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Fieldwork, autorità e potere: il posto delle voc

Tra i numerosi interventi nel dibattito, la reazione piú dura alla “svolta testuale” e il suo piú radicale rifiuto sono venuti da P. Steven Sangren80. Vi faremo qui riferimento non perché accogliamo inte- gralmente le sue posizioni, ma poiché offre l’opportunità di focaliz- zare il complesso tema dell’autorità, che consideriamo il nodo critico essenziale. Al di là della difesa dell’autorità tradizionale della disci- plina, Sangren intende denunciare le contraddizioni, i paradossi e l’i- nevitabile fallimento di qualsiasi tentativo di costruire un meta- discorso antropologico. L’equivoco dei “testualisti” nascerebbe dalla concezione della cultura come testo, riconducibile a Geertz e all’idea che lo scopo dell’etnografia sia quello di comunicare, tradurre, o rappresentare il punto di vista del nativo81.

La scelta di circoscrivere l’analisi al problema della testualizza- zione contribuisce a nascondere la possibilità di considerare il pro- CRISI E CRITICA DELL’ANTROPOLOGIA 171

82«[...] many critics of anthropology interested in textual authority conflate authority in texts with authority in society. The former certainly plays a role in the production and reproduction of the latter, but if “textual” authority were as effi- cacious as some literary critics imply, writers would be kings. Viewing textual authority as central to authority in general clearly commends itself to literary critics in part because it places the deconstruction of such authority at the center of political and social action. In other words, by making textual authority stand for cultural authority in general, the literary critic, as fabricator and deconstructor of that authority, places him-/herself in a position of transcendent power – if not that of a king, at least that of a high priest». (Ivi, p. 283).

blema della realtà indipendentemente dall’inadeguatezza della rap- presentazione testuale. Nelle condizioni di “testualizzazione genera- lizzata” cui conduce la confusione di cultura e testo, i critici della scrittura si concentrano sui limiti e l’illusoria realtà della rappresenta- zione anche se, paradossalmente, cadono prigionieri della contraddi- zione secondo cui l’etnografia è – o aspira ad essere – niente di piú che una rappresentazione testuale dell’esperienza degli altri, nonostante la presunta impossibilità di una tale rappresentazione.

Ancora piú significativo è il fatto che molti di coloro che hanno affrontato il tema dell’autorità abbiano fuso e confuso la sfera del- l’autorità testuale con quella che Sangren chiama “autorità sociale”, e che meglio sarebbe determinata se si facesse ricorso alla categoria del potere. Gli autori della “svolta” avrebbero legato le due forme con una correlazione che conferisce un ordine prioritario al ruolo dell’autorità testuale82. Certamente quest’ultima gioca un ruolo stra- tegico nella produzione e riproduzione del potere, ma il fatto di con- siderare prioritaria l’autorità testuale finisce per conferire anche alla sua decostruzione un ruolo esclusivo, che conduce a un’interpreta- zione tendenzialmente riduttiva dell’azione politica e sociale. Identi- ficata con l’autorità in generale, l’autorità testuale viene a collocarsi in una posizione di potere trascendente il sociale e il politico, e si rivela, dunque, autoritaria.

Il tentativo di mettere in questione l’autorità costruita testual- mente rappresenta inevitabilmente uno scenario per l’autorità e il potere socialmente costituiti. Ma la logica della produzione e ripro- duzione dei testi non è identica alla logica della produzione e ripro- duzione sociale e culturale. I modi in cui l’autorità, la legittimazione ed il potere sono costruiti nei testi non esauriscono i modelli attra-

83«Culture and society encompass texts, logically and empirically the latter are contained within the former. Nonetheless, texts (including mythologies, rituals, performances, etc.) are in some important respects freed of the material conditions with other societies, the “world system”, etc.) that constrain forms of social reproduction». (Ibid.).

84 Cfr. K. HASTRUP, A Passage to Anthropology. Between Experience and

Theory, Routledge, London 1995. Per ulteriori riferimenti bibliografici sull’an-

tropologia dell’esperienza si veda infra, pp. 185-186 e).

verso cui essi sono costruiti nella società, anche perché è quest’ultima che include i testi e non viceversa, oltre al fatto – altrettanto signifi- cativo – che i testi sono liberi dai condizionamenti materiali, che invece limitano le forme della riproduzione sociale83.

Oltre a dar vita a contrapposte reazioni, che polarizzano il campo tra sostenitori convinti e detrattori radicali impegnati nella difesa delle prerogative e delle pretese oggettivistiche della disciplina, il diffondersi dell’interesse per le tematiche messe al centro del dibattito sulla rap- presentazione etnografica determina la ripresa di un nuovo interesse per le questioni epistemologiche della ricerca sul campo, a partire da problematiche non dissimili da quelle affrontate da Marcus, Clifford e gli altri, ma ricondotte dal livello della pratica testuale alla concreta pratica del fieldwork. Le molte strade che si dipartono da Santa Fe sembrano riconvergere sul campo, includendo anche in questa fase la pratica di scrittura. Se la svolta testualista legittima la possibilità di tra- sgredire la presunta assoluta fonte di “autorità esperienziale”, consoli- dando ad un livello gerarchicamente superiore lo statuto autoriale della comprensione etnografica come creazione nella scrittura, resta da chiedersi ancora cosa significhi partecipare e osservare.

Ad esempio, riaffermando il carattere distintivo dell’esperienza etnografica per la pratica antropologica, Kirsten Hastrup propone di considerare la presenza etnografica come qualcosa di piú del semplice esserci sul campo, bensì una presenza in divenire (becoming). Con ciò, l’antropologa ha voluto riaffermare il peso di un’esperienza pro- fonda di «straniamento e relativismo», prima ancora che la memoria, e dunque anche l’oblio, attraverso la scrittura, ne faccia un’impresa del sapere84.

La natura dell’esperienza sul campo implica che le ben definite opposizioni tra soggetto e oggetto si dissolvano, perché anche l’etno- CRISI E CRITICA DELL’ANTROPOLOGIA 173

85Cfr. K. PAERREGAARD, «The Resonance of Fieldwork. Ethnographers, Infor- mants and the Creation of Anthropological Knowledge», in Social Anthropology, 10, 3, 2002, pp. 319-334.

86Cfr. M. STRATHERN, Partial Connections, Altamira, London 1991. 87Cfr. C. GEERTZ, Opere e vite, cit.

88Cfr. P. BOURDIEU, «Participant Objectivation», in Journal of Royal Anthro-

pological Institute, n. s. 9, 2003, pp. 281-294.

89M. JACKSON, Minima Ethnographica: Intersubjectivity and The Anthropolo-

gical Project, University of Chicago Press, Chicago 1998.

90E.M. BRUNER, «Experience and Its Expressions», in V. TURNER–E.M. BRU- NER(a cura di), The Anthropology of Experience University of Illinois Press,

grafo diventa un “soggetto oggettivato” in uno spazio discorsivo alieno. Inoltre, occorre riconoscere che la presenza dell’antropologo sul campo è una prima fondamentale fonte di autorità, in quanto il rapporto tra ricercatore e soggetti è essenzialmente una relazione autoritativa85. L’etnografia consiste in due processi intimamente legati, vale a dire il fieldwork e la scrittura. Se è un errore ridurla a un metodo, è un limite altrettanto grave ridurla alla piú solipsistica delle pratiche, ovvero la scrittura. Entro una visione intersoggettiva ed esi- stenziale del fieldwork, l’esplorazione della soggettività del ricercatore da parte delle popolazioni locali può diventare una via di accesso alla conoscenza etnografica. Anche la scrittura di queste esperienze, la narrazione di quel processo definito da Marilyn Strathern «ethnogra- phic path»86, piuttosto che risolversi in una narcisistica “malattia del diario”87, può essere un modo per affrontare – mediante un procedi- mento di “oggettivazione del soggetto oggettivante”88– l’inquietudine da cui ha origine, di fatto, la svolta degli anni Ottanta.

Per gli etnografi, allora, si tratterebbe di ripercorrere – col pen- siero e nella scrittura – sia la propria esperienza soggettiva e conosci- tiva sul campo, sia le esperienze che sul campo gli altri hanno di se stessi e degli etnografi oggettivati come “alieni”. Come ha scritto M. Jackson, «l’intersoggettività è immersa nell’ambiguità e nel para- dosso, essendo un’interazione costruttiva, distruttiva e ricostruttiva, dove le posizioni d’identità e differenza sono costantemente scam- biate e ridefinite, nella distanza e nel riavvicinamento dei poli del conflitto e della compassione»89. È una complessa dinamica, che richiede una particolare forma di «doppia coscienza dell’espe- rienza»91, e può essere ricondotta al precoce invito di J. P. Dumont a

Urbana 1986, pp. 3-33; l’espressione qui tradotta, nell’originale è a p. 13. Si veda anche infra, pp. 185-186 e).

91J.-P. DUMONT, The Headman and I: Ambivalence and Ambiguity in Anthro-

pological Fieldwork, University of Texas Press, Austin & London 1978, p. 12.

92Cfr. P. RABINOW, Reflections on Fieldwork in Morocco, University of Cali- fornia Press, Berkeley 1977.

93A. APPADURAI, «Introduction: Place and Voice in Anthropological Theory», in Cultural Anthropology, 3, 1, 1988, Place and Voice in Anthropological Theory, pp. 16-20.

94«[…] in the fieldwork there is a curious double ventriloquism. While one part of our traditions dictates that web e the transparent medium for the voices of those we encounter in the field, that we speak for the native point of view, it is equally true that we find in what we hear some of what we have been taught to expect by our own training, reading, and cultural backgrounds. Thus our infor- mants are often made to speak for us. Sometimes [...] it becomes difficult to say who really speaks for whom. But the problem of voice is a problem of multiplicity as well as a problem of representation». (Ivi, p. 18).

riconoscere e realizzare l’uso del Sé, della soggettività, come proce- dura di scoperta91. Ciò che Dumont propone è una forma di détour, che capovolge le posizioni ermeneutiche piú tradizionali e inverte la direzione del circolo rispetto a come era stato definito, ad esempio, da Rabinow92: non il détour dell’altro per la scoperta del sé, bensì l’e-

sposizione del sé per la comprensione dell’altro.

La critica del realismo non deve far perdere di vista la realtà del fieldwork e il “realismo” come valida epistemologia. In tale direzione sembra puntare la riflessione avviata da Arjun Appadurai, che in un saggio del 1988 lamentava la scarsa attenzione prestata alle dimen- sioni propriamente spaziali di tale procedura d’indagine93. I luoghi etnografici, infatti, sono le localizzazioni culturalmente definite cui le etnografie si riferiscono, e spesso questi luoghi finiscono per essere identificati con i gruppi umani che li abitano. Costituiscono, dunque, il «panorama dell’antropologia», nel quale si colloca anche l’etno- grafo, quasi sempre in una posizione privilegiata, ma spesso anonima.

Proprio come i “luoghi immaginati” sono confermati tautologica- mente dal ritrovamento sul campo delle unità etnografiche corri- spondenti alla topografia stabilita dall’etnografo, così l’incontro etnografico sembra proporre spesso ciò che Appadurai definisce il «doppio “ventriloquismo del fieldwork”»94. Eppure, l’etnografia sembra reggersi concretamente su questa forma di ventriloquio, ben CRISI E CRITICA DELL’ANTROPOLOGIA 175

95 «Esiste una specie di ventriloquio etnografico: la pretesa di parlare non solo di un’altra forma di vita, ma di parlare dal suo interno[…]». (C. GEERTZ,

Opere e vite, cit., p. 153).

96A. APPADURAI, «Introduction: Place and Voice», cit., p. 18.

diverso da quello puramente testuale descritto e criticato negativa- mente e con alacre sarcasmo da Geertz95. Come impone loro la stessa tradizione disciplinare, gli etnografi s’illudono di parlare per gli altri, ma spesso ritrovano nelle voci sul campo gran parte dei luoghi comuni etnografici appresi nel corso della formazione professionale, attra- verso l’insegnamento e la lettura dei classici, così che gli informatori, paradossalmente, finiscono per parlare per conto degli etnografi96.

Il problema di parlare “per conto di altri” (speaking for) e al tempo stesso “agli altri” (speaking to) s’intreccia alle difficoltà del posizionamento nel luogo da cui si parla e della localizzazione del- l’oggetto di cui si parla. In entrambi i casi, per l’etnografo si tratta del difficile compito di affrontare le implicazioni di natura dialogica, di mediarle attraverso il raggiungimento di una consapevolezza rifles- siva. Mentre l’etnografo parla ad altri etnografi e ai suoi altri possibili lettori “per conto dei nativi” – dal loro punto di vista – egli parla ai suoi interlocutori nativi per conto della disciplina e della società che rende possibile l’impresa, con l’autorità di cui è investito.

Un’articolazione simile si riscontra, inoltre, se si considera che il luogo da cui si parla è, al tempo stesso, interno ed esterno al luogo di cui si parla: è esterno in quanto spazio della società che legittima l’e- sistenza di una disciplina da cui la localizzazione ha origine, ma è anche interno, perché soltanto la compresenza spaziale rende possi- bile l’incontro etnografico, entro la particolare localizzazione impo- sta agli altri. In questa seconda connessione la riflessività è un’im- presa ben piú ardua. I ruoli e le voci sul campo si moltiplicano e si sovrappongono a vicenda, come in una stanza degli specchi, tanto da rendere centrale il dilemma della voce e problematico il riconosci- mento della soggettività che sta realmente parlando, nonché il desti- natario dei discorsi. Affrontato in tal modo, il problema della voce è tanto un problema di rappresentazione e di autorità testuale, quanto un problema di molteplicità e mobilità di soggetti e ruoli effettiva- mente coinvolti nell’incontro etnografico. Esso è dunque un pro- blema politico. L’autorità, nei testi e nella società (o nella società

97J. FABIAN, Il tempo e gli altri: la politica del tempo in antropologia, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2000, p. 170.

98Ivi, p. 61. 99Ivi, p. 174. 100Ivi, p. 53.

attraverso i testi), non sarebbe allora tanto una questione di rappre- sentazione autoriale e di stile, quanto piuttosto l’insieme delle forme attraverso cui il potere pervasimene si manifesta e si scrive.