Se accettiamo la definizione della testualità come pratica elaborata da Edward Said30, dobbiamo considerare i testi come prodotti di processi socio-culturali entro contesti storici e politici, là dove il lin- guaggio di un testo può assumere in parte la “lingua” di un testo pre- cedente – un co-testo – inglobato come segno di una fase storica anteriore. Si determina così il dinamismo della comunicazione testuale, caratterizzato dalla fluidità dei rapporti tra testi, pre-testi e co-testi, ovvero dallo statuto mobile di ciascuno. Mentre un testo accoglie in sé le tracce dei testi precedenti, esso diventa a sua volta una traccia per quelli che seguiranno, in un processo intertestuale
31«L’intertestualità appare come il corrispettivo in ambito letterario della plurivocità propria della lingua […] Come nella plurivocità si rivelano elementi che pervengono a una varietà di socioletti e orientamenti ideologici, così con l’in- tertestualità traspaiono le linee di filiazione culturale al termine delle quali il testo si pone […]. Col trasparire dell’intertestualità, il testo esce dal suo isolamento di messaggio, e si presenta come parte di un discorso sviluppato attraverso i testi, come dialogicità le cui battute sono i testi, o parti di testi, emessi dagli scrittori». (C. SEGRE, Avviamento all’analisi del testo letterario, cit., p. 86). Cfr. anche HANKS, WILLIAMF., 1989, «Text and Textuality», cit., pp. 97-98.
32G.E. MARCUS, «Cultural Anthropology at Rice Since the 1980’s», Provost Lecture, February 17, 1992 <http://www.ruf.rice.edu/~anth/research/marcus- provost-lecture.htm>.
infinito che rende ciascun testo parte di una continua produzione e sovrapposizione di discorsi31.
Anche Scrivere le culture si colloca al centro di una fitta rete inter- testuale, che delimita un campo di discorsi talvolta anche contrastanti, e tuttavia legati da un interesse comune per l’analisi dell’origine e delle conseguenze di una riconosciuta “crisi della rappresentazione etnografica”. È una fonte di legittimazione sia dei discorsi rimasti in una condizione di invisibilità – o meglio di silenzio – prima della pubblicazione del libro, sia di quelli che da esso prenderanno spunto. Sebbene Marcus lo presenti come una fonte di «contro-autorità»32, il volume non sfugge al principio di autorità implicito in ogni testo, e s’inserisce immediatamente nel sistema canonico di comunicazione del sapere all’interno delle comunità scientifiche, mediante la lettura, le discussioni, le recensioni, le critiche e il canone delle citazioni.
La lettura che proporremo sarà inevitabilmente condizionata dal carattere disomogeneo del volume, dalla sua natura ai limiti della frammentarietà.
Distinguiamo in primo luogo uno scenario storico che risale fino agli anni Sessanta e che ci consente di seguire sulla lunga durata il dinamismo intellettuale di alcuni campi di elaborazione e discussione teorica. In tale scenario riconosciamo tre fondamentali matrici intel- lettuali della svolta di Santa Fe, rappresentate dal Rationality Debate, dal progetto critico dell’antropologia radicale e dalle nuove tendenze della teoria e della critica letteraria poststrutturalista. Se quest’ultima componente è stata consapevolmente integrata nel campo discorsivo di Scrivere le culture, il Rationality Debate e l’antropologia radicale sono matrici non pienamente riconosciute e, dunque, da problema- CRISI E CRITICA DELL’ANTROPOLOGIA 65
33 Molti studiosi, non solo antropologi, agli inizi degli anni Ottanta erano impegnati individualmente – talvolta in modo anche abbastanza defilato – in per- corsi di ricerca che sarebbero emersi dall’ombra grazie al seminario, e che si svi- lupperanno secondo linee tematiche elettive anche differenti dopo la pubblica- zione del libro. Si veda infra, p. 140 a).
34Si tratta di prospettive sia interne al dibattito avviato a Santa Fe sia margi- nali ad esso, come nel caso della drastica critica della rappresentazione etnogra- fica realizzata da Johannes Fabian col suo studio degli «usi, passati e presenti, del Tempo come modalità di costruzione dell’oggetto antropologico». (J. FABIAN, Il
tempo e gli altri: la politica del tempo in antropologia, L’Ancora del Mediterraneo,
Napoli 2000, p. 28). Si veda infra, p. 140 a).
tizzare all’interno di una ricostruzione genealogica. Nel caso dell’an- tropologia radicale si tratta, a nostro avviso, di una marginalizzazione dovuta probabilmente alla contingente necessità di una preliminare mappatura “letteraria” del campo, ma ciò si tramuta in un vero e pro- prio misconoscimento, che diventa un indizio ulteriore della rischiosa deriva estetizzante cui il dibattito si espone.
Dobbiamo poi distinguere almeno due diverse tipologie di scritti, corrispondenti a differenti orientamenti che condizionano la scelta degli argomenti da parte dei singoli studiosi.
Un primo insieme è rappresentato da veri e propri pre-testi al seminario, realizzati dal gruppo di studiosi presenti a Santa Fe. Si tratta di saggi programmatici nei quali gli autori fissano le coordinate del nuovo approccio critico basato sull’analisi della scrittura etno- grafica. Questi scritti inaugurano la riflessione sull’etnografia come genere specifico, la cui storia sarà riletta retrospettivamente a partire dalle innovazioni formali, stilistiche e descrittive introdotte alla fine degli anni Settanta in una serie di testi definiti “sperimentali”33.
La seconda tipologia comprende testi che sviluppano una critica piú specificamente epistemologica, incentrata in particolare sull’ana- lisi delle procedure di costruzione dell’oggetto antropologico, non- ché sui rapporti tra fieldwork e teoria. In questo caso le questioni relative alla scrittura non sono il punto di partenza dell’analisi, ma rappresentano un corollario non indifferente della critica dei fonda- menti discorsivi dell’antropologia, in particolare per ciò che riguarda il rifiuto dell’oggettivismo visualista, riconosciuto come fondamen- tale orizzonte epistemologico dell’etnografia tradizionale34.
Inoltre, vorremmo indicare almeno cinque direzioni di sviluppo dell’iniziale progetto collaborativo, corrispondenti ad alcune figure
di primo piano e agli interessi teorici dominanti nei rispettivi percorsi di ricerca:
1) Innanzitutto, gli studi di James Clifford, il quale – da una posi- zione marginale rispetto al campo propriamente antropologico, data la sua formazione di storico – ha elaborato un approccio “letterario” alla scrittura e ai metodi della disciplina tematizzando in modo deci- sivo il problema dell’autorità etnografica, e dando l’impronta carat- teristica alla “svolta” grazie alla sua definizione dell’etnografia come true fiction.
2) Un diverso approccio è quello di G.E. Marcus e M.J. Fischer, impegnati nella sistematica delimitazione del canone di scrittura etnografica classico e in un ambizioso progetto di ricostituzione teo- rica dell’antropologia nelle sue potenzialità di critica culturale, com- misurato alle mutate e sempre mutevoli condizioni del fieldwork, e da attuare mediante strategie di sperimentazione testuale permanente.
3) Ancora, il formalismo testuale di Robert Thornton, il quale, dopo aver individuato i limiti d’uso dei criteri di analisi tratti dalla teoria letteraria, mira a definire strumenti interpretativi specifici per l’etnografia.
4) C’è poi il “manifesto” per un’etnografia post-moderna elabo- rato da Stephen A. Tyler all’interno di un orizzonte filosofico anti- metafisico riconducibile al pensiero di Heidegger e di Nietzsche. Nell’approccio di Tyler, l’intento di superare in modo definitivo il linguaggio della rappresentazione, e la ricerca sperimentale, fram- mentaria, mai compiuta, di un linguaggio evocativo, tracciano uno spazio di possibile con-fusione tra critica della scrittura etnografica, etnografia sperimentale ed estetica postmoderna.
5) Infine, lo sguardo autocritico di Paul Rabinow, il quale ha ela- borato un approccio al fieldwork, alla scrittura e all’analisi dei testi, caratterizzato dall’immissione del pensiero di Michel Foucault in una prospettiva antropologica di impostazione ermeneutica, benché con- cretamente volta a superare la formazione geertziana. Attraverso la critica del discorso, infatti, Rabinow apre il passaggio dall’analisi dei testi a quello dei contesti di potere al cui interno i testi vengono pro- dotti e scambiati. Il tema della crisi della rappresentazione etnogra- fica e la congiunta critica dell’autorità – i due nuclei dell’intero dibat- tito – emergono all’intersezione dei piani discorsivi attivati dal dinamismo intellettuale nella lunga durata, attraverso la rete interte- CRISI E CRITICA DELL’ANTROPOLOGIA 67
35P. RABINOW, «Le rappresentazioni sono fatti sociali. Modernità e postmo- dernità in antropologia», in J. CLIFFORD- G.E. MARCUS(a cura di), Scrivere le cul-
ture, cit., pp. 315-348.
«Geertz, il fondatore, si soffermerà, tra una monografia e l’altra, a meditare su testi, narrativa, descrizione e interpretazione» (Ivi, p. 325).
36«È vero, il Diary disturba, ma non disturba per ciò che dice Malinowski. In buona parte, infatti, si tratta di luoghi comuni neo-romantici, e, al pari di altre “confessioni” famose, non è così rivelatore come sembra. Il diario disturba piut-
stuale e nelle differenti direzioni di ricerca dei protagonisti finora brevemente ricordati.
Un posto a parte in questo fascio di testi e discorsi è occupato da alcuni scritti di Clifford Geertz, il quale negli anni Ottanta sembra collocarsi in una posizione defilata rispetto all’attivismo generale nella produzione di saggi o volumi collettivi legati al dibattito, mostrando un interesse occasionale, estemporaneo, conseguenza forse inevitabile di un atteggiamento che appare di ironico distacco. Gli stessi protagonisti della svolta in modo unanime hanno ricono- sciuto a Geertz il ruolo di «fondatore» del nuovo interesse per i testi, per la descrizione, l’interpretazione e la dimensione narrativa dell’et- nografia. Ma riconoscere il ruolo di Geertz nella svolta retorica, ed il modo indiretto in cui egli interviene nel dibattito, è necessariamente qualcosa di piú radicale della semplice ammissione di una eredità. Significa avvertire l’esigenza di esplorare le molte aree di silenzio nelle sue opere, per cercare quelle tracce che incidono sul dibattito con esiti forse inattesi.
Grazie all’uso creativo del suo interesse per la testualizzazione, egli ha provato a reinventare l’antropologia attraverso un consape- vole e intenzionale impiego di “finzioni” testuali, come ha notato Paul Rabinow35. In effetti, Geertz ha inteso chiarire la natura dell’a- nalisi antropologica come forma di conoscenza a partire da una rifles- sione sull’etnografia, che egli ha indicato quale pratica distintiva dell’antropologia. Come già detto, la pubblicazione dei diari di Malinowski è l’evento decisivo per lo sviluppo di questa riflessione, poiché l’impegno ad approfondire i problemi epistemologici posti da quel testo, ben al di là dello “scandalo” morale per la disciplina e i suoi esponenti, conduce Geertz a spostare la discussione dal piano dell’esperienza sul campo a quello della scrittura36. La metafora della
tosto per quello che dice riguardo all’essere là». (C. GEERTZ, Opere e vite. L’an-
tropologo come autore, Il Mulino, Bologna 1990, p. 83). Geertz affermava che
«[…] Malinowski aveva posto la questione dell’essere là nella sua forma piú radi- cale, anche se non necessariamente piú produttiva, molto prima che il Diary sopraggiungesse ad offrirne ai piú disattenti, una sottolineatura drammatizzata». (Ivi, p. 90). «Il problema […] è quello di rappresentare il processo di ricerca nel prodotto della ricerca; è quello di scrivere un’etnografia in modo tale da stabilire un rapporto intelligibile tra le proprie interpretazioni di una certa società, un certo modo di vita o altro, da un lato e, dall’altro, gli incontri con chi, di quella società, cultura, modo di vita è membro, portatore, rappresentante o comunque partecipe». (Ivi, pp. 90-91).
37«Nella misura in cui la cultura è un sistema di segni che si va socialmente costruendo nel momento in cui essi sono interpretati (quello che chiamerei sim- boli, trascurandone gli usi locali), la cultura non è un potere, qualcosa a cui si pos- sano casualmente attribuire avvenimenti sociali, comportamenti, istituzioni o processi; essa è un contesto, qualcosa entro cui tutti questi fatti possono essere descritti in maniera intelligibile – cioè densa». (C. GEERTZ, «Verso una teoria interpretativa della cultura», in ID., Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 39-70; la citazione è a p. 51).
38Ivi, p. 54.
39«Non sempre gli antropologi sono stati consapevoli di questo fatto quanto avrebbero potuto: che, sebbene la cultura esista nella stazione commerciale, nel forte sulla collina o nel tratturo delle pecore, l’antropologia esiste nel libro, nel- l’articolo, nella conferenza, nella mostra al museo o, talvolta, ai giorni nostri, nel film. Rendersi conto di questo significa essere consapevoli che nell’analisi cultu- rale, così come nella pittura, non si può tracciare il confine tra i modi di rappre- sentazione e il contenuto effettivo; e questo fatto a sua volta sembra minacciare lo status oggettivo della conoscenza antropologica, suggerendo che la sua fonte non è la realtà sociale ma un artificio dello studioso». (Ibid.). E in un passo ancora piú decisivo: «In breve, gli scritti antropologici sono essi stessi interpretazioni, e per di piú di secondo o di terzo ordine. […] Sono quindi finzioni, finzioni nel senso che sono “qualcosa di fabbricato”, “qualcosa di modellato” – il significato originario di fictio – non che sono false, irreali o semplicemente ipotesi pensate “come se”». (Ivi, p. 53).
“cultura come testo” fornisce l’orizzonte per intendere l’etnografia come costruzione di una “lettura” contestuale – una interpretazione di secondo livello – fissata nella scrittura di una “descrizione densa”37. In tal modo, «il confine tra i modi di rappresentazione e il contenuto effettivo»38 delle descrizioni diventa indistinto, fino a scomparire del tutto: di qui l’idea che le rappresentazioni etnografi- che siano delle “finzioni”, vale a dire qualcosa di “fabbricato”, senza che ciò implichi un giudizio di falsità39.
40Una selezione dei saggi tratti dalle due antologie che raccolgono gli inter- venti dei principali protagonisti del dibattito è stata tradotta in italiano in F. DEI- A. SIMONICCA, Ragione e forme di vita. Razionalità e relativismo in antropologia, Franco Angeli, Milano 1990. Qui ritroviamo gli scritti di Peter Winch, Ernest Gellner, Martin Hollis, già pubblicati, insieme ai saggi di Alasdair MacIntyre e di Ian C. Jarvie-Joseph Agassi, nel volume Rationality (1970) a cura di B.R. Wilson. Quindi, saggi apparsi negli anni Settanta e Ottanta sulla rivista Philosophy of the
Social Sciences o pubblicati in Modes of Thought (1973) a cura di R. Finnegan-R.
Horton, nonché i contributi di Barry Barnes, David Bloor, Charles Taylor e Ste- ven Lukes. Per i riferimenti bibliografici si veda infra, p. 141 b).
Così inteso, il sapere dell’antropologia conserva l’obiettivo di accedere al ”punto di vista del nativo”, ma taglia corto con il princi- pio di partecipazione empatica che consentirebbe di mutar pelle per consentire una descrizione dall’interno in cui la voce dell’etnografo parla come se fosse quella del nativo. Ciò che Geertz mette in luce è la necessaria e ineliminabile mediazione comunicativa e linguistica dell’operazione di attraversamento di sistemi di significato differenti affinché vi si possa penetrare per poi tradurli, sempre mediante non facili approssimazioni di senso.