• Non ci sono risultati.

Figurazioni del ‘male osceno’: Verga, Kiš, Roth

di Francesco de Cristofaro

1. Una scienziata, ospite a un convegno, è invitata a visitare la Biblioteca Centrale di Stoccolma; do po aver esibito un lasciapassare al muto custode, accede ai sotterranei, polverosi e sinistri. Vi trascorre, in un rapimen to dei sensi e della mente, l’intera notte: sugli scaffali di quel regno dei morti e dei ragni trova infatti una smisurata opera enciclopedica, dove sono sintetizzate icasticamente le vite di quanti, fra gli uomini passati sulla terra dopo la Ri- voluzione francese, non abbiano lasciato traccia di sé. È l’«enci clo pedia dei morti», alla quale lo scrittore ebreo serbo-ungherese Danilo Kiš ha dedicato, nel 1981, il racconto eponi mo della sua silloge più estrema1: un racconto che

sta tra il Museo de la novela de la eterna di Fernández e Todos os nomes di Sarama- go, ma che è anche un ramo del l’«al be ro» della narrazione totalizzante cui hanno mirato, in modo differente, un Flaubert o un Broch2. Quel ricettacolo

del le vite disperse costituisce, secondo Aleida Assmann, un’«enciclopedia controfattuale del l’oblio», di ciò che la memoria storica e la tradizione ten- dono ad espellere perché poco saliente o scarsamente incidente sulle sorti del mondo; è un «archivio inverso» dettato «dal desiderio biblico di essere inscritti nel libro della vita»3. A differenza dei mormoni che – ci avverte

Kiš, con stupore, nella postfazione – sin dal 1958 effettivamente raccolgono, in una montagna di granito nello stato dello Utah, centinaia di migliaia di microfilm con te nen ti i nomi di tutti gli uomini, quasi a comporre una verti- ginosa a na gra fe universale4, la casta dei compilatori dell’Enciclopedia non solo

1 D. Kiš, Enciklopedija mrtvih, Prosveta, Beograd 1985 (Enciclopedia dei morti, trad. it. di L.

Costantini, Adelphi, Milano 1988: le citazioni si riferiranno a questa edizione, d’ora in poi abbreviata con la sigla EM).

2 Si legga in proposito la stimolante riflessione di M. Rizzante, L’albero. Saggi sul romanzo,

Marsilio, Venezia 2007.

3 A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, trad. di S. Paparelli, Il

Mulino, Bologna 2002, p. 437.

4 Non è forse irrilevante che nella stessa postfazione Kiš sottolinei come il suo racconto

si ispiri a un sogno realmente narratogli da un’amica prima di scoprire l’esistenza di quel “registro universale” nelle Montagne Rocciose.

si guarda dal discernere le vite illustri dalla serie continua del l’hu ma num, ma non procede nemmeno, nella redazione delle biografie, per identificazione di marche, selezione di dettagli o stilizzazione di aspetti. «Per il Libro dei morti la storia è una somma di avvenimenti effimeri. Perciò vi è annotato ogni atto, ogni pensiero, ogni soffio creatore, riportata ogni quota, ogni palata di fango, indicato ogni movimento che ha fatto cadere un mattone dai muri in rovina» (EM, 60). In tal senso, il «libro venerando» di Kiš è davvero, come ha avuto a osservare Guido Mazzoni, l’esito più coerente e ambiguo che la Dichiarazione dei diritti del l’uo mo potesse sortire: tributo all’arte come ars memorativa integrale e democratica, e nello stes so tempo fi gura allucinata non tanto dell’uma na diversità, quanto della hegeliana «cattiva infinità» a cui la lette ra tu ra per viene, se dimentica la natura convenzionale della propria mimesi e affonda nell’oceano dei realia5.

L’avventura notturna darà modo alla scienziata di intraprendere, grazie alla mediazione dei libri, un viaggio conoscitivo nella vita, e soprattutto nel calvario, del padre, stremato dal cancro appena due mesi prima del con vegno svedese. Dapprima una fotografia, poi il rinvenimento del faldone relativo a «Dj. M.», iniziali che nella finzione segnalano il genitore, attirano la sua attenzione. La scrittura del racconto – che svelerà la sua consistenza onirica nell’istante di una scon volgente epifania – doppia, con straor di naria oltranza stilistica, la ricchezza e la varietà degli avvenimenti che compongono «tutta una vita» (come recita il sottotitolo), scegliendo quell’«amal ga ma incredibile di concisione enciclopedica e di eloquenza biblica» (EM, 48) che si realizza in periodi nervosi e serrati, preterizioni, enumerazioni caotiche, frasi nominali, asindeti, anisocronie; infine in uno scialo di fatti, cose e scene «ridotte per così dire a ideogrammi» (EM, 49). Così un’intera Erlebnis è restituita alla sua unicità sacra, in quanto nulla si replica nel cammino dell’uomo, ciascuno è un mondo a sé, «tutto accade sempre e mai, tutto si ripete all’in finito e irrepetibilmente» (EM, 55).

C’è però un momento, nel corso di questa vita densa e frustrante – da Belgrado a Trieste, dai sentimenti inconoscibili alle cose inessenziali, dal primo schizzo dei propri baffi alla prima sigaretta fumata, dall’elenco delle partite seguite a quello dei funerali cui partecipò, dal servizio militare alle malattie infettive dei figli, dai prezzi del cibo e dell’acquavite alle notizie lette sul giornale –, c’è un momento in cui il corpo comincia a dettare la sua legge, la sola inappellabile. Il vecchio si scopre «un gonfiore sospetto nella regione dell’inguine» e intuisce l’efflorescenza nel suo intestino «come da un bulbo [di] una pianta velenosa sconosciuta» (EM, 77). Qui non è più

il libro a parlare, ma la voce sgomenta della don na: «Non ho neppure la forza di descriverle lo sguardo con il quale si accomiatò da me sulla scalinata dell’ospedale un giorno o due prima dell’operazione; vi si leggevano tutta la vita e tutto l’orrore della coscienza della morte. Tutto ciò che un uomo vivo può sapere della morte» (EM, 68).

Nel lungo tempo che aveva preceduto l’hora mortis, Dj. M. era stato colpito anche da una sorta d’infezione botanico-artistica: aveva cominciato a «coltivare» fiori ornamentali, disseminando decorazioni floreali per tutta la casa. Un bricolage tormentoso che era scaturito da una macchia prodot- tasi nell’imbiancare i muri del bagno; il vecchio aveva deciso di ricoprire la chiazza con un primo fiore, «una campanula enorme, o un nenufaro, lo sa il diavolo» (EM, 65). Quei segni – formanti plastici bidimensionali e stilizzati, ossia icone – culminano in un fiore scorto nelle pagine conclusive del libro, così che la fine del sogno della donna è un urlo, coincidente con la lettura dell’ulti mo capoverso, dove si scopre che il modulo figurativo aveva la stessa sagoma del sarcoma intestinale del padre:

All’improvviso scorsi, nelle ultime pagine che parlavano di lui, un fiore, un fiore strano che sulle prime mi parve come una vignetta o come la rappre- sentazione schematica di una pianta del mondo dei morti, come l’esemplare d’una flora scomparsa. Ma nella didascalia lessi che si trattava del motivo floreale di base dei dipinti di mio padre. Mi misi allora a ricopiare con le mani che mi tremavano quel fiore inconsueto. Somigliava moltissimo a un’enorme arancia sbucciata e spaccata, solcata da sottili linee rosse simili a capillari. Per un attimo ne fui delusa. Conoscevo bene tutti i disegni che mio padre aveva tracciato nei ritagli di tempo sulle pareti, sulle tavole, sulle bottiglie e sulle scatole, ma nessuno di essi somigliava a questo. Sì, dissi tra me e me, anche loro possono sbagliare. Ma poi, dopo aver ricopiato quell’enorme arancia sbucciata, lessi l’ultimo capoverso e gettai un grido. Mi risvegliai tutta su- data. Allora annotai tutto quello che ricordavo di quel sogno. Ed ecco che cosa ne restò... Sa che cosa diceva quell’ultimo capoverso? Che Dj. M. aveva cominciato a dipingere nel momento in cui si era manifestato in lui il primo sintomo del cancro. E che quindi la sua ossessione di dipingere motivi floreali coincideva con la progressione del male. Quando mostrai il disegno al dottor Petrovi ´c, egli mi confermò, non senza stupore, che il sarcoma negli intestini di mio padre aveva proprio quella forma. E che l’efflorescenza era durata senza dubbio anni (EM, 68-9).

Che il «motivo floreale» sia un esorcismo o un’ossessione, che il «con- tagio» pittorico costituisca una ridondanza o viceversa una negazione del male (non epidemico ma individuale) che colpisce il personaggio, che la forma dell’«aran cia» alluda o meno a una stilizzazione astratta ed estrema

della téchne artistica6, una cosa è certa: è difficile trovare, in tutta la lettera-

tura moderna, una così esatta formalizzazione della rappresentabilità plastica e non analogica della malattia. È un oltraggio figurale, ricercato e rilevato, all’antico postulato circa la sua opacità e la sua refrattarietà alla mimesi; alla legge non scritta che identifica infermo e informe, riservando alla letteratura la sola metafora come via percorribile per lenire lo scandalo del «male osceno». Su questo scrisse pagine cruciali Susan Sontag – che di Kiš era amica – in un celebre pamphlet del 1977 consacrato non alla patologia in sé, ma ai modi in cui essa viene impiegata come figura o come metafora: contro ogni psicologizzazione, specie in chiave punitiva e moralistica, del cancro. Sulla soglia del volume, Sontag sintetizzava con esemplare chia- rezza la sua tesi:

La mia tesi è che la malattia non è una metafora, e che la maniera più corretta di considerarla – e la maniera più sana di esser malati – è quella più libera da pensieri metaforici e ad essi più resistente. Tuttavia è quasi impossibile prendere residenza nel regno dello star male senza essere influenzati dalle impressionanti metafore con le quali è stato tratteggiato7.

Il presente contributo cercherà di illustrare, attraverso due esempi al- tissimi e lontanissimi (sebbene contraddistinti da significativi isomorfismi: dalla dimensione onirica alla centralità, in essi, della relazione pa dre/fi glio), altrettante e opposte declinazioni del paradigma. Si muoverà da alcune rappresentazioni intrecciate della malattia nel l’am pio corpus romanzesco di Philip Roth; si risalirà poi, non genealogicamente, a giusto un secolo prima, pro- ponendo una lettura tematica di un testo della nostra tradizione di cui solo di recente è stata valorizzata la modernità, il Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga. Va da sé come una scelta tipologica di questo genere escluda dalla espo sizione, ma non certo dal suo spazio dialettico, tutto lo ‘spettro delle variazioni’ che si produce – in modo graduale e non privo di contraddizioni e di regressioni – fra un polo e l’altro. Inoltre, tale stessa scelta non intende tracciare alcuna parabola evoluzionistica, né schiacciare le formalizzazioni letterarie sopra i processi dell’inter te sto extraletterario che in esse, a un grado più o meno alto di consapevolezza, si riverberano.

6 Cfr. F. Fevola, ‘L’enciclopedia dei morti’: la necessità nella mimesis di una selezione tra caso narrato e

ordinarietà, in F. de Cristofaro e C. De Caprio (a cura di), Delle coin cidenze. Opificio di letteratura reale / 1, ad est dell’equatore, Napoli 2012, pp. 169-176.

7 S. Sontag, Malattia come metafora. Il cancro e la sua mitologia [1977], trad. it. di E. Capriolo,

2. La prima stazione è un incubo fiacco e indecidibile, elaborato da Philip Roth – dall’unica delle sue molte maschere che porti lo stesso nome dell’au- tore – nel 1991: siamo nell’inquietante conclusione di Patrimony. A True Sto ry, l’autofiction con cui Roth rende omaggio, con stile emozionato e freddissimo, all’ultimo viaggio del padre ottantaseienne, stroncato da un cancro al cervel- lo. Il narratore ha appena finito di ricordare, in un capitolo che mescola in modo strano calvario e vitalismo, Primo Levi e pornografia, sapienzialità ed ebraismo («Com battevano perché erano dei lottatori, combattevano perché erano degli ebrei»), il suo imbarazzo nella scelta circa la vestizione del cada- vere del padre; seguìto dalla decisione finale, sbagliata, di seppellirlo avvolto nel sudario degli avi. Allora va a capo, lascia una tripla riga bianca, e rac- conta – senza dapprima specificarne tem pi e modi – un sogno potentissimo, la cui ambientazione è, vagamente, la «Port Newark di una cinquantina di anni fa» (cioè degli anni della seconda guerra mondiale) e il cui soggetto è lui bambino «standing on a pier in a shadowy group of unescorted children who may or may not have been waiting to be evacuated»8.

Questo «gruppo confuso di bambini» vive, come spesso in Roth (ma qualcosa di simile avviene anche nelle figure giovani e indifese care a McE- wan, o nel gelido e splendido Never let me go di Ishiguro), in uno stato di costante, fatale, forse intrinseca esposizione alle offese del mondo: e non c’è innocenza che tenga, perché la violenza del male sarà tanto più cieca, quanto più disarmati e incolpevoli coloro che ha predeterminato di perseguitare. Proprio per questo il titolo Nemesis, che si estende all’intera tetralogia su «la vita e la morte del corpo di un uomo»9 inaugurata da Everyman, risuona di

8 Ph. Roth, Patrimony. A True Story (1991), Vintage Books, New York 1992, p. 234; trad. it.

Patrimonio. Una storia vera, a cura di V. Mantovani, Einaudi, Torino 2007 – alla quale ci rifare-

mo, con minime variazioni [«era in piedi su una banchina in mezzo a un gruppo confuso di bambini non accompagnati che forse erano o forse non erano in attesa di essere evacuati»].

9 Cfr. Ph. Roth, Nemeses 2006-2010 – Everyman, Indignation, The Humbling, Nemesis, Ed. Ross

Miller, New York 2013. Il titolo fictum – «The Life and the Death of a Male Body» – si trova nel primo romanzo del ciclo (p. 31). Si legga quanto scrive ora M. Trainini in una notevole re- censione alla tetralogia apparsa su Enthymema IX, 2013: «Nella prospettiva di Everyman, una delle innumerevoli e possibili controparti finzionali del romanziere che echeggia il rinomato

morality play ma eventualmente pure l’arcaico tabù che è “il divieto di pronunciare il nome

del defunto” (Freud), la vecchiaia ha mutato l’angolo di rifrazione attraverso il quale osser- vare l’atto di morire. Nello stupore dell’infanzia la malattia era vista come incomprensibile “anarchic insurrection” (Roth, Portnoy) per poi divenire nella maturità dell’uomo “a causeless, nameless, untreatable phantom disease” (Roth, Anatomy) quale proiezione di un malessere fisico che possiede però radici esistenziali. Nella senilità, invece, il decadimento fisico e la conseguente cessazione delle azioni vitali sono analizzate su un livello puramente fisiologico o molecolare: divenendo vecchi ciò che possiede importanza non è più “the outside of the body” (Roth, Everyman) quanto piuttosto “what’s inside” (ibid.) ovvero quella materia organica

una crudezza quasi metafisica: perché i ragazzi falcidiati dall’epidemia di polio (fra l’altro, proprio nella Ne wark del 1944), di cui narra quest’altra «storia vera» pubblicata da un documentatissimo Roth vent’anni dopo, non hanno nessuna colpa. Né si può dire che abbia «colpa», almeno nel senso pieno della parola, il labile protagonista del romanzo: che pure, ormai infet- to, verrà visitato, molti anni dopo l’ordalia insensata di quella tragica estate, dai fantasmi delle piccole vittime che aveva dovuto smettere di proteggere. In Nemesis, beninteso, Philip non c’è: se è vero che chi dice io nel ro- manzo non coincide, né fisicamente né anagraficamente né biograficamente, con l’autore. Nell’elegia di Patrimony, invece, egli c’è, senza veli; fa corpo unico coi suoi compagni, dentro la dimensione disturbata, incerta, bilogica del presagio, e dentro quell’eterno stato di «attesa di essere evacua ti» dove orfano ed esule convergono. L’«om be lico» del sogno, ciò che domina la memo- ria del romanzo in chi lo abbia letto, è la colossale apparizione di «a boat, a medium-size, heavily armored, battle-gray boat»10, una sorta di battello

fantasma che, in balia delle onde, si sposta come un’orca verso la riva. Il padre (che nella nostra coscienza di lettori è già morto, ma nel momento della fabula in cui Philip inserisce il sogno non lo è ancora; mentre è proprio il narratore ad avere appena rischiato un infarto) dovrebbe essere, nell’avver- ti mento dell’io onirico, dentro quel la nave; invece è assente, poiché la nave, oltre che rovinata, è deserta. Condensazione visionaria di una vita, dalla tra- versata oceanica dei genitori emigranti poveri fino alla me tamorfosi, a causa del cancro, in relitto uma no, quell’allucina zio ne notturna, occorsa alla vigilia del la seconda biopsia del vecchio, rifugge a ogni siderazione in immagine, al regime tautologico del simbolo («this is not a picture of my father, at the end of his life, that my wide-awake mind, with its resistance to plaintive metaphor and poeticized analogy, was ever likely to have licensed»11, dirà solo poco

più avanti); e sembra invece slittare continuamente verso l’allegoria di una nazione, erompe dai corpi degli uomini, dentro il respiro di una Storia che viene scritta giorno dopo giorno sotto il segno dell’infamia:

The dead-silent picture, a portrait of the aftermath of a disaster, was fright- ening and eerie: a ghostly hulk of a ship, cleared by some catastrophe of all living things, aiming toward the shore with only the current to guide it, and

che anche in colui “triumphantly healthy” (ibid.) è fatalmente destinata alla deperibilità» (p. 462; consultabile al link http://riviste.unini.it/index.php/enthymema).

10 Ivi, p. 236 [«una nave grigia di media grandezza e massicciamente corazzata»]. 11 Ivi, p. 237 [«è un ritratto di mio padre, alla fine della sua vita, che la mia mente luci-

da, con la sua resistenza alle metafore lagnose e alle analogie poetizzanti, non avrebbe mai accettato di licenziare»].

we on the pier who may or may not have been children gathered together to be evacuated. The mood was heartbreaking in exactly the way it had been when I was 12 and, only weeks before the triumph of V-E Day, Presi- dent Roosevelt died of a cerebral hemorrhage. Draped in black bunting, the train moving F.D.R.’s casket up from Washington to Hyde Park had passed with lumbering solemnity through the bereaved crowd squeezed in beside the tracks downtown – during those silent seconds on its journey north, consecrat- ing even workaday Newark. Ultimately the dream became unbearable and I woke up, despondent and frightened and sad – whereupon I understand that it wasn’t that my father was aboard the ship but that my father was the ship. And to be evacuated was physiologically just that: to be expelled, to be rejected, to be born12.

Si è parlato prima, nell’introdurre questo brano, di una indecidibilità del sogno; il che di primo acchito non si direbbe, dal momento che la narrazione si dà come limpida, offrendo persino, poco oltre, una glossa esplicativa di quella ima go fabulosa: la visione «cristallizzava in un modo così appropriato il mio dolore nella figura di un piccolo evacuato senza padre sulle banchine di Newark, stordito e organo come orfana un tempo si era sentita tutta la nazione al passaggio di un eroico presidente»13. Eppure, il padre non è il presi-

dente. La parola del testo resiste, resiste graniticamente. Resiste anche perché quel «F.D.R.» che ora li lasciava orfani aveva sofferto, da giovane, proprio di poliomelite (malattia della sottrazione, della len tezza, dello sfinimento), e adesso era stato abbandonato dalle forze vitali; mentre il padre di Philip non solo sta morendo a causa di una malattia (si tenga a mente, ancora, il cruciale paradigma di Sontag) del l’escre scen za e della protuberanza, ma è anco ra vigoroso e fiero, perché – ci vien detto in The Facts, ed è impossibile non udire l’eco della frase di Kiš sopra citata – «just like those who are incurably ill, the aged know everything about their dying except exactly

12 Ivi, p. 236 [«Quella vista mortalmente silenziosa, il ritratto delle conseguenze di un

disastro, era spaventosa e inquietante: lo scafo spettrale di una nave, svuotata di ogni essere vivente da qualche catastrofe, diretta verso la costa con la corrente come unica guida, e noi sulla banchina che forse eravamo e forse no bambini radunati per essere evacuati. L’atmosfera era straziante proprio come lo era stata quando avevo dodici anni, e solo qualche settimana prima del trionfo del Giorno della Vittoria il presidente Roosevelt era rimasto vittima di un’emor ragia celebrale. Coperto di bandiere nere, il treno che trasportava il feretro di F.D.R. da Washington a Hyde Park era passato con rumorosa solennità tra la folla in lutto pigiata intorno ai binari del centro: consacrando, in quei pochi secondi silenziosi del suo viaggio verso nord, anche la Newark di tutti i giorni. Alla fine il sogno diventò insopportabile e io mi