscrittura pressoché completa della disposizione, puntualizzando quale fosse il relativo campo di applicazione.

Viene prevista una riduzione delle casistiche dalle quali far derivare l’indeducibilità di costi/spese, si verifica, infatti, il passaggio da “fatti, atti o attività qualificabili come reato” a quella più circoscritta di “atti o attività qualificabili come delitto non colposo, per il quale il Pubblico Ministero abbia esercitato l’azione penale”.

Con l’art.1, comma 141, della Legge 28 Dicembre 2015 n.208, infine, è stato disposto che, in caso di violazione che comporta” l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art.331 c.p.p. da qualsiasi reato per il quale possa derivare un provento illecito, anche indiretto, le competenti autorità inquirenti ne danno immediatamente notizia all’Agenzia delle entrate, affinché proceda al conseguente accertamento”.

La prima disciplina fornita, prevedeva un legame generico di costi e fattispecie penalmente rilevanti, mentre con la novella normativa si verifica il passaggio ad un trattamento più puntuale, il quale implica che un costo, per non essere ammesso in deduzione, è necessario che sia relativo a beni o servizi “direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo”1.

48 Il termine “riconducibili” relativo alla prima versione della norma, indusse la prassi amministrativa e numerosi giudici tributari ad includere nel campo d’applicazione della disposizione la totalità di costi e spese: sia quelli contraddistinti da un evidente illiceità sia quelli di per sé leciti ma sostenuti in occasione, in concomitanza temporale, con lo svolgimento di attività penalmente illecite2.

Per quanto concerne il momento che si sarebbe dovuto prendere come riferimento ai fini della qualificazione di un reato, l’Agenzia delle Entrate, tramite la già citata circolare del 2005, osservò come la disposizione non richiedesse esplicitamente “che il fatto penalmente rilevante fosse oggetto di un’azione penale già avviata o fosse già stato accertato con sentenza di condanna”.

La soluzione di attendere la sentenza penale non più appellabile risultò, ovviamente, impraticabile, a causa della durata del procedimento (l’escussione dei tre gradi di giudizio avrebbe vanificato la pretesa impositiva derivante dal reato).

Il problema di fondo è che l’Agenzia scelse proprio il momento che implicava un arretramento temporale maggiore, fissandolo nella mera trasmissione al pubblico ministero della notitia criminis ex art. 331 e 347 c.p.p.,

autorizzandosi così a qualificare il fatto come reato allo scopo di non riconoscere la deducibilità.

Quindi, la ratio della novazione legislativa è chiara: raccogliendo le tante critiche avanzate nei confronti della vecchia normativa, il legislatore ha tentato di relazionare a presupposti maggiormente oggettivi l’operatività della

disciplina tributaristica, posticipando così il momento in cui agisce la normativa tributaristica in quello del vaglio per mano dell’autorità

49 giudiziaria/pubblico ministero, soggetto sicuramente più competente del

quisque de populo a ritenere la sussistenza di un reato3.

Il termine “direttamente” fa presumere che sia riconosciuta la deducibilità relativamente a quei costi cosiddetti “preparatori”, non sostenuti per il diretto compimento dell’illecito “non essendo all’uopo sufficiente, ai fini del recupero fiscale, che i predetti componenti, in carenza del prescritto requisito del “diretto utilizzo” siano semplicemente e genericamente relativi alla fattispecie penalmente rilevante” 4.

Ma parte della dottrina sostiene che l’indeducibilità potrà essere contestata relativamente alla quota di componenti negativi afferenti l’ordinaria attività d’impresa che abbiano avuto un rapporto di strumentalità con la commissione del reato, seppur sostenuti non esclusivamente per il compimento dello stesso5.

Il punto centrale della discussione concerne l’importanza del nesso di causalità fra spesa e condotta illecita.

Secondo parte della dottrina, questa tipologia di costi dovrebbe avere sempre uno stampo “extra-imprenditoriale”, non potendo l’attività contra legem costituire una fattispecie di esercizio di attività economica.

Secondo, invece, un filone contrastante, la non deducibilità sarebbe plausibile solo come sanzione indiretta dell’illecito, con conseguente violazione dell’art.53 della Costituzione.

In relazione ai criteri da seguire per l’individuazione dei delitti non colposi occorre far riferimento alle conclusioni cui sono pervenuti la

dottrina e la giurisprudenza con riferimento all’art. 43c.p.

Può essere utile ricordare, allora, che il delitto è colposo “o contro

l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per

inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

50 ravvisata nell’oggettivo contrasto tra la condotta concretamente tenuta dal soggetto agente e quella prescritta dall’ordinamento sempre che risulti la

prevedibilità dell’evento, ovvero la possibilità di riconoscere il pericolo che, ad una data condotta, possa conseguire la realizzazione di un fatto.

Per ascrivere, poi, a titolo di colpa l’evento cagionato dal soggetto attivo, è necessario anche accertare la sua evitabilità ovvero che il prescritto

comportamento alternativo corretto fosse in concreto idoneo ad evitare l’evento dannoso6.

Ai fini della nostra trattazione, ritengo opportuno ricordare che per quanto concerne i componenti positivi di reddito, la legge ne ha stabilito l’assoggettamento ad imposizione fiscale, a prescindere dalla natura dell’illecito che li ha generati (principio di “neutralità rispetto alla fonte”).

È evidente allora, una sostanziale differenza di trattamento fra componenti positivi di reddito, per i quali la classificazione del reato diviene irrilevante, e componenti negativi di reddito, ai quali viene riconosciuta la deducibilità solo se generati da “fattispecie PENALMENTE rilevante”.

La ragione del provvedimento risiede proprio in questo: escludere dalla casistica dei reati peri quali non è prevista la deducibilità dei costi quelli cosiddetti “minori”, che rientrano tra le contravvenzioni e i delitti colposi.

Per stabilire la deducibilità di un costo relativo ad un reato si deve compiere uno step preliminare: stabilire l’effettivo legame fra costo e fatto illecito.

Ed è attività tutt’altro che scontata, mancando una precisa disciplina che ne permetta l’identificazione.

Sul tema, infatti, spesso si è ricorsi alle definizioni delle scienze avente natura economico-aziendale, le quali configurano come costo l’espressione in moneta o altro valore numerario del valore dei beni e servizi utilizzati per la produzione o l’acquisto di un bene o servizio7.

51 In ambito tributario, invece, la definizione di costo è fortemente legata alla determinazione dell’obbligazione d’imposta.

Quando si parlerà di “deducibilità dei costi illeciti” si potrà trattare anche di costi illeciti per attività lecite, o costi sia leciti che illeciti per un’attività integralmente contra legem (tangente per appalto per la prima casistica; acquisto di un’arma per il compimento di una rapina per quanto riguarda il secondo caso).

Nella nostra trattazione sull’indeducibilità dei costi da reato è evidente che non includeremo le categorie reddituali dei redditi di capitale, fondiari e quelli di lavoro dipendente, in quanto la loro tassazione non dipende dall’ammontare dei costi.

La problematica dell’indeducibilità dei costi da reato nasce proprio con la legge 537/1993, poiché, fino a quel momento, era pacifico che così come

erano esclusi da tassazione i redditi provenienti da attività illecite, così ai relativi costi non poteva essere riconosciuta la detraibilità.

Le motivazioni che hanno portato la giurisprudenza al rifiuto per ciò che riguarda la detraibilità dei costi sono state essenzialmente due:

1) Mancanza di una disposizione che la disciplinasse 2) Mancata inerenza del costo

Per quanto riguarda il secondo punto, pare perlomeno poco sensato, se non irragionevole, negare il legame di inerenza fra costi e fattori produttivi.

Si prenda ad esempio una casistica precedentemente riportata: il costo sostenuto per l’acquisto di una pistola ai fini del compimento di una rapina; è lapalissiano qui che la spesa ha permesso il conseguimento di una ricchezza, di un reddito. Per cui il dubbio circa l’eventuale indeducibilità dei costi relativi al compimento di un illecito, è tutt’altro che infondato. È lo stesso legislatore che alimenta questi dubbi, facendo riferimento con l’art.14 legge 537/1993 co.4, alle modalità

52 di tassazione tipiche delle categorie reddituali previste dal TUIR, molte delle quali, devono essere soggette ad imposizione al netto dei costi.

La giurisprudenza, però, ha spesso negato questa conclusione: come ad esempio nei casi di emissione di fatture inesistenti8.

I giudici di legittimità hanno affermato che il co.4-bis dell’art.14 legge 537/1993 sia sostituito dal seguente: “Nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non

sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”.

Lo scopo è quello di “inibire in modo inequivoco la deducibilità dei componenti negativi di reddito direttamente connessi al compimento delle fattispecie di reato più gravi, evitando che tale indeducibilità possa essere letta come una sanzione impropria, venendo invece la stessa inquadrata come regola generale nell’ambito della determinazione del reddito imponibile.”

Con riferimento alla fattispecie in esame, viene affermato che: “Per effetto di questa disposizione, l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, ferme restando le regole generali in materia di detrazione della relativa imposta sul valore aggiunto di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 e in tema di deduzione previste dal testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986,

53 n. 917; pertanto, ove del caso, l’indeducibilità dei costi rappresentati in documenti emessi da soggetti che in tutto o in parte non hanno effettivamente posto in essere l’operazione, sarà, comunque, rilevabile per effetto delle altre disposizioni normative eventualmente applicabili e connesse ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi”9.

Come è possibile notare dal tenore letterale della sentenza, non vengono fornite puntuali giustificazioni sul perché si escluda la deducibilità di questa particolare tipologia di costi. Mancanza di puntualità che ha portato numerosi esponenti della dottrina a ricercarne ragioni anche in ambiti estranei al diritto tributario. Cosi come era successo per la tassabilità dei proventi illeciti, anche per l’indeducibilità dei relativi costi vengono compiute considerazioni di tipo etico- morale: è sostenuta da molti la tesi secondo la quale l’indeducibilità sia utilizzata come deterrente, come elemento in grado di disincentivare il perpetrarsi di detti reati.

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