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Dai Filò di Zanzotto 1

Nel documento Andrea Zanzotto Tra musica cinema e poesia (pagine 113-141)

DI CLAUDIO AMBROSINI

Dai Filò di Zanzotto è un trittico per quattro voci di donna e pianoforte che ho composto nel 2003 per il ‘Cuiusvis Toni Quartet’, compagine femminile forma-tasi di recente a Venezia. Questa ‘ambientazione da camera’ di un conversare contadino di cui si sta lentamente perdendo la traccia prende le mosse dal poe-metto in vernacolo Filò, pubblicato nel 1976 e che raccoglie in un volume tre componimenti del poeta solighese: Recitativo Veneziano, Cantilena Londinese e, per l’appunto, Filò. Il fatto che questa silloge accosti vari testi, quasi ‘rituali di parola’ di diversa intonazione, e le numerose occasioni avute sia di sentire Andrea Zanzotto parlare in pubblico, sia di colloquiare con lui, mi hanno porta-to a dare un tiporta-tolo ‘illogicamente’ plurale alla mia composizione (‘dai’ e non ‘da’), intendendo appunto i nostri conversari come dei piccoli ‘filò’, versioni miniaturizzate delle tradizionali ‘ciacole’ serali tra familiari e amici che si svolge-vano nelle campagne venete.

Come lettore appassionato di poesia – nel mio studio tengo quasi esclusivamente libri di questo genere – desideravo da tempo tentare di musicare Zanzotto. Negli anni precedenti c’erano state almeno due altre occasioni: la prima sollecitata

dal pittore Armando Pizzinato; l’altra dalla RAI, in vista di una partecipazione alla

competizione internazionale radiofonica ‘Prix Italia’, ma erano entrambe sfumate. Avevo inoltre avuto occasione di leggere attentamente il Recitativo Veneziano nel 1998, dopo aver portato a termine la stesura dell’opera-balletto Le cahier perdu de Casanova, che ho composto per il Teatro di Ludwigsburg, presso Stoccarda. Questa è una prassi che seguo rigorosamente quando mi accade di lavorare su temi che siano stati già trattati da altri: andare a vedere – ma solo dopo aver terminato il mio lavoro di composizione – come l’argomento sia stato da questi affrontato. In quel-l’occasione il nostro spettacolo era stato rappresentato in Germania, per celebrare il secondo centenario della morte di Giacomo Casanova, anniversario peraltro pres-soché ignorato nella nostra Venezia.

Queste tappe precedenti, benché senza esito, sono state in ogni caso utili sia per aumentare il desiderio, sia per la maturazione interiore che ha portato adesso a Dai Filò di Zanzotto (per due soprani, mezzosoprano, contralto e pianoforte) di cui l’Ateneo Veneto, in collaborazione con gli Amici della Musica di Venezia, ha

rea-lizzato una tiratura a stampa e un CD(interpretato da Susanna Armani, Elisa Savino,

Julie Mellor e Caterina Bonelli, con Aldo Orvieto al pianoforte). Il volume include, oltre alla partitura autografa, vari studi e abbozzi di stesura e la trascrizione di una conversazione sull’argomento che ho avuto con Andrea Zanzotto il 4 gennaio 2004,

nella sua casa di Pieve di Soligo. Il CDinclude inoltre una rara lettura, dello stesso

Zanzotto, delle poesie musicate.

1In questo e nel seguente saggio si fa riferimento alla partitura autografa allegata al volume Dai Filò di Zanzotto, Venezia, Ateneo Veneto libri, 2004.

Osservazioni preliminari

Il montaggio di testi originali di Dai Filò di Zanzotto inizia con il frammento: «O come ti cressi, o luna dei busi fondi» che ho collocato, per il suo riferirsi a Venezia, in apertura, quasi a stabilire un punto di partenza, una visuale prospettica. È una soglia di identità, privata (essendo io veneziano) e simbolica: è il centro di irradia-zione della vasta area da cui proviene anche il Poeta. È la nostra sorgente culturale e linguistica comune: quel dialetto che, come «vecio parlar», diventa poi argomen-to della seconda parte del trittico.

La Venezia che si invoca in questi primi versi è una Madre vitale, prorompente, sen-suale e misteriosa; una città non solo bella ma forte e magica: ‘Venusia’ e ‘Venaga’, come la definisce con un guizzo il Poeta, in un corto circuito che ne fonde il nome con l’eco della parola ‘maga’.

È un inizio carico di energia, una sequenza veloce di immagini e suggestioni di vario tipo: esplosive, con quei verbi ‘ascendenti’ (nascere, crescere, non chiudere, inlaga-re, venir su); allusive, quasi inquietanti, come gli anfratti e le voragini oscure dei «busi fondi»; surreali (i «capelli blu e biondi»), liquide (l’inversione prospettica di un allagarsi amniotico, non più racchiudibile dal mare), mitiche (una «dragona de arzento» che trascolora nella beltà di Venere). È una Venezia che vuol sentirsi anco-ra viva e in espansione, capace di sfaldare la dimensione spazio-tempo, fondandosi («nu par ti, ti par nu») su un patto virtuoso, una complicità tra uomo e ambiente. È la Venezia che mi piace immaginare, modello e memoria.

Il testo musicato

O come ti cressi, o luna dei busi fondi, o come ti nassi, cavegi blu e biondi, nu par ti, ti par nu,

la gran marina no te sèra più, le gran barene de ti se inlaga, vien su, dragona de arzento, maga! Aàh Venessia aàh Venaga aàh Venùsia [...]

Oci de bissa, de basilissa

2Le trascrizioni in italiano sono di Tiziano Rizzo.

3Questo verso appartiene ad un’altra strofa del Recitativo Veneziano ed è curiosamente anche l’unico verso, dell’in-tera raccolta, a ricomparire, dopo, in Filò.

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O come cresci, o luna dei baratri fondi, o come nasci, capelli blu e biondi, noi per te, tu per noi,

il grande mare più non ti rinserra, le grandi barene di te si allagano, sali, dragona d’argento, maga! Aàh Venezia aàh Venaga aàh Venùsia2

[...]

Questa prima parte è stesa in un veneziano ‘misto’, con prestiti dall’entroterra. Un veneziano parzialmente «di invenzione» – come riconosce lo stesso Autore – nato

per ottemperare al dettagliato invito di Federico Fellini per il suo Casanova.4

Nella parte che segue invece il dialetto, da ‘mezzo’ per dire di Venezia, diventa sog-getto stesso della poesia: protagonista è ora il «vecio parlar», il parlare dei padri. Questa seconda parte si configura quindi come un’intensa riflessione sulla lingua materna, piena di nostalgia ed amarezza per un patrimonio che si sta ormai per-dendo, un bene prezioso di cui il Poeta auspica la miracolosa sopravvivenza e rina-scita attraverso un salvifico canto di uccelli – anche solo due o tre – miracolosa-mente sopravvissuti alla carneficina in atto.

Vecio parlar che tu à inte ‘l tó saór un s’cip del lat de la Eva, vecio parlar che no so pi, che me se á descuní

dì par dì ‘nte la boca (e no tu me basta); che tu sé cambià co la me fazha co la me pèl ano par an; parlar porèt, da poreti, ma s’cet ma fis, ma tóch cofà ‘na branca

de fien ‘pena segà dal faldin (parchè no bàstetu?) – noni e pupà i é ‘ndati, quei che te cognosséa, noni mame le é ‘ndate, quele che te inventéa, nóvo petèl par ogni fiòl in fasse,

intra le strússie, i zighi dei part, la fan e i afanézh. Girar me fa fastidi, in médo a ‘ste masiére de ti, de mi. Dal dent cagnin del temp inte ‘l piat sivanzhi no ghén resta, e manco de tut i zhimiteri: òe da dirte zhimitero? Élo vero che pi no pól esserghe ‘romai

gnessun parlar de néne-none-mame? Che fa mal ai fiói ‘l petèl e i gran maestri lo sconsilia? Élo vero che scriverte,

parlar vecio, l’é massa un sforzh, l’é un mal anca par mi, cofà cior par revèrs,

4La stesura di Filò prende le mosse da una lettera che Fellini, intento a realizzare il suo Casanova, manda a Zanzotto, chiedendogli di scrivere un accompagnamento in versi per la scena di apertura del film: un rituale inventato dal regi-sta in cui una grande teregi-sta nera, che simboleggia Venezia, vien fatta emergere dalle acque della laguna. A questo com-ponimento (in realtà, due: Recitativo Veneziano e Cantilena Londinese) nato su commissione, fece in un secondo momento seguito la ‘riflessione’ spontanea di Filò.

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par straòlt, far ‘ndar fora le corde de le man? Ma intant, qua par atorno, a girar pa’ i marcà, o mèjo a ‘ndar par camp e rive e zhope là onde che ‘l gal de cristal canta senpre tre òlte, da juste boche se te sent. Mi ò pers la trazha, lontan massa son ‘ndat pur stando qua

invidà, inbulonà, deventà squasi un zhóch de pionbo, e la poesia no l’é in gnessuna lengua

in gnessun logo – fursi – o l’é ‘l busnar del fógo che ‘l fa screcolar tute le fonde

inte la gran laguna, inte la gran lacuna – la é ‘l pien e ‘l vódo dela testa-tera che tas, zhigna e usma un pas pi in là de quel che mai se podaràe dirse, far nostro. Ma ti, vecio parlar, resisti. E si anca i òmi te desmentegarà senzha inacòrderse, ghén sarà osèi –

do tre osèi sói magari

dai sbari e dal mazhelo zoladi via –: doman su l’ultima rama là in cao in cao de zhièse e pra,

osèi che te à inparà da tant te parlarà inte ‘l sol, inte l’onbría.

Vecchio dialetto che hai nel tuo sapore un gocciolo del latte di Eva,

vecchio dialetto che non so più, che mi ti sei estenuato

giorno per giorno nella bocca (e non mi basti); che sei cambiato con la mia faccia

con la mia pelle anno per anno; parlare povero, da poveri, ma schietto ma fitto, ma denso come una manciata

di fieno appena tagliato dalla falce (perché non basti?) – nonni e babbi sono andati, loro che ti conoscevano, nonni e mamme sono andate, loro che ti inventavano nuovo petèl per ogni figlio in fasce

tra gli stenti, le grida di parto, la fame, le nausee. Girare mi dà fastidio, in mezzo a queste macerie di te, di me. Dal dente accanito del tempo avanzi non restano nel piatto; e meno di tutto i cimiteri: devo dirti cimitero? È vero che non può esserci più ormai

nessun parlare di néne-nonne-mamme? Che fa male ai bambini il petèl e gran maestri lo sconsigliano. È vero che scriverti,

vecchio parlare, è troppo faticoso, è un male anche per me, come prendere a rovescio, per obliquo, far slogare i tendini delle mani? Ma intanto qui attorno, girando per i mercati, e meglio andando per campi e clivi e balze là dove il gallo di cristallo canta sempre tre volte, da giuste bocche ti si sente. Io ho perduto la traccia, sono andato troppo lontano pur rimanendo qui 116 C L AU D I O A M B R O S I N I

avvitato, imbullonato, diventato quasi un ceppo di piombo, e la poesia non è in nessuna lingua

in nessun luogo – forse – o è il rugghiare del fuoco che fa scricchiolare tutte le fondamenta

dentro la grande laguna, dentro la grande lacuna –, è il pieno e il vuoto della testa-terra

che tace, o ammicca e fiuta un passo più oltre di quel che mai potremmo dirci, far nostro.

Ma tu, vecchio parlare, persisti. E seppure gli uomini ti dimenticheranno senza accorgersene,

ci saranno uccelli –

due o tre uccelli soltanto magari dagli spari e dal massacro volati via –: domani sull’ultimo ramo là in fondo in fondo a siepi e prati,

uccelli che ti hanno appreso da tanto tempo, ti parleranno dentro il sole, nell’ombra.

Nel terzo dei frammenti che ho scelto la tensione si distende nel languore di un’o-ra crepuscolare ma non funerea, in cui sembun’o-ra anzi possibile ritrovare la forza per rimettersi in cammino, l’energia per andare avanti guidati dall’immagine luminosa di un parlare «aperto sulla luce e sul buio», tagliente e capace di affilarsi ed anche di filare la sempre nuova trama fatta di sogno e di ragione: filo di arazzo, filo di tap-peto volante, filo di lana, filo di lama.

L’ora se slanguoris inte ‘l zhendre del scaldin, l’é l’ora de des’ciorse, de assar al calduzh, al coàt. Ma da ‘ste poche brónzhe de qua dó,

dai fià dei filò de qua dó, si i fii, si i fii

del insoniarse e rajonar tra lori se filarà, là sù, là par atorno del ventar de le stele se inpizharà i nostri mili parlar e pensar nóvi inte ‘n parlar che sarà un par tuti,

fondo come un basar, vèrt sul ciaro, sul scur,

davanti la manèra inpiantada inte ‘l scur col só taj ciaro, ‘pena guà da senpre.

L’ora illanguidisce nella cenere dello scaldino, è l’ora di andarsene, di lasciare il calduccio del covo. Ma dalle poche braci di quaggiù,

dai fiati dei filò di quaggiù, se i fili se i fili

del sogno e della ragione tra loro si fileranno, lassù, nei dintorni del tirar vento di stelle

si accenderanno i nostri mille parlari e pensieri nuovi in un parlare che sarà uno per tutti,

fondo come un baciare, aperto sulla luce, sul buio,

davanti alla mannaia piantata nel buio

col suo taglio chiaro, appena affilato da sempre.

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Lettura del testo

Questi i tre momenti estratti da Filò. Affini e nello stesso tempo caratterizzati da architettura, andamento e scansione interna assai differenziati, ben percepibili anche ad una prima lettura.

La prima strofa, per esempio, pur nella sua brevità, da un punto di vista metrico e concettuale è un tripudio di alternanze tra elementi binari e ternari.

Di «O come ti cressi, o luna dei busi fondi», colpisce immediatamente l’avvicen-darsi di frasi-immagini distese, dal passo cadenzato (i primi due versi, per esempio) cui si contrappongono improvvise aritmie, accelerazioni, asimmetrie subito risolte in bilanciamenti anche speculari, come in quel rimbalzante «nu par ti, ti par nu» del terzo verso.

Un gioco simile si ritrova anche nella metrica, altalenante – venezianamente ‘don-dolante’, si direbbe – tra accentazione binaria e ternaria, tra polarità dispari e pari. Ai primi due versi, che si aprono sostenuti da una pulsazione ternaria per chiuder-si invece binariamente:

O còme ti crèssi, o lùna dei bùsi fòndi, (3 terzine, 2 duine) o còme ti nàssi, cavègi blù e biòndi (2 terzine, 3 duine)

succede il terzo verso (binario, ma a doppia terna di monosillabi) in cui il ritmo subisce un’improvvisa accelerazione, una sorta di contrattura palindromica, ‘a rimbalzo’:

nu par ti, ti par nu

Nel distico succitato sono evidenziabili altre raggruppabilità, binarie e simmetriche, se si mette una cesura dopo «cressi» e «nassi», per cui la prima metà di ogni verso (metricamente ternaria) contiene due concetti, la seconda (binaria) ne contiene tre. L’intera strofa poi si configura come una sestina di distici a rima baciata, ma la ‘rot-tura’ rappresentata dal terzo verso produce un raggruppamento percettivo in due terzine. La seconda di queste presenta caratteristiche affini alla prima, sia nella sud-divisione in emistichi paralleli (cesura dopo «marina» e «barene»), che nell’alter-nanza dondolante di accenti ternari e binari.

Il sesto verso contiene ancora tre elementi (a scansione ternaria con chiusa binaria) per concludersi nel settimo, costituito anch’esso da tre elementi (binari, come varia-zioni a partire dalla radice Ven-) di cui il secondo, «Venaga», è di invenzione e frut-to della fusione di termini già apparsi nei versi precedenti.

Valeva la pena soffermarsi su questa ‘strofetta’ – come la definisce amabilmente Andrea – per notare come tali simmetrie fluttuanti costituiscano una sorta di pre-messa, segnino quasi le regole ed il ‘campo di gioco’, per frantumarsi di colpo pas-sando poi alla frastagliata ricchezza della seconda parte: velocissima, pressata dal-l’urgenza, dal senso di sofferta testimonianza, animata da una varietà ed irregolari-tà modernissime, quasi jazzistiche:

Vècio parlàr chè tù à ìnte ‘l tó saór un s’cìp del làt de la Èva...

Al passo cadenzato, ‘educato’ della prima strofa si sostituisce ora un andamento scattante, zig-zagante, incalzante, in cui colpisce l’incastonatura sapiente di piccole, inattese simmetrie, allitterazioni, omofonie, rime poste all’interno o all’inizio dei versi, a rallentare il percorso come dei ‘fermo-immagine’ capaci di creare inattesi controritmi.

Allo stendersi lineare, anche se sincopato, dei versi (la cui ‘orizzontalità’ è resa più percepibile da alcune rime baciate e assonanze) si associa ora l’innervatura vertica-le data da improvvise ‘modularità’ che, vertica-legando trasversalmente i versi con nodi interni, ne arricchiscono e contrappuntano la trama. Nel frammento che segue que-ste ‘risonanze’ sono evidenziate e visivamente imparentate mediante l’uso di gras-setto, maiuscoletto corsivo, sottolineatura e trattini:

vecio parlar che no so pi, che me se á descuní

dì par dì ‘nte la BOCA(e no tu mebasta); che tu sé cambià COLA mefazha

co la me pèl ano-par-anano-par-an

Del terzo e ultimo dei frammenti estrapolati da Filò mi aveva colpito – oltre al tono conclusivo e nello stesso tempo incipiente, aurorale – il senso armonioso di una respirazione: i versi si espandono e si contraggono – non più ansimando come nella seconda parte ma nemmeno scanditi dal palleggiare di ritmi della prima – in una sorta di marea ariosa che pervade ciò che le sta intorno e che riporta, subliminal-mente, all’immagine iniziale di una Venezia che inlaga le barene, che il mare più non trattiene.

Ritroviamo, ma di molto ampliato, quell’‘aprirsi del compasso’ che caratterizzava i verbi dell’incipit («des’ciorse, assar al calduzh, insoniarse, rajonar, filar, ventar, vèr-zer»): è un rimettersi in moto definitivo guardando da giù a su e in ogni direzione. E anche in questa strofa finale, al quinto verso, un’improvvisa ‘contrazione’ medi-tativa («si i fii, si i fii»), in questo caso quasi un’eco, affine a quelle già incontrate. C’è una luce nuova in questi versi, una saggezza affettuosa e una fluidità, una liqui-da trasparenza che conduce pian piano lo sguardo liqui-dai «fià dei filò» ad un «parlare profondo come un baciare» e infine al taglio affilatissimo e abbagliante de «la manèra inpiantada inte ‘l scur»: la lama della lingua che da sempre fende, con pre-cisione, l’oscurità.

In musica

La resa, non solo musicale ma anche formale, di un testo tanto intenso e ricco, è passata innanzitutto attraverso la scelta di affidare al canto solo la prima e la terza parte del trittico, riservando invece la zona centrale al puro parlato. È la

colloca-119 D A I F I L Ò D I Z A N ZOT TO

zione privilegiata della ‘pala’ più importante: uno spartiacque ‘francescanamente’ trattenuto nella veste di un contrappunto ‘povero’, basso, fatto più di fonemi, sus-surri, bisbiglii e gridi che non di note aulicamente intonate. Come se, usciti momen-taneamente dal contesto, partecipassimo – ‘in presa diretta’ – della ricchezza vitale ed emotiva dei veri filò.

In questo modo mi pare che la meditazione del poeta, quel suo coraggioso – e solo in apparenza ‘semplice’ – risalire alla lingua materna e rivolgersi ad essa per cerca-re di capicerca-re cosa sia successo ad entrambi; quella sua confessione e quella ulteriocerca-re riflessione, così toccanti:

Élo vero che scriverte,

parlar vecio, l’é massa un sforzh, l’é un mal anca par mi,

[...]

Mi ò pers la trazha,

lontan massa son ‘ndat pur stando qua, invidà, inbulonà

[...]

e la poesia no l’é in gnessuna lengua in gnessun logo – fursi

abbia modo di manifestarsi senza orpelli. 120 C L AU D I O A M B R O S I N I

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«O come ti cressi, o luna...»

Dai Filò di Zanzotto si apre col pianoforte solo che, alternando eventi diversi e assai caratterizzati, presenta gli oggetti sonori, i ‘temi’, che si ritroveranno poi sviluppati nel corso del lavoro (esempio n. 1). Nello stesso tempo questo incipit strumentale traccia i confini dello spazio acustico e percettivo nel cui ambito il brano si muoverà, segnan-done gli estremi, le traiettorie, le escursioni e alcune delle caratteristiche per quanto concerne la dinamica, l’estensione, l’articolazione, il fraseggio, le prassi strumentali. È una definizione astratta, tutt’al più figurale; ma è possibile leggervi forse anche una allusione ‘figurativa’, collegabile a quell’idea di una ‘venezianità’, materna ed ancora fremente, che abbiamo visto caratterizzare il testo della prima strofa. L’ambiente sonoro appena delineato potrebbe cioè qualificarsi anche come uno spazio risonante, riverberante, percorso a tratti da ondate di energia incontenibile (l’apertura ‘a squarcio’ delle prime due accollature) che si disperde in catene di ‘echi variati’ (accollatura 3), o pervaso dal suono evocativo di campane perse in una lontananza nebbiosa (accollatura 5 e accollatura seguente), da cui ritornano gli echi misteriosi di rombi scuri, profondi (accollature 4, 5 e 6).

Si tratta quindi di un ‘ambiente’ non statico, non squadrato né rigido bensì fluido, instabile, cangiante. Per creare la situazione – tipica di Venezia – di una realtà soli-da – quella di case, ponti e palazzi – cui ‘fa eco’ la stessa immagine riflessa nei cana-li, continuamente deformata e infinitamente variata dal moto tremolante delle onde.

Nel documento Andrea Zanzotto Tra musica cinema e poesia (pagine 113-141)